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Roma, monastero di Santa Lucia in Selci
Stavolta il cancello era chiuso. Caterina si attaccò al citofono sopra il quale campeggiava una placca: MONASTERO DI CLAUSURA SANTA LUCIA IN SELCI. Il nome, Caterina aveva studiato, proveniva dagli antichi resti di lastricato romano detti silices che qua e là spuntavano ancora sotto i sanpietrini. Più in basso c’era scritto MONIALES ORDINIS SANCTI AUGUSTINI-MONACHE AGOSTINIANE.
Il brusio del ricevitore che si sollevava si confuse con quello di una voce minuscola, lontana. Caterina azionò la piccola fotocamera digitale nascosta nella penna. «Sì? Sorella? Sono l’agente De Marchi della polizia di Stato.»
Il rumore di fondo scomparve. La donna all’altro capo del filo aveva attaccato. Caterina rimase in attesa che la monaca o chi per lei le venisse ad aprire. Ci furono un ronzio e uno scatto. Dopo qualche istante in cui fu tentata di spingere la cancellata ed entrare come la volta precedente, sulla soglia si ritrovò di fronte una suora.
«È lei che ha suonato, signorina?»
«Sì, mi scusi», rispose Caterina avvicinandosi mentre tentava di asciugarsi le mani sul retro dei jeans. «Sono l’agente De Marchi della polizia di Stato», ripeté, senza suscitare alcun effetto nella donna.
A giudicare dall’ovale del viso che il lungo abito bianco lasciava intravedere, la monaca era ben oltre i settanta. Le rughe segnavano il volto costretto nella sua cornice, mentre l’abito era stretto in vita da un cingolo nero, e alla fine delle gambe corte comparivano due scarpette minuscole dello stesso colore.
«Può dirmi il suo nome, sorella?» disse Caterina estraendo la penna e un taccuino su cui avrebbe fatto finta di appuntare qualcosa. Intanto scattava cliccando sul cappuccio.
«Sono solo una donna di Dio, il mio nome non conta», rispose la suora, con un sorriso che moltiplicò il numero delle linee sul suo viso. «Cosa vuole, signorina?» aggiunse con una certa urgenza.
«Solo qualche domanda. È per un’indagine importante.»
La donna corrugò la fronte e Caterina estrasse il distintivo facendo cenno di entrare nel cortile. La monaca si fece da parte, abituata a scansarsi di fronte ai simboli più grandi di lei. Richiuse il cancello alle spalle della poliziotta e rimase a guardarla, in silenzio.
L’imbarazzo di Caterina durò pochi istanti. Il tempo di lasciar vagare lo sguardo sulle statue della Madonna e di santa Lucia.
«È la vostra patrona, o come si dice?»
«Sì», rispose la monaca infastidita.
«Vorrei sapere come funziona il convento... Siete solamente donne, giusto?»
«Per ogni informazione sul convento e sull’ordine delle monache agostiniane può contattare la diocesi di Roma. Io non posso dare informazioni», concluse la religiosa, e fece per accompagnare la fotorilevatrice verso il cancello.
«Mi scusi, sorella, ma io...»
L’altra si voltò di scatto e, dal basso, compresse gli occhi a due fessure dicendo: «Questo è un monastero di clausura, signorina. Sa cosa vuol dire?»
Caterina serrò le labbra, abbassò gli occhi a terra e lasciò la monaca sul posto.
«Ora dove va?»
Caterina era partita e la vecchia monaca le trotterellava dietro. La poliziotta attraversò il piccolo cortile con le palme e si fermò di fronte all’alto portone di legno. «Cos’è questo?» domandò alla religiosa che l’aveva raggiunta.
La poliziotta indicava il battente circolare. «Questo?»
Quasi nascosto dall’anello di ferro, nel pannello di legno era incisa una figura. Non era una croce, nemmeno il volto del Cristo o della patrona del monastero, santa Lucia in Selci. Era un volto. Un ghigno disumano straziava una larga faccia barbuta, gli occhi grandi fuori dalle orbite.
La vecchia religiosa si avventò sul batacchio e vi si parò davanti. «Se ne deve andare! Adesso!»
«Voglio sapere chi l’ha fatto», rispose calma Caterina.
«Non lo so!»
