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Roma, Questura centrale
IL MESSAGGERO
LO SCULTORE SPAVENTA ANCHE LA POLIZIA
Ieri sera, l’omicida seriale conosciuto da pubblico e media come «lo Scultore» ha colpito nel quartiere di Montesacro. La vittima dell’assassino stavolta è stato il professor Carlo Biga, noto criminologo e collaboratore della polizia di Stato. Al momento non si conoscono i particolari del caso e come si leghi con i precedenti del serial killer. Gli inquirenti non hanno voluto rilasciare dichiarazioni e il questore non è ancora intervenuto sulla vicenda da quando il mostro ha preso a terrorizzare la capitale.
«Richiamalo! Non risponde», si infuriò Gugliotti col povero Messina, che lo scrutava spaventato. Come prevedibile, il caso alla fine era giunto ai telegiornali nazionali e aveva travolto anche il questore.
Stavolta si sarebbe dovuto dimettere. Lo sapeva bene, ma era sicuro che Mancini sarebbe caduto con lui e la cosa in parte lo consolava. Era talmente spaventato da quello che stava accadendo attorno a lui che non era nemmeno andato sulla scena del crimine e a farsi fotografare lì. Era paralizzato.
Messina compose nuovamente il numero di casa del commissario Mancini e poi subito quello del cellulare, ottenendo il medesimo risultato: niente di fatto.
In tutto quel casino, Carlo Biga lottava tra la vita e la morte. E non era un modo di dire. Aveva subito tre trasfusioni, la prima delle quali ricevuta dallo stesso commissario Mancini.
Il killer aveva lasciato il professore a dissanguarsi. A salvarlo erano stati la rudimentale confezione della cannula, le cui pareti interne si erano attaccate impedendo al sangue di defluire velocemente, e il taglio superficiale sulla giugulare. Il cuore del vecchio criminologo aveva continuato a pompare lentamente nonostante la perdita di coscienza, e nelle due bottiglie da 750 cl era finito solamente un litro di sangue.
Gugliotti non aveva mai nutrito simpatia per Biga, ma se si fosse salvato l’opinione pubblica avrebbe avuto il suo contentino e lui avrebbe potuto gestire la situazione come un mezzo successo. Mentre, se fosse morto, avrebbe usato la cosa per allontanare Mancini dal servizio. Stavolta definitivamente.
Anche Alexandra Nigro, che aveva mandato a collaborare con Mancini e Comello nelle indagini sullo Scultore, lo aveva deluso. Lo avevano colpito la rapida carriera della studiosa e il suo piglio e si era convinto ad affiancarla al commissario, certo di poter risolvere velocemente il caso. Invece, man mano che il numero di quelle mostruose opere d’arte cresceva, aumentava anche lo scandalo che lo stava investendo dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio i suoi errori di valutazione.
«Niente da fare, dottore.» Messina scrollò le spalle sconsolato e riattaccò.
Il commissario era rimasto tutta la notte in ospedale. Dopo la trasfusione lo avevano lasciato su una branda perché riposasse e gli avevano offerto da mangiare e delle bustine di glucosio liquido. Lui aveva rifiutato ed era rimasto nel buio di una stanzetta che ospitava due scaffalature in metallo e una serie di scope e secchi, a smaltire la stanchezza e la sensazione di sconforto che non gli dava scampo.
Giulia si era proposta di restare ma lui l’aveva mandata via cercando di non essere troppo duro. Voleva restare solo con i propri pensieri. Il primo, il più vile, aveva la voce di lei, Giulia Foderà, la donna a cui aveva ceduto, dopo tanto tempo, un pezzetto del proprio cuore, animato dalla speranza che ci fosse una possibilità di ricominciare. Si vergognava di se stesso, ma la sensazione che aveva era netta e tagliente come una lama: era colpa di Giulia, perché se non fosse capitata al comando e Walter non lo avesse avvertito di tornare a casa per intercettarla, lui non avrebbe lasciato solo il professore.
