Capitolo trentasei
Nonostante la pericolosità dell’ambiente che mi circonda, non è il momento di tergiversare, ora. Ho un paio di metri di vantaggio e posso darmi alla fuga in ogni direzione. La luce della torcia si dirige verso di me, ed è allora che arriva il colpo di fortuna. Max inciampa e stramazza al suolo con un urlo carico di rabbia. Il fascio luminoso schizza via da me e non spreco neanche un secondo per voltarmi.
Il terreno è un misto di muschio, terriccio e rami caduti. Evito un ampio cespuglio e corro verso quella che appare l’area più buia del bosco. Non ho non molte possibilità di sfuggire a Max – lui ha la torcia –, ma posso almeno cercare un nascondiglio.
Sento una serie di imprecazioni alle mie spalle, seguita dal rumore di rami spezzati. So benissimo che Max può sentirmi prima ancora che vedermi, quindi scivolo dietro il tronco di un grande albero e trattengo il respiro.
La corteccia è ruvida e priva di rami bassi. Non potrei arrampicarmi nemmeno se la ritenessi una buona idea.
Silenzio.
I rumori che ci hanno accompagnati nel tragitto fin qui sono improvvisamente cessati.
«Lily…».
Il nome mi colpisce. Non è più il mio, e Max lo sa bene.
«Vieni fuori… Vieni fuori, ovunque tu sia…».
La luce della torcia ondeggia da una parte all’altra dell’albero, senza rallentare o fermarsi. Il fascio è largo e debole, quindi non è così vicino.
«Andiamo, Olivia, possiamo parlarne. Sei mia figlia».
Mi vengono in mente Jimmy, l’ufficio, i boxer intorno alle caviglie, e ho l’impressione che gli istinti omicidi siano nel mio DNA. Alcune persone li imputano ai geni, altre all’ambiente nel quale si è cresciuti: io credo di avere entrambe le cose. Un padre sosteneva che le persone cattive andassero abbattute come gli animali, l’altro spezza il collo alle bambine.
Che possibilità potevo avere?
È una scusa, lo so. È facile dare la colpa ai genitori. Ho ucciso quell’investigatore privato perché volevo farlo e non me ne pento.
Un ramo si spezza e la luce bianca illumina di nuovo il terreno intorno al tronco. Stavolta il fascio è più forte: Max è più vicino.
Respiro, approfittando del rapido movimento della torcia. Almeno mi sta dando un’idea di cosa ci sia davanti a me. Un altro cespuglio sulla destra, una serie di alberi di fronte e un’altra radura con alberi più giovani a sinistra.
«Sono tuo padre, Olivia. O Lily. In qualsiasi modo tu voglia farti chiamare. Ti sto chiedendo di venire fuori».
Non posso credere che sia convinto che funzioni.
Crepitio di rami e fruscio di cespugli. Sembra che sia vicino, ma non intendo sporgermi per controllare dietro il tronco. Mi abbasso, pronta a scattare nel caso i passi si appropinquassero troppo.
Provo ad accucciarmi più in basso, ma mi accorgo che ho qualcosa sotto una scarpa. Una pietra. Mi rialzo. Non è troppo grossa, ha circa la dimensione di un uovo. Non è abbastanza per usarla come arma – lui ha un coltello – ma può comunque essere utile.
Quando la luce si muove ancora da destra a sinistra, aspetto che cambi direzione, e poi lancio il sasso con tutta la mia forza verso sinistra. Non succede niente per un paio di secondi, poi si sente un colpo massiccio, mentre carambola contro un albero.
La torcia attraversa la radura per illuminare in direzione del rumore e io aspetto, trattenendo il respiro.
Aspetto.
Aspetto.
Aspetto.
E via!
Non appena Max si dirige verso la fonte del rumore, io scatto nel senso opposto, sfrecciando – credo – verso il corpo di Olivia.
Impiega un po’ per capire cosa sta succedendo, poi si gira e urla qualcosa.
Il mio vantaggio è decisamente maggiore, adesso. Non ho motivo di preoccuparmi delle insidie del terreno. Inciampo in un paio di occasioni, ma riesco sempre a restare in piedi. Continuo a correre, oltre la radura e oltre la vanga. Mi precipito verso il bosco vicino mantenendo l’andatura.
Quando raggiungo il sentiero, la sorpresa è tale che quasi cado oltre il crinale che connette la selva al camminamento. So di essere nel posto giusto, perché riconosco i cestini dei rifiuti, ma scivolo su una pietra mentre mi giro nel tentativo di evitare di finire contro la panchina.
Max urla quando riappare tra gli alberi, ma non mi ha ancora presa.
Corro lungo il sentiero. La luce della torcia ondeggia su e giù mentre mi segue. Quando arrivo al parcheggio, decido di correre sulla strada e sperare per il meglio. Se tutto va bene, fermerò un’auto in transito; altrimenti, dovrò trovare un nascondiglio.
I fumi dell’alcol della serata sono svaniti da tempo, ma non sono abituata a correre. Non mi alleno e non sono proprio un’atleta. Anche Max potrebbe non essere un corridore, ma ha certo più resistenza di me.
Riesco a sentire i suoi passi e il suo respiro. Sta per prendermi. Sta…
Wham!
Qualcosa mi colpisce con forza alla schiena. Stramazzo al suolo. Freno la caduta con le mani. Il ginocchio destro sbatte contro il terreno duro, i rametti e le pietre mi graffiano i palmi. Scivolo e rotolo, nella speranza di riuscire a rialzarmi.
Ma non è così.
Non riesco a muovere le gambe. Il dolore risale dal ginocchio verso il resto del corpo e non posso fare altro che collassare sul selciato. Max tiene ferma l’altra gamba. Mi strattona all’indietro, sputando e ringhiando – il mio pensiero va al povero Iain sulla sedia a rotelle. Alla fine, come dice Max, Ashley è solo una lingua lunga.
Ma questo non mi aiuta. Non mi risveglierò in un ospedale. Se non posso scappare, non mi risveglierò mai più.
Scalcio e tiro dei pugni, colpendo qualcosa di duro, ma è tutto inutile. Max affonda il suo gomito sul ginocchio ferito. Prima che riesca ad accorgermene, è a cavalcioni su di me. Ha il coltello ancora nella destra.