«Io invece scommetto che è la stessa persona che ha fatto anche quelle due statue di legno lì», aggiunse la poliziotta, indicando la Madonna e santa Lucia.
«Non so niente, signorina. Gliel’ho detto, deve andare a chiedere alla diocesi.»
«Davvero, sorella? E non sa niente neanche di queste?»
Caterina puntò l’indice in basso. Per terra, a pochi passi dalla porta, dove il tetto della struttura aveva riparato il pavimento del cortile dalla pioggia, c’era una serie di punti scuri. Erano gocce di sangue incrostato.
«Scommetto che sono della stessa persona che ha fatto questo e quelle.»
La statua della Madonna continuava a fissare il trono che accoglieva santa Lucia coperta dei suoi drappi rossi, il ramo di palma in mano. Entrambe le figure dovevano essere state ricavate da grossi tronchi di legno, dato che sotto la cornice s’intravedeva il marrone chiaro.
«E scommetto che non è nemmeno una donna l’artefice. Se capisce cosa voglio dire, sorella», le fece il verso Caterina.
La monaca la osservò, guardò le macchie di sangue per terra. Quando rialzò gli occhi, c’era una nuova arrendevolezza nel suo sguardo.
«Voleva sapere come ’funziona’ il nostro monastero... Noi preghiamo, ma alcune di noi svolgono quello che la diocesi di Roma chiama l’apostolato diretto.»
«Cosa vuol dire?»
«Che ci dedichiamo all’istruzione delle ragazzine o alla cura degli orfani.»
«Questo cosa c’entra con quanto le ho chiesto?»
«La persona che sta cercando», disse l’anziana suora accennando al ritratto ligneo, «non vive più qui.»
«Vada avanti, per favore.»
«È un uomo, giovane. Si occupava di piccoli lavori nell’istituto. Riparava le porte e le finestre che qui sono molto antiche e si rovinano spesso.»
«È lui che ha fatto questo, allora?» Caterina spostò lo sguardo sulla faccia deforme incisa sul portone.
La monaca annuì. «Aveva una stanzetta con un tavolo e qualche attrezzo. Era sempre pieno di trucioli per terra. Nessuna di noi entrava lì dentro.»
«Perché?»
«Non era un posto sicuro. Teneva le finestre chiuse e lavorava al buio, alla luce di poche candele. Non so come facesse. Ma c’era un’aria... strana. E poi lì dentro ci teneva degli animali, morti. Sembravano impagliati, con gli occhi bianchi. Li fissava al muro con dei grossi chiodi neri. Avevo paura anche solo ad affacciarmi. E anche le altre non si avvicinavano a lui.»
«Era un soggetto pericoloso, sorella?» Caterina sollevò un sopracciglio.
«Non lo so, ma lo sembrava. Se ne stava da solo, non parlava con nessuna. Forse perché siamo donne, non lo so. Insomma aveva quegli occhi, fuori dalla grazia di Dio», si fece un rapido segno della croce, «che nascondevano qualcosa. Inespressivi. Erano vuoti, come quelli di un animale nel buio.»
«Ma se avevate paura perché non lo avete mandato via?»
La monaca sollevò lo sguardo verso le finestre dell’edificio che avevano davanti. «Non dipendeva da noi.»
Qualcuno lo aveva mandato in quel monastero di clausura. Qualcuno che voleva proteggerlo, pensò Caterina, se l’ospite di cui parlava la religiosa era lo stesso che stava mietendo vittime in giro per la città eterna. Non riusciva a credere di essere tanto vicina al mostro.
«Quanto tempo è stato qui?»
«Parecchio, non saprei dirle con precisione, ma di certo più di un anno, forse due.»
«E da quanto se n’è andato?»
«Da un paio di mesi, più o meno.» La religiosa fece oscillare la manina davanti alla faccia.
Caterina doveva congedarsi. Sarebbe corsa a informare gli altri di quanto scoperto sul caso dello Scultore. Aveva detto bene il commissario: erano vicinissimi. Lo avevano in pugno.
«Ma credo che sia passato pochi giorni fa.»
«Come dice?»
La monaca abbassò gli occhi stanchi sulle macchie di sangue e sussurrò: «Tutti i suoi strumenti. Non ci sono più».