Capitolo tre
Mentre lasciamo il paese con mia madre al volante, intorno a noi scorrono muretti in pietra, grandi ville indipendenti, siepi incolte e ampie distese di verde. La strada si restringe e si riallarga, per poi restringersi di nuovo quando ci inoltriamo nella campagna. Procediamo ben al di sotto del limite di velocità, la mamma rallenta in prossimità di ogni curva, nonostante conosca a memoria la strada.
Dopo qualche minuto, il verde è interrotto da una serie di abitazioni, e mi rendo conto che abbiamo girato intorno alla periferia del paese. Ci troviamo in un quartiere abbastanza nuovo, che sembra del tutto fuori contesto, con edifici in mattoni rossi e decine di macchine parcheggiate sul lato della strada. Poi il paesaggio torna a essere composto solo da siepi e da abitazioni sempre più distanti una dall’altra.
La villa in cui vive la mamma ha un ampio viottolo d’accesso in ghiaia, che scricchiola sotto gli pneumatici, un grande prato sul davanti ed è due volte più grande della vecchia casa. Deve avere minimo quattro camere da letto, e dispone di un garage.
Siamo rimaste in silenzio per l’intero tragitto, ma ho notato più volte il suo sguardo posarsi di soppiatto su di me – forse si chiedeva se qualcosa della cittadina o del percorso mi risultasse familiare. Magari voleva controllare che non fossi sparita di nuovo, o che lei non avesse sognato tutto.
Parcheggia di fronte all’abitazione, noncurante del garage.
«Siamo a casa», dice.
La seguo fino alla porta mentre fruga nella borsa, lamentandosi di non riuscire mai a trovare le chiavi. «Sono qui da qualche parte», dice, con le dita che adesso rovistano nelle tasche, prima di mostrarle finalmente a mezz’aria. «Maledette!», aggiunge. Le trema la mano mentre apre la serratura.
Entriamo e ci troviamo in un ingresso maestoso. Da qui si può vedere il giardino sul retro, alla fine del corridoio, e la casa appare investita da una luce abbagliante. Mi ritrovo a vagare nel corridoio e poi in cucina, prima di fermarmi a fissare il prato fuori dalla finestra. È un po’ incolto, l’erba si è insinuata anche nelle aiuole fiorite lungo i lati: non viene rasata da almeno due o tre settimane, credo. Sul fondo, un albero proietta un enorme cono d’ombra sulla villa. Il giardino è circondato da siepi molto alte. Non c’è un cancello, nessuna via d’uscita, a eccezione della porta sul retro.
La mamma è accanto a me, una mano appoggiata sulla mia schiena. Non dice niente, non è necessario. Sua figlia e il suo giardino non vanno d’accordo.
«Vieni», mi dice dolcemente.
La seguo in un corridoio con il pavimento in legno che conduce alla veranda. Qui la temperatura risulta più alta di qualche grado rispetto al resto della casa, e la vista offre un’altra angolatura del giardino. C’è uno scaffale colmo di CD e libri con i dorsi sbiaditi dal sole. Dal lucernario aperto piove il cinguettio lontano degli uccellini. La mamma si siede sul divano consunto, ma io sono attratta dalla libreria. Prendo la fotografia incorniciata sul ripiano in alto.
È scolorita dagli anni, come tutto il resto. Il prato, un tempo rigoglioso, sembra una macchia marrone di tè, il cielo è grigio torbido invece che azzurro, ma la figura della bambina al centro dell’immagine è ancora abbastanza nitida. I suoi codini biondi sono ora di un giallo sabbioso, la rana verde sulla maglietta del colore del fango. Sorride, impugnando quella che pare una paletta di plastica.
«È stata scattata uno o due mesi prima dei fatti», dice la mamma. Sbatte le palpebre velocemente, per tenere a bada le lacrime. Sta cercando di essere forte. «Ogni volta che usciva il sole, volevi correre fuori in giardino».
Sospira, poi fa un lungo sospiro.
Devo trovare uno specchio. Voglio confrontare la bambina della foto con la donna che sono diventata. I capelli non sono cambiati molto, ma mi chiedo cos’altro abbiamo in comune. Non credo che le mie guance siano tonde come quelle della piccola con la rana sulla maglietta, ma del resto a cinque o sei anni non si può assomigliare a una diciottenne.
