Capitolo uno

Martedì

 

Mia madre non mi riconosce.

È all’altro lato del bar, quasi nascosta dietro il suo MacBook. Prende un sorso di cappuccino, poi riappoggia la tazza e aggrotta la fronte, come se ciò che sta leggendo sullo schermo – qualunque cosa sia – fosse in una lingua straniera. Strizza gli occhi, storce il naso, poi si morde la guancia destra, ma non la sinistra. Chissà se lo faccio anche io quando sono concentrata. È passato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo viste. Chissà se io sono il frutto solo dei miei geni o anche dell’ambiente in cui sono cresciuta.

Quanto c’è di lei, in me?

Mentre sto cercando di pensare alla cosa migliore da dirle, alza lo sguardo dal computer, incontrando i miei occhi prima che riesca a voltarmi. Sorride, come fanno le persone quando si accorgono di essere osservate. Labbra serrate, che si sollevano appena agli angoli, poi torna a concentrarsi sul laptop. Tra un paio di secondi mi controllerà di nuovo, per assicurarsi che io non sia una maniaca molestatrice.

Non mi ha riconosciuta.

La cameriera sceglie questo momento per arrivare e portare via la tazza vuota e il piattino. Ha più o meno la mia età – una ventina d’anni –, è magra, con lunghi capelli rossi, lentiggini e un grembiule annodato stretto alla vita.

«Desideri qualcos’altro?», chiede.

Il suo tono è molto garbato ma non riesce a nascondere l’invito passivo-aggressivo a ordinare qualcos’altro. Non che il bar sia affollato. Ci siamo solo io, mia madre e un gruppetto di mamme intente a spettegolare, con i rispettivi bambini ammucchiati accanto alla porta della toilette.

Le chiedo quali tè abbiano e scelgo un Earl Grey. Prima che si volti per tornare al bancone, le indico mia madre.

«Mi potresti dire chi è quella donna?»

«Sarah».

«È il capo?»

«Esatto. Se stai cercando un lavoro, ti posso portare il modulo».

«No, ero solo curiosa. Tutto qui».

Mi lancia un’occhiata come per dire che le sembro una svitata, poi sparisce al di là del bancone con la mia tazza vuota. Devo ammettere che è notevole il disprezzo che è in grado di celare dietro la maschera dell’educazione. In ogni caso, tra impostori ci si riconosce.

Mi domando a cosa stia lavorando mia madre. Forse la contabilità di questo posto, o una nuova versione del menu? La studio senza darlo a vedere. Non lascio che abbandoni il mio campo visivo, mentre fisso la strada dalle grandi vetrine del locale. Scorgo soltanto un paio di tavolini vuoti e un tizio che porta a spasso il cane.

La macchina del caffè espresso è di alluminio scintillante, il che la rende un ottimo specchio: questo mi permette di tenere gli occhi su di lei pur guardando nella direzione opposta.

È difficile capire se lei mi assomigli. Ha i capelli di un biondo più chiaro dei miei, si nota la sfumatura quasi bianca della decolorazione. I nostri nasi sono simili, sottili e piccoli. Ma oltre a ciò, non vedo altro. Si veste in un modo più appariscente del mio. Io ho scelto il nero, secoli fa, e non ho mai più cambiato idea; lei indossa un vestito color girasole, estivo e svolazzante, che starebbe malissimo sulla mia carnagione pallida. Infine, o si fa la lampada, o è stata in vacanza di recente.

Dal bancone proviene un gorgoglio, dopodiché la cameriera riappare con la mia ordinazione. Sorride. I tovaglioli sono personalizzati, con il logo VIA’S in un angolo. Rovisto nella borsa cercando delle monete per pagare. Le trovo, mi scuso e poi torno a fissare mia madre.

Batte sulla tastiera con due dita, una per mano, come quei burattini a forma di uccello che dondolano la testa su e giù mimando l’atto di bere. Non pare un’analfabeta della tecnologia, piuttosto una scettica.

Non c’è molta distanza tra noi – pochi metri, un paio di tavoli –, ma sembra un oceano intero. Non dà segno di riconoscermi. Forse non lo farà mai. Il suo sguardo vuoto e sprezzante schizza su di me, ma la cosa finisce lì. Sono una perfetta sconosciuta.

Dovrei andarmene. Trascinarmi fuori dalla porta e risalire High Street fino alla mia macchina. Ho sbagliato a venire qui. Ho commesso un errore.

Quando rialza la testa, sono troppo lenta nel voltarmi e per un momento stabiliamo un contatto visivo. Provo una fitta allo stomaco, per qualche secondo non riesco a respirare.

Lei mi osserva. Io la osservo.

Avverto una strana elettricità che deve percepire anche lei – come calamite che si attraggono.

Si sfila gli occhiali e li appoggia sulla sommità del capo. «Stai bene?», mi chiede.

Mi alzo e mi muovo tra i tavoli, lasciando il mio tè intatto, finché non sono in piedi di fronte a lei. Non sono più in grado di parlare. Come le persone che si risvegliano dal coma e improvvisamente sanno un’altra lingua, ma non la loro. Anche i miei pensieri sono un caos indecifrabile e accartocciato, formulati in un idioma a me ignoto.

«Sei Sarah Adams?», domando. Il fatto di essere in grado di articolare delle parole mi sorprende.

Sbatte le palpebre e corruga la fronte, mentre compie uno sforzo immane nel tentativo di riconoscermi. Forse mi ha incontrata una volta a una conferenza; magari la figlia di un suo conoscente; oppure una cliente con cui ha scambiato qualche battuta tempo fa.

«Sarah Pitman, adesso», risponde. «Ci conosciamo?».

Vorrei rivelarle il mio nome, ma le parole non riescono a uscirmi di bocca – e comunque non ne ho bisogno.

Mia madre sgrana gli occhi, poi fa un respiro profondo. «Oh, mio Dio», esclama, «sei tu! Sei veramente tu!».

Sbatte ancora le palpebre e, per un attimo, ogni cosa sembra bloccarsi. I bambini non schiamazzano più, la cameriera non fa tintinnare le tazze disponendole nella lavastoviglie, l’uomo che stava portando a passeggio il cane fuori dal bar è come cristallizzato nel tempo.

Il continuum spazio-temporale appare interrotto.

Poi, lo dice: «Olivia!».