Poi, però, subito, un’altra voce gli diceva che la colpa era tutta sua, perché non aveva risposto alla mail di Giulia. Aveva tergiversato, incerto sul da farsi, perché era così che si era ridotto: tormentato da uno sciame di dubbi e incertezze. Aveva avuto paura di risponderle per non darle false speranze, ma anche per non concederle a se stesso. Perché in fondo, e su questo non poteva sbagliarsi, quella donna aveva trovato casa nei suoi pensieri più intimi. Era entrata in punta di piedi scavandosi uno spazio nella pietra dura del suo cuore, complice una fragilità che Enrico credeva di essersi lasciato alle spalle. Quando era successo, era stato bellissimo, perfino senza pensieri. Ritrovarsi nuovamente con una donna, poi, non avrebbe mai creduto di riuscirci senza il pensiero asfissiante del tradimento, del confronto con l’odore di Marisa, con il suo sapore. Dopo che era successo, però, lui era scivolato in una zona d’ombra da cui non era più riemerso, un limbo in cui aveva galleggiato per giorni e giorni. Un labirinto di specchi che rimandavano sempre le stesse domande: che peso aveva quella donna nella sua vita, nella sua nuova vita?
Il secondo pensiero che non gli aveva dato tregua nemmeno nella mezz’ora in cui s’era addormentato, e l’incubo che aveva fatto lo stava a testimoniare, era il senso di colpa che nutriva nei confronti del professore. Biga era riuscito, chissà come, a chiamarlo mentre lo Scultore lo torturava, la cannula nel collo, il sangue e la vita giù nella bottiglia. Ma lui non aveva risposto, non lo faceva mai. E quando, andando verso casa per risolvere la faccenda con Giulia, aveva sentito il cellulare vibrare nella tasca dei jeans aveva pensato che potesse essere Walter, o qualche aggiornamento sull’indagine, e che comunque non fosse tanto importante quanto ciò che aveva trovato il coraggio di dire a lei. Che era finita.
Anche stavolta era arrivato tardi. Il 15 maggio, un anno prima, aveva perso l’ultimo sguardo di Marisa, agonizzante, l’ultimo bacio di vita, non era riuscito a dirle: «Ciao, amore mio». Adesso era accaduto con l’uomo che lo aveva cresciuto, insegnandogli tutto quello che sapeva, guidandolo nel mondo della criminologia, facendogli quasi da padre.
Lo aveva guardato a lungo, mentre gli infermieri preparavano entrambi alla trasfusione. Sotto le loro mani, il professore sembrava una cosa morta, senz’anima e calore. Da qualche parte dentro quel corpo esausto c’era lo spirito guerriero del suo vecchio amico, anche se i segnali dall’apparecchiatura per l’ECG collegata al petto erano fievoli come la speranza di vederlo nuovamente in piedi.
Il cellulare vibrò ancora. Lo afferrò sorprendendosi a pensare che potesse essere una replica più fortunata del film andato in onda poche ore prima davanti alla porta della villa di Biga.
Era quel bastardo di Gugliotti. Rifiutò la chiamata e richiuse gli occhi in cerca delle risposte alle domande che gli affollavano la mente. Non fece in tempo a rituffarsi nel suo mare amaro che qualcuno bussò sullo stipite. Si tirò a sedere e mise a fuoco la sagoma ingombrante di Comello. Dietro di lui c’erano Rocchi e Alexandra.
«Caterina ha trovato qualcosa, commissario. Giù all’Archivio di Stato. A proposito delle mappe del sottosuolo di Roma», disse l’ispettore.
Mancini appiccicò gli occhi su Walter come se fosse trasparente. Poi voltò la testa dall’altra parte.
«Andate via, per favore.»
«Commissario», intervenne Alexandra, «so che sono l’ultima che può parlare, ma abbiamo bisogno di andare fino in fondo. Siamo vicini.»
Lo sguardo del commissario si fece improvvisamente rigido. Gli occhi gialli non lo imbarazzavano più. E parve sul punto di dirle qualcosa, ma si trattenne.
«Vattene via. Andate via tutti.»
Rocchi scostò Walter e si avvicinò alla branda. Posò la mano sul braccio del commissario. «Enrico, Caterina ha le prove che lo Scultore si muove sottoterra, non ci ha ricavato solo i suoi nascondigli. Si sposta di notte. Nelle fogne sotto le Terme di Diocleziano lei ha seguito delle tracce di sangue che l’hanno portata...»
«Siete sordi? Fuori dalle palle.»
«Commissario...» azzardò Walter.