Dopo aver riposto la cornice sul ripiano, mi volto e mi accorgo che la mamma è vicino a me. Sta di nuovo tirando l’estremità più lunga della mia frangetta, e decido di lasciarla fare. Ha uno sguardo lontano e assente, poi sbatte le palpebre e sembra tornare in sé.
«Scusami», dice, indietreggiando di un passo. «Non posso credere che sia tu… che tu sia qui. Prima ti ho detto di aver sempre sperato nel tuo ritorno, ma non so se sia del tutto vero. Tutti mi consigliavano di andare avanti con la mia vita, di smettere di restare ancorata al passato, ma non è una cosa che si può dimenticare da un giorno all’altro».
Si morde le labbra.
«È tutto così… strano», aggiunge. Smette di parlare e per un momento rivolge lo sguardo verso l’alto. Deglutisce, passa la lingua sulle labbra. Ha gli occhi umidi.
Non posso darle torto. Io stessa sono stata sul punto di tirarmi indietro, nel bar. C’è una parte di me che desidererebbe ancora averlo fatto. Sarebbe stato più semplice. Sarei potuta tornare alla mia altra vita.
Nella mia mente, mia madre era come un sogno o una creatura mitologica.
Una madre. Una mamma.
Adesso è reale, è di fronte a me. Una persona in carne e ossa, con espressioni e sentimenti. I discorsi che mi ero preparata, ciò che devo dire, ora appaiono del tutto inadeguati.
Non è qualcosa che riguardi solo lei. Riguarda anche me. Ho pensato che sarebbe stato facile, che sarei stata forte, quasi impassibile. Ma trovarsi qui, di fronte a questa donna, ha cambiato ogni cosa.
Si morde di nuovo la guancia destra, ma non la sinistra. Lo fa quando sta riflettendo.
Non è più una madre, è mia madre.
«Se non vuoi parlare di quello che è successo, va bene», dice. «Possiamo starcene sedute qui, se ti fa piacere…».
«No, parliamo».
Il suo petto sembra sgonfiarsi mentre emette un sospiro di sollievo.
«Possiamo bere qualcosa, prima?», domando.
«Certo».
Ci dirigiamo in cucina e lì la conversazione si alleggerisce: parliamo del tè che preferisco, se voglio latte, zucchero e infine mi chiede di scegliere una tazza. Qualunque cosa pur di eludere l’inevitabile. La mamma si muove per la stanza, con un’aria un po’ confusa, girandosi di continuo verso di me per assicurarsi che non sia svanita nel nulla. Pochi minuti dopo siamo di nuovo nella veranda, disposte alle estremità opposte del divano. Il rivestimento sarà anche sbiadito e consunto, ma è di certo confortevole.
Sorseggia il tè e attende. Ci aspettano tredici anni di domande, ma credo che esista un unico modo per cominciare.
«Non ricordo troppo bene cos’è accaduto», dico. «Un uomo si avvicinò al cancello sul retro. Credo che avesse delle caramelle, o qualcosa del genere. Gli sono andata incontro incuriosita e poi… è tutto annebbiato».
«Ti ha presa?»
«Credo…».
Mi fissa intensamente, ma non riesco a sostenere il suo sguardo. Decido di osservare il giardino.
«Ho un vago ricordo, come se stessi correndo, ma senza muovermi».
«Come se ti avesse presa e fosse scappato?».
Mi stringo nelle spalle. La sua delusione diventa palese quando emette un lungo sospiro. Appena mi giro verso di lei, sta fissando la fotografia sulla libreria e mi chiedo a cosa stia pensando. Dev’essere frustrante per lei: dopo tutti questi anni, non sono in grado di offrirle le risposte esaustive che vorrebbe.
Ciò che non mi aspettavo era il dolore che mi ha causato la sua delusione. Fa male davvero. È come sbattere un gomito allo spigolo del tavolo, proprio in quel punto che provoca una stilettata istantanea di dolore – e per un attimo la sorpresa è peggio della sofferenza.
Credevo che le cose sarebbero andate bene. Io avrei alzato le spalle e sarei andata avanti. Lei avrebbe potuto farcela – ma non era proprio così. Sono passata dal non conoscerla a cercare la sua approvazione più di ogni altra cosa.
«Mi ricordo di essere stata su un camper», dico. «C’era un divano a forma di U e un tavolo al centro, e alla parete un lavandino e un microonde. Era molto piccolo. Oltre all’uomo c’era una donna. Mi dissero che il mio nome era Karen. Quando risposi che mi chiamavo Olivia, mi intimarono di non ripeterlo mai più. L’uomo si sfilò la cintura ed esclamò che l’avrei assaggiata, se avessi pronunciato di nuovo quel nome».
