Capitolo diciotto
I due agenti salgono sulla volante senza girarsi e ripartono. Io non so bene cosa si aspettassero gli abitanti del paese, ma sembra una partita a Un, due, tre, stella!: appena McMichael e la collega se ne vanno, la musica ricomincia, e tutti riprendono vita contemporaneamente, come ricordandosi all’improvviso il motivo iniziale per cui si trovavano su High Street.
Harry è nel passeggino accanto alla porta del pub. Era a meno di un metro di distanza da me, ma non lo avevo notato. Sembra sempre felice, si diverte dimenandosi contro gli spallacci.
«Possiamo andare al Via’s», esclama la mamma. «Lo terrò chiuso, così avremo tutto il locale per noi».
Torno di corsa nel pub e urlo a Pete che abbiamo finito, poi io e la mamma ci incamminiamo su High Street, l’una accanto all’altra. Per la prima volta da quando sono tornata a Stoneridge, mi sento osservata. Il corso non brulica ancora di gente, è presto, ma ogni passante si volta a osservarci mentre passiamo.
O così sembra.
Il Via’s è già aperto al nostro arrivo, ma non ci sono clienti, e la ragazza dietro al bancone non è Nattie. Ha qualche anno in più di lei e a malapena mi rivolge lo sguardo quando entro. Però attraversa tutto il locale e si inginocchia davanti al passeggino.
«Come sta il mio ometto preferito?», gli domanda scherzosamente, mentre lui distende le braccia. Poi lei alza gli occhi verso la mamma e, come intuendo qualcosa dalla sua espressione, le chiede: «Va tutto bene?»
«Una giornataccia, Oona», spiega, e l’altra si rialza. «Penso di chiudere per qualche ora. Forse riaprirò per pranzo. Se vuoi rimanere nei paraggi, per me va bene – oppure puoi anche tornare a casa per un paio d’ore. Ti pago in ogni caso».
Oona domanda di nuovo se sia tutto a posto, ma non riceve risposta. Non ha comunque intenzione di lamentarsi per la mattinata libera retribuita, quindi afferra il giubbotto ed esce dal locale.
La mamma volta il cartello da APERTO a CHIUSO e serra la porta. Rimaniamo sole.
«Lavoravo qui tutti i giorni anch’io», afferma spensieratamente.
«Quando l’hai aperto?»
«Circa tre anni fa. Avrei voluto farlo prima, ma con i permessi e le licenze…». Alza una mano. «Ho assunto qualcuno per gestire il locale solo dopo la nascita di Harry. Gli affari stavano andando bene…». Si dirige verso la macchina del caffè e preme alcuni pulsanti. «Credo di ricordare ancora come si usa questo aggeggio. Vuoi qualcosa?»
«Un cappuccino con poca schiuma e un latte di soia caldo scremato più triplo espresso con cacao».
Lei ride. «Sii gentile con tua madre!».
«Una tè va benissimo. Normale».
«Bene».
Mi siedo a uno dei tavolini e tiro il passeggino di Harry verso di me. Sta colpendo un sonaglio di plastica che penzola sopra la sua testa, ma quando gli offro un dito lo afferra e cerca di metterselo in bocca. Gli solletico il mento e lui scoppia in una perfetta risata angelica.
«Gli piaci», commenta la mamma, dietro al bancone.
«Non credo che fratelli e sorelle vadano molto d’accordo».
«Perché la maggior parte ha poca differenza d’età».
«Vero».
Continuo a fare dei versi a Harry mentre la mamma prepara le bevande. Poco dopo mi raggiunge al tavolo con due tazze di tè fumante.
«Non hai voluto affrontare la macchina del caffè per farti un cappuccino?», la prendo in giro.
«Avrei potuto prepararmene uno perfetto, se avessi voluto».
Ci sorridiamo, poi guardiamo Harry per un attimo. Non sta facendo niente di particolare: si tira su e giù giocherellando con la mia mano. L’atmosfera tra me e la mamma è più rilassata oggi. Non succede spesso che le persone possano guardarsi negli occhi e ammettere quanto siano strane le cose.
«Che progetti hai, ora?», mi chiede. «So che non è tra i tuoi pensieri più urgenti, ma se hai bisogno di un lavoro, posso aiutarti a trovare qualcosa».
Sorseggio il mio tè e mi rendo conto che è uno dei gesti che ho compiuto più volte da quando sono arrivata a Stoneridge. Tutto il paese sembra ruotare intorno ai pettegolezzi e alle tazze di tè.
Senza rifletterci, guardo oltre il bancone. «Senza offesa: non voglio lavorare in un negozio. Non che ci sia qualcosa di male nel farlo, ma…».
«Non intendevo necessariamente qui. Conosco altre persone. Amici di amici, anche. Alcuni di essi vorranno essere d’aiuto, soprattutto ora che la notizia si è sparsa».
Sono un po’ pentita del mio commento. Chiunque inizi una frase con “senza offesa” ottiene l’effetto opposto.
In quel momento, una donna passa accanto alla vetrina del bar. Si ferma, come se stesse per entrare, ma poi capisce che la porta è chiusa. Appoggia le mani sul vetro, riparando gli occhi dal riflesso e guarda verso di noi. È certo il gesto innocente di qualcuno che vuole solo fare colazione, ma mi chiedo se d’ora in poi non sarà sempre così. Sono il cucciolo di panda appena nato nello zoo che tutti non fremono di osservare?
Quando la donna si accorge del cartello con scritto CHIUSO, si volta e se ne va, riprendendo la sua strada. La mamma non l’ha neanche notata.
«Non ho ancora capito cosa voglio fare», affermo. «Potrei andare all’università e provare a ricevere un’istruzione come si deve. Magari un’università telematica? Non sono abituata ad avere delle opzioni».
