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Roma, comando di Montesacro

Sei chilometri a nord-est della Questura centrale si trova il comando di polizia di Stato di Montesacro. In un ufficio molto diverso da quello in cui Vincenzo Gugliotti stava facendo la sua telefonata, un altro funzionario pubblico era seduto alla propria scrivania, davanti al pc acceso. La finestra era chiusa e la veneziana sollevata. Fuori, il freddo invernale aveva gelato l’asfalto. Dentro, il bagliore del neon rimbalzava sui muri ingialliti.

Lo schermo illuminava la faccia stretta tra i palmi delle mani, i gomiti piantati sul piano orizzontale, il collo della camicia nera aperto. Sul vecchio divano giaceva un trench, era nuovo, ma simile a quello precedente distrutto in un incendio pochi mesi prima. Il corridoio era vuoto e silenzioso.

Enrico Mancini si passò indice e pollice sugli occhi arrossati. Mise a fuoco e vide il cursore brillare nella casella dell’indirizzo a cui rispondere. Inspirò e buttò fuori l’aria in uno sbuffo che avrebbe dovuto ridargli un po’ di determinazione.

 

Enrico,

sono passati tre giorni dal nostro ultimo incontro. Come sai, non ho nessuna pretesa, nessuna speranza. Non faccio ipotesi. Aspetto solo una chiamata.

Chiamami allora.

G

 

Doveva rispondere? Una nebulosa di emozioni si propagava tra lo stomaco e la testa. Ecco cos’aveva addosso: per la prima volta dopo tanto tempo Enrico provava il fastidioso logorio del dubbio. Le violente scosse di assestamento che aveva subito non avevano prodotto nessun nuovo equilibrio. Non era la memoria dell’amore morto a premere, erano piuttosto le abitudini di tutti i giorni, anche quelle più insignificanti, che non riusciva a gestire. Da quando aveva abbandonato la protezione dei guanti, stava provando a fare qualcosa per sé, come gli aveva chiesto la dottoressa Antonelli, la psicologa del comando. E farlo voleva dire eliminare una cosa ogni giorno: un ricordo, un oggetto, una delle consuetudini che aveva sviluppato quando tra le quattro pareti di casa erano in due. Aveva iniziato dal bagno, convinto che sarebbe stato più facile, o forse era solo più difficile partire dalla cucina, carica di immagini felici, o dalla camera da letto dove ancora regnava il disordine di Marisa.

Così, aveva tolto lo spazzolino verde dal bicchiere sul lavello di destra. Poi era stato il turno dell’asciugamano che per mesi aveva continuato a lavare e a rimettere a posto.

Aveva iniziato, sì, ma a un certo punto aveva dovuto interrompere quella terapia della sottrazione e la maggior parte delle cose era ancora in giro. I libri sul comodino, i dischi nella cassetta della verdura che lei aveva colorato di rosso, il cuscino dei Peanuts sul divano nel soggiorno, in attesa che Marisa tornasse e si accucciasse accanto a lui, rannicchiata tra le soffici coltri del plaid. L’odore del bagnoschiuma ancora addosso. Dolce e reale.

E poi c’era quel cassetto che Enrico non aveva mai aperto. Il mio forziere, lo chiamava Marisa, chissà cosa ci aveva nascosto. Sapeva dove aveva lasciato la chiave, ma non se n’era mai interessato. Per un attimo s’illuse. Immaginò di trovarci qualcosa di lei che gli desse un po’ di respiro. Un diario in cui aveva scritto di loro due, una foto insieme, qualunque cosa a cui aggrapparsi per sentirla ancora viva. Perché il dolore aveva lasciato il posto alla nostalgia che, come la risacca, si trascinava via ogni volta un pezzetto di memoria. Quello che davvero lo terrorizzava, lasciandogli dentro un senso di vuoto, era di poterla perdere di nuovo. Smarrirla nei ricordi, nella memoria tattile, olfattiva, visiva. Dimenticarne la voce, morbida e graffiante. Sentiva che i contorni di quel viso bellissimo si stavano disfacendo come si consuma un foglio di carta che brucia. Il fresco odore della pelle, prima che le cure lo alterassero invano, era svanito dalle lenzuola. Lo aveva cercato dappertutto in casa. Aveva paura perché, lo sapeva, anche i fantasmi, a un certo punto, svaniscono. E perché anche la morte, con il gelo che impietrisce l’esistenza di chi resta, muore.

Chiuse gli occhi e inspirò sperando di assorbire un po’ di serenità. Ma le immagini che presero a scorrere sulla pellicola della memoria sapevano al contrario di un fresco rimpianto. Se fossi rimasto a Polino, si disse, rientrando mentalmente nella casa in montagna... Sulla valletta, il paese cresceva arroccandosi tra rocce e strapiombi, i tetti spioventi e i fili color panna dei comignoli che sbuffavano vincendo la resistenza della nebbia. Lontano, in alto sulla montagna di fronte, la foschia aveva vestito le cime inglobando anche la vecchia miniera. Le macchie di faggi interrompevano l’estesa superficie sassosa e al centro del rilievo, dimenticato dallo spirito del vento, spiccava l’anello della radura. Riusciva a distinguerlo nitidamente, quasi fosse ancora lì, il profilo contorto del castagno. Immaginava le cicatrici che fendevano il tronco dall’alto in basso. Ma da quegli squarci, lo sentiva, presto sarebbero germogliate nuove speranze di verde.

Riaprì gli occi.

Sì, doveva risponderle.