La mamma si porta una mano alla bocca e sgrana gli occhi.
«La donna mi tagliò i capelli e poi mi condusse in una specie di bagno. Era angusto – c’erano un water, un lavandino e una doccia. Niente vasca da bagno. Mi infilò nella doccia e mi versò della tintura sulla testa. Allora non sapevo cosa fosse, ma era molto densa e aveva un odore forte. Ricordo il liquido nero che mi colava sulle braccia e sulle gambe. Mi strofinò i capelli a lungo, poi li risciacquò».
Sembra che la mamma voglia dire qualcosa. Ha la bocca aperta, ma non pronuncia parola, quindi continuo.
«Mi fecero tingere i capelli fino a tredici o quattordici anni. Sempre di nero. Poi, un giorno, dissero che non era più necessario».
La mamma rimane in silenzio per un momento, poi farfuglia qualcosa prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto: «Ma quindi sei stata con loro per tutto questo tempo?».
Sta tremando così tanto da versarsi del tè sulla mano. Sussulta, poi posa la tazza per asciugarsi.
«Mi costringevano a chiamarli mamma e papà», risposi. «Ci spostavamo spesso…».
«Quindi erano zingari?». Si ferma, poi riprende velocemente: «O… nomadi? Non so quale sia il termine adeguato». Agita una mano e dice qualcosa riguardo al politically correct. Le concedo un attimo, dato che sembra stranita, com’era prevedibile.
Un’altra alzata di spalle. «Non mi fecero uscire per un po’», dico. «Non ricordo con esattezza, ma spesso la porta era chiusa a chiave. Il cibo non mancava, ma quando piangevo mi rimproveravano. C’erano una PlayStation e un televisore. All’inizio non volevo mai giocare, ma non c’era altro da fare».
«Per quanto tempo è andata avanti così?»
«Non saprei». Mi passo una mano tra i capelli, scompigliandoli. «A volte sembra un sogno, o un programma televisivo. Ho ricordi confusi, come se non fossi io quella ragazzina. Penso che si sia trattato di qualche settimana. Forse un mese, o di più. Potevo anche giocare fuori, ma solo davanti al camper. C’erano altri bambini».
La mamma sospira a lungo e profondamente, prima di strofinarsi gli occhi. Poi sbatte le palpebre, quindi rivolge lo sguardo su di me. Mi fissa con una tale intensità che sembra voglia succhiare le informazioni direttamente dal mio corpo. «Nessuno ha mai detto qualcosa riguardo al fatto che prima non c’eri e poi, di punto in bianco, sei comparsa?»
«Non mi ricordo…». Mi gratto la testa e guardo in alto. «È difficile da spiegare. Mi obbligarono a chiamarli “mamma” e “papà” e poi, credo, in qualche modo lo diventarono. Era normale. Ho dimenticato molte cose. Viaggiavamo poi stavamo parcheggiati in un campo per un po’. Gli altri bambini conoscevano il mio nome, e io i loro. Così, alla fine, credo di essere diventata Karen…».
Lei mi osserva, mordendosi il labbro come se non si fidasse abbastanza di se stessa per parlare. Sembra stia soffrendo, e questa è la cosa peggiore in assoluto. Non so perché pensassi che sarebbe stato facile, che sarei potuta entrare nella vita di qualcuno, guardarlo negli occhi, e stravolgerla per sempre.
La mia vita è stata cambiata in passato. Solo una frase e, bang!, tutto è stato diverso. Allora mi trovavo dall’altra parte, ma ora so cosa significhi essere il responsabile di un gesto simile.
Capisco di non essere la persona che credevo.
Forte come pensavo.
Ero sicura di poter profferire quelle parole senza sentire nulla – ma non è così. Desidero essere amata. E ho bisogno dell’approvazione di mia madre.
«Non so dove mi trovassi», aggiungo. «Eravamo su un lembo di terra in mezzo al nulla, o alla periferia di un paesino. Avevo il permesso di parlare solo con i bambini che vivevano negli altri caravan. Ai tempi non capivo cosa fossero l’Inghilterra, o il Regno Unito, figuriamoci l’Europa. Non ho idea di dove trovassimo né di chi fossero gli altri. Se avessi detto qualcosa di sbagliato, mi avrebbero rinchiusa nuovamente nel camper».
