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Roma, sottosuolo
Nel ventre imputridito della città serpeggia l’intrico di cunicoli e canali. Duemila chilometri di reticolo fognario, domestico e industriale, che straziano le viscere di Roma.
Sotto le Terme di Diocleziano, in fondo al labirinto clandestino, a una trentina di metri dal corridoio che stava percorrendo Caterina, due cerchi nocciola tremolavano dentro al bianco degli occhi. Le narici palpitavano per la sete d’aria, le labbra sottili si aprivano a scatti. Il pallore del viso cozzava col nero della maglia che aveva addosso. Le braccia erano deboli per lo sforzo di resistere alla presa di quattro mani. I due che lo tenevano sollevato da terra erano ragazzi come lui, forse di poco più grandi. Lo stavano portando via, avanzando nel sottosuolo. L’aria puzzava del piscio rappreso delle tribù che vivevano là sotto.
A dicembre, compiuti dodici anni, aveva deciso di allontanarsi dal freddo del Tevere. Ci aveva messo due giorni ad arrivare fin lì, muovendosi sempre a piedi perché i mezzi li odiava. Non se li scordava gli sguardi di disprezzo della gente quando saliva sul 170 o prendeva la metro. Caterina era stata la prima a non guardarlo in quel modo, ma ormai anche lei era acqua passata. Ora Niko voleva un lavoro tutto suo, era giunto lì in stazione proprio perché aveva sentito che si trovava facilmente. Abbandonato il suo rifugio sul Porto Fluviale, aveva vagato per settimane sul Lungotevere dormendo dove trovava riparo. Era arrivato sulla Magliana e aveva trovato una baracca di lamiere di un’altra famiglia rom prima di lui. Ma lì di rom non ce n’erano più: da quando il comune aveva destinato loro delle case popolari e il campo sulla Pontina era stato ingrandito e migliorato, se ne vedevano di meno. A lui non importava, ormai si sentiva una creatura del fiume, simile a una rana, metà in acqua e metà a terra. Uno di mezzo, insomma. E poi c’era lei, Caterina, che gli comprava cheeseburger e Coca-Cola. L’aveva vista ancora ma, poi, quando era venuta fuori con quella cosa di affidarlo a chissà quale associazione, aveva deciso di abbandonare anche lei. Non che non gli piacesse, gli lasciava sempre qualche soldo e gli aveva comprato la maglietta nera che indossava. Ma non poteva rischiare di trovarsi costretto, né tra le reti del campo rom, né tra quelle invisibili di un’associazione che di lui e della sua vita non avrebbe mai capito nulla. Era quello il suo posto, nel mondo di mezzo.
Quando era arrivato a Termini, non immaginava che il lavoro fosse quello che facevano quei due. Ne aveva visti di vecchi passare per di là e all’inizio aveva pensato che fossero diretti al cinema dietro l’angolo. Finché uno di loro, quello col berretto da baseball, si era avvicinato, la mano che si muoveva nella tasca della tuta. Niko aveva capito. L’uomo aveva estratto un rotolino di euro e gli aveva fatto un cenno con la testa, indicando lo spazio tra due bancarelle di libri che a quell’ora erano chiuse.
Era stato in quel momento che i due ragazzi lo avevano preso e portato via, mentre il maniaco si era dileguato in un soffio. E, anche se capiva pochissimo la loro lingua, era chiaro che erano incazzati perché credevano che lui fosse lì per rubargli i clienti. Lo avevano strattonato e spinto fino all’orlo del buco e quello più alto lo aveva buttato giù. Là sotto tutte le camere, ogni cunicolo, ogni botola, persino i tombini e le bocche di lupo formavano una piccola città sotterranea. Gli slarghi erano invasi dall’acqua che cadeva dall’alto. A volte erano solo rivoli, a volte piccole cascate.
Adesso lo stavano trascinando e dovevano essere stanchi perché i piedi di Niko strusciavano per terra, nudi e intorpiditi dall’acqua fredda e limosa. Quello a sinistra disse qualcosa a bassa voce. L’altro gli rispose con una parola sola, alzando un poco la voce. Parlavano arabo. Niko non era in grado di capire molto di quella lingua assurda, ma i mesi per strada e i lavoretti che aveva rimediato ai mercati sulla via Ostiense con i ragazzi marocchini qualcosa glielo avevano insegnato. Le parole che credeva di aver riconosciuto, però, non avevano senso: «ultima stanza», «ragazzo con gli occhi di cielo». E quelle che sembravano averne erano le più inquietanti: «Finirà come quello che ha preso ieri notte».
A pochi metri da loro c’era una camera-raccordo per i fluidi della zona. Aveva la forma rotonda di una ruota da cui i cunicoli si diramavano come raggi. In alto, cinque metri sopra le loro teste, si aprivano due pozzetti d’ispezione. Mentre lo trascinavano chissà dove, Niko sollevò il capo nella speranza di trovarne uno aperto, di cogliere la luce artificiale della notte.
L’odore era mutato, e ora prevaleva un’essenza acida nell’aria simile al puzzo dell’aglio. Stavano entrando in un serbatoio chiuso da una grata di ferro circolare di due metri di diametro che ostruiva il passaggio. Uno dei due la spalancò spingendo forte sul lato con la serratura e dopo due cunicoli i tre si fermarono di fronte a una griglia gigantesca.
Da lì si scorgeva l’ultima stanza.
All’interno, la penombra aveva vinto sulla luce di un lampione che filtrava attraverso una bocca di lupo. Senza preavviso, da sinistra giunse un suono di passi e la superficie dell’acqua s’increspò. Tutti e tre si affacciarono alla griglia per scrutare oltre le fessure. Era un po’ come guardare attraverso gli occhi di una mosca. Tutto appariva frammentato, spezzettato, proiettato da una cinepresa al rallentatore.
Poi, dalla volta spuntò un uomo. Era giovane, i capelli chiari. Guadagnò il centro della stanza. Non sembrava averli visti e loro restarono in silenzio, pietrificati. Avrebbero voluto scappare. Ma nessuno fece una mossa. Perché davanti ai loro occhi stava per succedere qualcosa.