69
Bomarzo, Parco dei Mostri
L’ultima bestia dimora in questo luogo magico circondata da tante creature di sasso. E di questo luogo forse è il re, l’oscuro signore. Il cacciatore ricorda ancora la foto sul suo libro, quella del mostro con la bocca spalancata.
Gli altri li ha annientati tutti, i figli degli dèi generati dal caos, quelli che sussurravano piano quando andava a dormire. Il Padre superiore gli leggeva la Bibbia, poi il libro nero, e i mostri si trascinavano fuori dalle pagine, ammucchiandosi disordinati dappertutto, li vedeva, erano vivi. Quando di notte restava solo, indugiavano nella cella, i grandi occhi disumani, le voci roche e spaventose.
Fra tutti, uno lo terrorizzava a morte. Il disegno cupo, le ombre, gli occhi sgranati, il coltellaccio posato sulla gola candida di un bimbo assopito. Non lo faceva dormire. Ed era l’unico passo del testo che non riusciva a leggere, l’unico che evitava anche da grande, sfogliando il volume.
Ora è arrivato nel luogo che nasconde l’antro dell’Orco. Non sa cosa accadrà, ma scavalca la rete ed entra come se fosse attratto da una calamita.
È buio già da un po’ e il parco è chiuso al pubblico. Il vento accarezza le chiome dei lecci mentre più in basso il torrente compie salti inesatti nella forra. Sono gli unici suoni che avverte avanzando tra i macigni di roccia vulcanica. Un milione di anni prima, la lava viscosa ha frantumato la crosta seminando i bubboni di tufo che popolano il bosco. Massi di peperino sparsi tra la vegetazione, coperti di muschio, fra i riverberi della luce filtrante impregnano l’aria d’un sentore misterioso e quasi pagano. Nel Cinquecento, Vicino Orsini ha trasformato questi tre ettari in un mondo ulteriore, un giardino mistico, un bosco sacro abitato da gigantesche creature di pietra.
Il cacciatore di mostri calpesta le foglie che vestono i viottoli di terra battuta. Il passo muto, gli occhi storditi dall’apparizione di vergini e belve ed eroi, strutture fantastiche, edifici impossibili illuminati da qualche faretto solitario. L’echidna, i leoni, la Furia alata. Prosegue senza meta finché, sopra un colossale masso inclinato, non compare una casa di pietra coperta d’edera.
Il suolo all’esterno è in piano, ma quando il ragazzo con gli occhi di cielo attraversa la porta, succede qualcosa. Il pavimento all’interno è obliquo, ha un’angolazione alterata e le vertigini gli smuovono lo stomaco. Inattesa arriva la nausea. Si volta per uscire ma la stanza gira intorno a lui e il corpo si fa pesante, arranca come se la forza di gravità fosse più crudele del solito. Lo sguardo cerca di aggrapparsi a qualcosa di stabile, ma l’occhio inganna il cervello.
La sua mente allucinata si perde tra le mille pareti di quel mondo pazzo. Per la prima volta, l’allucinazione la subisce, imposta dalla geometria improbabile della casa matta. E in quella danza dello squilibrio per un attimo il cacciatore coglie uno spiraglio tra due mondi, il luogo dove l’ordine diventa disordine e il caos trova forma. Dove il male è un bene e il bene fa male.
Di colpo la vertigine riparte: qual è il suo mondo? Il vortice lo inghiotte, esiste il suo mondo? Il gorgo lo scuote, dov’è finito il suo ordine? Dove la realtà?
Quando tutto crolla di nuovo, il ragazzo si lascia andare e cade carponi. Chiude gli occhi e avanza piano seguendo l’immagine mentale dell’apertura da cui è entrato. La spalla sinistra batte sul montante della porta. Alla cieca, ancora in ginocchio, si riallinea ed esce. La luce di un faretto nel terreno lo sveglia, lo ferisce, come una lama di fuoco sferza le meningi, le incendia. Si tira su, apre gli occhi e corre via, atterrito dall’edificio che sente muoversi alle sue spalle. Scappa dalla casa senza senso che gli ha mostrato l’abisso in cui sprofonda l’infinito gioco tra reale e irreale.
Il terreno cresce davanti alla sua corsa e la salita sdrucciolosa lo rallenta. Arbusti d’alloro e biancospino segnano la via verso una radura popolata di esseri di pietra. Tra i lecci e i noccioli dimora l’elefante. Sulla schiena possente è infitta una torre, la proboscide stringe il corpo esanime di un legionario. Il drago alato lo affianca, epica sentinella di sasso, l’arcigna potenza della roccia in lotta contro il cane, il lupo e il leone.
Negli occhi del cacciatore l’orrore e la meraviglia, è alla mercé di quei colossi imperturbabili. Poi, quell’insensato accostamento di creature, alberi e pietre muschiose si scioglie in un mulinello che lo inghiotte e lo trascina giù, nello spazio delle visioni.
Non ora, non può cambiare adesso.
Troppo tardi. Già sente le tre fiere che ringhiano, sbranano le zampe del drago mentre il pachiderma scuote il suo tentacolo grigio spezzando la schiena dell’uomo che ha preso. Il cacciatore non respira più, preme le mani sulle tempie mentre le ginocchia si piegano, le gambe oscillano. Qualcosa lo attrae. La calamita. Quella forza lo sposta, lo fa barcollare, lo tira a sé e allora si volta e il mistero delle statue si svela di fronte ai suoi occhi nell’ultima allucinazione. Un ramo morto si spezza sotto il suo peso mentre si avvicina alla meta di sempre.
Le ombre dell’inconscio si diradano sotto la volta degli alberi mastodontici. Eccolo. Immenso e possente, lo sguardo allucinato e severo, la voce arrochita delle fronde, il mostro lo attende al centro della radura. Il ragazzo con gli occhi di cielo si trova finalmente dinanzi all’enorme bocca spalancata, feroce, vorace.
In quell’universo capriccioso e immaginario, nel giardino irriverente, dimora il mostro dei mostri. È l’Orco che costruisce la notte, mastica la paura, espira il caos e vive della morte.
Il cacciatore si avvicina piano. Regredisce, ogni passo lo riporta indietro di anni, mesi, giorni. Ogni passo un sussulto, un gradino nella scala che affonda e scompare nel pozzo dell’infanzia. I capelli corti e l’impressione di un viso femminile. Poi quel terrore che paralizza. Nerissima, la macchia nera gli è strisciata dentro come una talpa, straziandolo, giorno dopo giorno. Per anni. Sin dai giorni nella sua cella, il divoratore, l’Orco, non gli ha dato scampo nemmeno per una notte. Ora, finalmente, lui libererà la terra dall’ultimo figlio del caos. Anche se è ancora un bambino solo e spaventato, la trasformazione lo fa forte, come è sempre accaduto. Stavolta lo sa anche lui che sarà differente.
Perché stavolta, là fuori, i mostri ci sono davvero.
La morsa che gli spacca lo stomaco non è paura. È il senso della colpa, il peso incontenibile del peccato. Non sa cos’ha fatto di male a quel viso di donna. Cosa ha sbagliato? Sa solo che all’improvviso si sente angosciosamente colpevole. Poi anche l’afflizione sfuma e si ritrova nel mondo allucinato in cui è lui quello che fa paura, lui quello che uccide. L’incantesimo della metamorfosi che lo vince sconfiggerà l’ultimo mostro? L’enigma che vive dentro quelle fauci oscene. Ora lo scoprirà.
Eccolo che esce, nero come la notte perenne. Spietato come l’Inferno.
Il Re del Caos.