La mamma annuisce ma non so a cosa stia pensando. Ha gli occhi sgranati, le sopracciglia inarcate come quelle di una persona deformata dal botulino al punto da mostrare un’espressione di perenne stupore.
«Sei andata a scuola?», mi chiede.
«No. C’erano dei libri – e leggevo tantissimo – ma niente di più».
«Come sei fuggita?»
«A diciassette anni volevano che mi sposassi. Lo fanno tutti».
«Quindi sei stata con loro per dieci anni…».
Sembra che la mamma non ci creda, ma io non so cos’altro aggiungere. È talmente scioccata che inizia a tossire. Distende un braccio per prendere un pacchetto di fazzoletti, poi si copre la bocca e si volta. Quando è di nuovo calma, proseguo: «Non volevo sposarlo. Pareva uno di quei matrimoni in cui il principe di un paese sposa la principessa di un altro pensando che ciò possa servire a migliorare i rapporti tra le nazioni. La mia famiglia voleva unirsi a un’altra».
L’ho già detto quando me ne rendo conto.
Gli occhi della mamma si sgranano. È troppo tardi. «La tua famiglia», dice.
«Non intendevo in quel senso. Io…».
Non so proprio cosa aggiungere, e in ogni caso lei mi interrompe, parlando in modo così veloce che le parole sembrano sovrapporsi l’una all’altra.
«Ma non sei andata fino in fondo…».
Guarda le mie mani, cerca un anello che non c’è.
Scuoto la testa. «Una notte sono fuggita. Le cose erano diverse, allora. Vivevamo nello stesso caravan, ma avevo le chiavi e potevo uscire. Aspettai finché tutti si addormentarono, rubai dei soldi dal cassetto in cucina e me ne andai. Non dissi niente a nessuno. Ci trovavamo appena fuori Sunderland, e presi il treno. Mi nascosi nel bagno del vagone quando passò il controllore, così non pagai il biglietto. Scesi a King’s Cross».
«A Londra?», chiede la mamma, come se esistesse un’altra stazione di King’s Cross.
Annuisco.
«E tutto questo è accaduto soltanto un anno fa?», domanda.
«Poco più di un anno fa», rispondo. «Un paio di settimane prima di compiere diciassette anni, per la precisione».
«E cos’hai fatto, dopo?»
«Me ne andai in giro. Era tutto così grande. Ero abituata alle aree per camper, ai campi, alle terre desolate. Qualche volta prendevamo del cibo da asporto, ma non mangiavamo mai fuori. Non ero mai stata al cinema, o a teatro. Ero abituata a vedere tutti i giorni le stesse persone – in realtà, a volte non incontravo nessuno. Poi, all’improvviso, gente ovunque, luci ovunque, negozi, ristoranti, pub, alberghi… E un frastuono che non avevo mai sentito. Fu davvero sconvolgente».
La mamma continua ad annuire. Mi tocca nuovamente il braccio. Dura solo un paio di secondi, ma deve assicurarsi che io sia ancora lì. Che sia reale.
«Le grandi città mi fanno ancora oggi lo stesso effetto», dice.
«Non conoscevo nessuno. Avevo solo i soldi presi nel camper – circa duecento sterline – e una borsa con qualche vestito. Non avevo scarpe di ricambio. Non sapevo nulla di nulla. Non avevo mai usato un telefono cellulare. Entravo nei negozi, nei ristoranti, nei pub, chiedendo se ci fosse lavoro. Poi capitai in un bar – tipo il tuo, ma più malfamato. Il tizio al bancone mi disse che non c’era niente, ma poi mi seguì all’esterno e mi portò in un vicolo. Mi spiegò che era possibile fare dei turni, ma in nero e solo se non avessi parlato. Capii che la cosa era un po’ sospetta, ma mi sembrò solo che volesse essere gentile con me».
«Fu… carino nei tuoi confronti?».
Ho l’impressione che le si potrebbe spezzare il cuore se continuassi, così annuisco.
«In un certo senso. Non fu male. Mi fece sistemare nella stanza sopra il locale», aggiungo. «Non c’era un vero e proprio letto né una doccia. Era una specie di magazzino. Mi lavavo nel bagno del bar. Mi faceva pagare l’affitto, quindi alla fine lavoravo per poco e niente. Al tempo non sapevo cosa fosse il salario minimo, e i miei colleghi non parlavano inglese molto bene. Quando finivo i miei turni, uscivo e camminavo per chilometri. Mi spingevo fino alle zone turistiche e anche oltre. Poi ho cominciato a ricordare…».