«Fuori!» Il tono era salito a coprire le parole degli altri, i suoni distanti dell’ECG e la rabbia che si stava scatenando. Una collera molto più antica del dolore delle ultime ore. Un odio feroce a cui non aveva saputo dar voce sino ad allora. A fatica, Mancini si mise in piedi. Aveva il mento poggiato sul petto e sentiva le gambe molli. Staccò lo sguardo dal pavimento e lo piantò in faccia al medico legale. In un secondo, con un mezzo passo, afferrò il vecchio maglione di Rocchi proprio sotto la gola. Lo strinse forte e lo scosse come si fa con un tappeto.
Antonio non era sorpreso né sembrava spaventato: «Non hai colpe. Rimettiti dalla trasfusione e riprendiamo. Subito. Senza pensarci».
«Senza pensare a cosa?» disse Mancini, lasciandolo andare.
Rocchi non aprì bocca e il commissario continuò a fissarlo. Lo sguardo però s’era fatto fiacco e la collera s’era già spenta.
«Senza pensare che tu non c’eri quando lo Scultore lo ha...» Rocchi allungò il braccio in direzione della stanza dove si trovava Biga. «... gli ha fatto quello. Non puoi prendertela con te stesso per non aver risposto alla chiamata del professore. Smetti di vivere tutto con questo senso di colpa.»
«Tu non sai di cosa parli.»
«Lo so benissimo, invece. Parlo di te. Da quando hai perso Marisa non sei più tu.»
Mancini si guardò attorno, improvvisamente imbarazzato dalla presenza degli altri.
«Non sei riuscito a tornare in tempo allora, e questo ti tortura ancora. Non aggiungere peso al peso.»
Lo schiaffo arrivò fulmineo e gli occhiali volarono per terra nel silenzio.
«Commissario...» Alexandra scosse piano la testa.
Antonio si abbassò, li raccolse, si drizzò e li rimise sul naso. La guancia sinistra era rossa e pulsava. Mancini cadde all’indietro atterrando sulla branda. Il capo ciondoloni, gli occhi umidi. Poi Rocchi superò Walter e Alexandra e uscì dalla stanza. Enrico lo aveva colpito di fronte a lei e il dolore di quello schiaffo affondava oltre la superficie della pelle che si stava gonfiando.
«Ho sbagliato due volte. Avrei dovuto sparargli», mormorò Mancini.
Alexandra sussultò.
Walter era deluso, ma voleva provarci lo stesso. «Commissario, io non posso giudicare nessuno. Né posso farlo con il suo dolore, soprattutto. Però una cosa gliela devo dire, da poliziotto a poliziotto. È il servitore dello Stato che c’è in me che parla a quello che si trova dentro di lei.»
Alle spalle dell’ispettore, la grossa finestra contornava lo sfondo scuro della notte su cui si incardinava la figura sottile di un lampione spento. Dal basso saliva il vapore biancastro di una cisterna per il raffreddamento dell’ossigeno.
«Se non troveremo quest’uomo, se non riusciremo a fermarlo, moriranno altre persone e stavolta sì, sarà anche per colpa sua.»
Mancini teneva la testa tra le mani, le parole di Antonio e Walter come un’eco ritmata dai bip dell’ECG nella camera a fianco. Finché un suono lontano s’insinuò: Franco Mancini sulla bicicletta con cui andava a lavorare, il lieve fruscio dei raggi nell’aria fredda del mattino. Anche lui, suo padre, perso tra le ombre del passato, insieme al vestito lilla di Marisa e, presto, alla grande casa del professor Biga. Quella bici ora arrugginiva nella sua cantina, l’abito di sua moglie nell’armadio in cui lo aveva lasciato lei prima dell’ultimo ricovero, e la villetta sarebbe rimasta dov’era anche dopo la scomparsa del vecchio. Tutte quelle cose erano sopravvissute alle persone che le avevano possedute, e amate. Mentre loro, esseri animati, le loro speranze, gli affetti, le emozioni, erano scomparsi, polverizzati nella morsa del tempo. In quello che avvertì come un palpito d’eternità, Enrico Mancini si sentì improvvisamente solo.
«Per favore, andate via, ora.»
Stavolta nessuno si oppose. Si voltarono, scambiandosi occhiate di rammarico, e uscirono dalla stanzetta senza fiatare. Nemmeno per le scale riuscirono a dirsi niente e una volta fuori si salutarono con un cenno della mano.
Tre piani più su, Enrico Mancini si preparava in fretta. Se non voleva diventare un’ombra prima che anche il suo corpo si riducesse in polvere, doveva trovare la forza di specchiarsi nel proprio dolore.
Ancora una volta.
Un’ultima volta.