La mamma mi guarda ma non commenta, e ho l’impressione che l’unico suo desiderio sia avere la conferma che mi fermerò qui. Ma, specialmente dopo la visita della polizia, non posso dirle ciò che vorrebbe sentire.
«Hai bisogno di soldi?», domanda.
«Non voglio il tuo denaro, mamma».
«Ma come fai a cavartela? Non lavori, ma stai pagando la stanza al Black Horse. Poi ci sono le spese per il cibo e tutto il resto. Se vuoi studiare, devi aggiungere il costo dei libri e dei corsi».
«Mi arrangerò. Ma non voglio i tuoi soldi. Non è questo il motivo per cui sono qui, nonostante ciò che tuo marito e tuo cognato possano pensare».
Allunga il collo leggermente all’indietro e capisco che il mio commento ha punto nel vivo. «Nessuno lo pensa», ribatte.
«Ne sei sicura?»
«Perché? Max ti ha detto qualcosa?».
Rifletto, trattengo il respiro, e mi chiedo se sia il caso di rivelarle che Ashley ha frugato nella mia borsa, si è presentato al pub e ha parcheggiato il suo taxi fuori da dove vivo in attesa che io uscissi. Lui senza alcun dubbio è convinto che sia qui per i soldi.
«Oliva…».
Il cambio di nome mi coglie di sorpresa. «Hai deciso di chiamarmi così?».
Lei sbatte le palpebre, senza rendersi conto di cosa abbia appena fatto. «Ti piaceva, quando eri piccola. Ti ho fatto scegliere tra Olivia, Via, Oliva e O. Hai scelto Oliva». Si ferma, poi aggiunge: «Ora cosa preferisci?»
«A essere sincera, non ha importanza».
La mamma non ribatte perché Harry inizia a urlare e a cercare di divincolarsi dagli spallacci del passeggino. Lei lo libera e lo prende in braccio ma, appena prova a lasciarlo sul pavimento, lui si aggrappa alla sua manica e la tira come un piccolo orango che vuole appendersi a un ramo. La mamma tenta di staccarlo, ma riesce solo a fargli tirare ancora più su la manica, lasciando scoperti una serie di lividi gialli, viola e neri sull’avambraccio, poco sotto il gomito.
Fa finta di niente, riabbassandosi con calma la manica, e poi appoggia Harry a terra, permettendogli di trotterellare fino al lato opposto del locale. Solo allora lei si volta verso di me, incrociando per un istante i miei occhi e rendendosi conto che ho visto i lividi.
«Ho sbattuto contro una porta», afferma, distogliendo lo sguardo. «Avevo Harry in braccio e stavo cercando di portare i panni sporchi al piano di sotto: ho perso l’equilibrio. Che sciocca».
Quando si interrompe, mi sento davvero persa. Potrebbe benissimo esserci un’insegna al neon con la scritta BUGIARDA che lampeggia sopra la sua testa.
«Sbatti contro molte porte?»
«Io…».
«E queste porte hanno la forma di dita umane?». Sento la collera montarmi dentro, un impeto di rabbia e istinto di protezione totalmente inaspettati.
La mamma osserva di nuovo Harry e rimane ferma per un istante. «È complicato», mi risponde a bassa voce.
«E quanto può essere complicato?».
Torna a guardarmi, ma è come se fosse lei a disapprovare me. Come se avessi portato a casa un ragazzo con il viso tatuato e pieno di piercing.
«Ci sono cose di cui tu non hai voluto parlare, Oliva, e io ho rispettato la tua scelta. Ti chiedo solo lo stesso tipo di rispetto».
«Se ti sta facendo del male…».
Ma la mamma mi interrompe subito: «Non credi che io abbia delle domande riguardo a ciò che ti è successo? Vorrei sapere cosa è accaduto negli ultimi tredici anni. Vorrei che tu raccontassi tutto alla polizia e che venisse fatta giustizia. Vorrei vedere persone in arresto e udienze in tribunale. Vorrei guardare negli occhi l’uomo che ha portato via mia figlia e ha stravolto la mia vita. Di notte rimango sveglia pensando a tutto questo. Ci sono molte cose che io vorrei – ma ti ho lasciato il tuo spazio. Non ho insistito. Se tu sei autorizzata ad avere dei segreti, allora deve valere lo stesso per me».
Conclude con un sospiro, e non c’è niente che io possa dire per risponderle.
Ha ragione.
Mi ritrovo a fissarle la manica che copre i lividi. Mi chiedo se ne abbia altri, se sia successo a causa mia e mai prima d’ora, o se vada avanti da tempo. La supposizione più semplice è che siano opera di Max, ma mi sembra di capire che ci siano molte cose di cui non sono a conoscenza.
Sotto diversi punti di vista, i silenzi tra di noi dicono molto più delle parole. È in questi momenti che ci perdiamo nella consapevolezza reciproca dell’esistenza di particolari che non sapremo mai l’una dell’altra.
«Sai, me ne sono quasi andata…».
La mamma si concentra di nuovo su di me e sbatte le palpebre.
«Quando ero qui», aggiungo, indicando il tavolo a cui ero seduta solo qualche giorno fa. «Ho pensato di andare via e non tornare più».
«Perché?»
«Avevo paura. Non sapevo se tu mi rivolessi indietro, se avessi una casa qui. Non riuscivo a capire se fosse peggio un rifiuto o non provarci neanche. Mi ero dimenticata cosa significasse avere una vera madre. Temevo che avresti dato la colpa a me».
«Per cosa?»
«Non so. È passato tanto tempo. Non ho più sei anni».
La mamma si alza e la sua sedia striscia rumorosamente sul pavimento. Mi tira a sé e mi abbraccia stretta. «Sarò sempre tua madre», mi sussurra. «Sempre».