La mamma si rizza sul bordo del divano. «Ricordare cosa?»
«Olivia… Stoneridge. Mi sono procurata un telefono e ho imparato a usare Internet, quindi ho cercato il nome online. Le cose hanno iniziato a riaffiorare, ma non sapevo cosa fare. Una ragazza del bar mi ha insegnato a guidare, e inoltre conosceva un venditore di auto usate. In questo modo sarei potuta venire qui, ma ero troppo spaventata per farlo. Mi ci sono voluti otto mesi per arrivare fin qua».
Mi guarda con le narici dilatate. «Dovevi… Potevi… Ti ricordavi di me?».
Mi sembra di essere incatenata dal suo sguardo e devo sforzarmi per voltare la testa. Il tè è ormai freddo, appoggiato accanto a me; ne prendo un sorso, poi ripongo la tazza. «Vagamente», dico. «Adesso è tutto confuso. Mi dispiace, ma non riesco a distinguere bene tra il ricordo di te e i miei altri genitori».
Le serve un attimo, ma poi annuisce. Credo che voglia passare oltre. Rimuginare troppo significherebbe lacrime, dolore, angoscia… e chissà dove potremmo arrivare.
«Ti devo chiamare Olivia… o Karen?».
Non c’è dubbio su quale preferisca. Pronuncia il mio nuovo nome a denti stretti. Ho una sola risposta, se non voglio spezzarle il cuore.
«Olivia».
Un sospiro di sollievo.
«Ricordo un vestito che eri solita indossare», aggiungo. «Bianco, con fiori rosa e verdi».
Gli angoli dei suoi occhi si inumidiscono. Sbatte le palpebre e si asciuga. «È vero», dice. «Era orrendo…».
Ride tra le lacrime, poi prende un fazzoletto dal pacchetto sul tavolo per soffiarsi il naso.
«Ricordo anche la spiaggia», continuo. «Giocavamo a cricket o a rounders. Qualcosa con una mazza…».
Il viso della mamma si illumina. «Sì. Noi tre, insieme».
«Poi, una festa di compleanno. Vedo una torta con le candeline. Eravamo in una sala da bowling. Dev’essere successo con voi, perché con gli altri non abbiamo mai lasciato il caravan».
Un altro sì con la testa. «Era il compleanno di Nattie – la ragazza del bar. Credo che aveste cinque anni. Non posso credere che te lo ricordi, io ci riesco a malapena».
«Sono solo dei flash, come quando ti svegli da un sogno e hai in mente solo gli ultimi momenti. A sprazzi».
«Magari fare un giro in paese ti aiuterebbe a ricordare di più».
La mamma si tampona nuovamente gli occhi. Non mi chiede se desideri fermarmi lì. Sta per parlare, quando si sente il rumore di un’auto che si arresta provenire dall’esterno. Scatta in piedi, dimenticando per un istante la mia presenza, si asciuga il viso con una manica e si lega i capelli in una coda più ordinata. Subito dopo, un uomo entra a passo lento nella stanza. È basso e tarchiato, ha le braccia pelose, i capelli scuri e scompigliati, gli occhi castani. Mi guarda accigliato, mentre la mamma si lascia sfuggire un «oh» di sorpresa, come se non stesse aspettando nessuno.
Poco dopo risuonano altri passi, e compare trotterellando un bambino. È ancora instabile, barcolla. La mamma lo prende e lo regge all’altezza delle spalle, mentre lui le pizzica un orecchio. Da sopra la sua testolina sbircia nella mia direzione, per verificare la mia reazione.
L’ultima persona ad arrivare è un uomo che assomiglia al primo entrato. È ugualmente basso, con le braccia ricoperte di peli. Ha l’abbronzatura tipica di chi passa troppo tempo all’aperto. I capelli sono più corti, ma sempre neri e disordinati. Gli occhi – due fessure – corrono da me alla mamma.
«Cosa sta succedendo?», domanda.
La mamma si rivolge a me, continuando a reggere il bambino. Indica il secondo uomo, poi il primo. «Questo è mio marito, Max; e lui è suo fratello, Ashley». Poi, si volta in modo che il piccolino mi veda. Come in tutti i bimbi, i suoi occhi sembrano troppo grandi. Ha una peluria biondo paglia sul capo e gli stessi occhi verdi di mia madre.
«Di’ ciao, Harry», lo incita. «Lei è Olivia, tua sorella».