Capitolo diciassette
Venerdì
Sto sognando qualcun altro – un altro luogo, un altro momento – quando il colpo di una mano sul legno invade il mio stato di incoscienza. Per un attimo, il rumore è parte del mio sogno, ma poi mi ritrovo di nuovo nella stanza sopra al Black Horse e qualcuno sta bussando alla porta.
Una voce maschile. «C’è qualcuno?».
Bofonchio che sto arrivando e mi rotolo giù dal letto; afferro una T-shirt dal pavimento e la indosso sopra la canottiera.
Pete sta aspettando sul pianerottolo, e sembra che neanche lui sia sveglio da molto. Ha i pantaloni di una tuta da ginnastica e una felpa sdrucita, i capelli ancora bagnati dopo la doccia.
«Scusa», esordisce, indietreggiando. «Ma, uhm… c’è la polizia di sotto».
«Oh…».
Sapevo che prima o poi sarebbe successo, ormai sono passati tre giorni. Il paese non è abbastanza grande perché i forestieri passino a lungo inosservati – in particolar modo non quando sono scomparsi per tredici anni.
«Sei quella ragazza, vero?», domanda Pete.
«Mi spiace. Avrei dovuto dirtelo, ma…».
Scuote la testa. «Non hai bisogno di darmi spiegazioni, ma non so come chiamarti, ora».
«Olivia, credo. Tutti mi chiamano così».
Mi scruta per un attimo, con lo stesso sguardo che ho visto così spesso di recente, come se fossi il fantasma del Natale passato. Cosa posso dire?
«Come mai la polizia è qui?», domando.
Alza le spalle. «Non ho chiesto. Sono al bar, quando sei pronta. Le porte sono chiuse a chiave, io aspetterò su. Non ti disturberà nessuno. Prenditi il tuo tempo».
Lo ringrazio, lui esita per un istante di troppo prima di capire che mi sta di nuovo fissando. Per un momento penso che voglia allungare una mano e toccarmi un braccio – controllare che sia in carne e ossa, come mia madre –, ma non lo fa. Indietreggia, sorride per scusarsi e poi si dirige di sopra.
Di nuovo nella mia stanza, mi accorgo di avere quasi finito i vestiti puliti. Pete ha parlato di una lavatrice a disposizione al piano terra: devo chiedergli maggiori informazioni più tardi. Fuori sembra una giornata calda, quindi scelgo una gonna già indossata due giorni fa, che sembra pulita, e una T-shirt fresca di bucato. Ho dell’abbigliamento sportivo, ma andare a correre pare sempre un’ottima idea la sera prima, ma mai quando mi sveglio.
Considero la possibilità di investire qualche altro minuto per rendermi presentabile, ma poi immagino che il classico disordine da mi-sono-appena-alzata-dal-letto sia più appropriato. Mi scompiglio i capelli ancora un po’ e scendo le scale, alla volta del bar.
È sinistramente deserto. Le sedie sono sparse a casaccio, rimaste dove gli avventori le hanno lasciate ieri; ci sono sottobicchieri sul pavimento e pacchetti vuoti di noccioline e patatine abbandonati negli angoli. Per non parlare dei bicchieri rimasti sui tavoli e di quelli impilati sul bancone. Pete, evidentemente, rimanda le pulizie alla mattina – il che spiega l’appiccicaticcio sulle superfici.
Mi serve un attimo per scorgere le due persone accomodate su un divanetto nell’angolo oltre la porta. Sono seduti in silenzio e si alzano quando mi vedono entrare.
Il classico stereotipo del poliziotto, immagino. Due agenti: un uomo e una donna giovane, come nei film.
«Olivia, giusto?».
L’uomo ha la mano protesa in avanti. I suoi capelli sono grigi, come i baffi ordinati. Indossa un abito grigio chiaro, quasi crema, che sembra dare prurito. Probabile l’abbia scelto su un catalogo, ciò non toglie che sia un crimine contro la moda.
Stringo la sua mano, e poi quella della donna. Lei avrà al massimo trent’anni, i capelli mori fin troppo lisci e un completo scuro, elegante – un look fastidiosamente da manuale. Forse ha visto troppi film.
L’uomo si presenta come «ispettore McMichael». Dimentico subito il nome di lei: sono le uniche parole che pronuncia, poi si limita a prendere appunti mentre parla il suo partner.
Ci mettiamo a sedere sui divanetti e l’ispettore ripete: «Quindi, lei è Olivia, mi sembra di capire…».
«Esatto».
Annuisce stoicamente. «Per la precisione, può pronunciare ad alta voce il suo nome completo?»
«Olivia Elizabeth Adams».
L’ispettore annuisce di nuovo mentre la penna della sua collega graffia la carta. Chissà cosa sta scrivendo.
«Mi sono occupato del caso, al tempo», racconta. «La persona scomparsa tredici anni fa. Fu uno dei nostri più grandi fallimenti».
Non so cosa voglia che io dica, quindi sto seduta e aspetto che continui.
Si schiarisce la voce, e poi ricomincia: «Tecnicamente, il caso è ancora aperto. Credo che si possa chiudere, ora, ma abbiamo bisogno che ci racconti qualche dettaglio, è chiaro…».
Ho pensato molto a questo momento. Prima o poi sarebbe arrivato il tempo in cui avrei dovuto rivelare l’accaduto a qualcuno che non fosse parte della famiglia. Per ora ho raccontato la mia storia solo due volte: alla mamma, e poi a Nattie e Rhys. Mi sono sicuramente espressa in maniera molto differente in quelle occasioni.
Domando se ho bisogno di un avvocato e i due poliziotti si scambiano uno sguardo non molto rivelatore.
«Dipende da lei», ribatte l’ispettore. «Se pensa di averne bisogno…». Lo dice in modo particolarmente affilato, e mi chiedo cos’abbia sentito in giro. Devo tenere a mente che non è solo la mia versione della storia a circolare. Ce ne saranno di sicuro altre diffuse sottovoce. Nattie l’avrà raccontata a sua madre, e Georgie, a sua volta, a numerose altre persone. I dettagli saranno stati cambiati, i particolari resi confusi. Il gioco del telefono senza fili, versione Stoneridge. Anche Ashley e Max avranno probabilmente una loro versione – e difficilmente mi vedrà ritratta come l’amorevole figlia scomparsa.
«Esiste una legge per chi scappa da casa e poi ritorna?».
Lo sguardo tra i due dura di più questa volta; almeno tre secondi. Questo commento li ha confusi davvero. All’improvviso, la temperatura nella stanza sembra crollata.
L’ispettore McMichael si gira di nuovo verso di me e le sue sopracciglia somigliano a due millepiedi che si toccano testa contro testa, piegandosi all’ingiù verso il suo naso. «È andata così?», domanda.
«Non vorrei parlarne più. Ho raccontato a mia madre tutto ciò che è successo, ed è già stato abbastanza pesante. Quel che è stato è stato. Non voglio continuare a ripeterlo».
L’ispettore si umetta le labbra. «Le chiedo solo di raccontarlo a me. Non dovrà mai più pensarci, dopo stamattina».
«Lo so… ma preferirei comunque non parlarne».
Non riesco a spiegare da dove venga tutta la sicurezza che ho durante questo incontro. Non dovrei essere così. Queste persone sono della polizia. Non una guardia giurata di un centro commerciale – un ciccione con l’uniforme troppo stretta. Non è come rispondere a un’anziana offesa perché un adolescente fuma o usa un linguaggio volgare. È una cosa importante, lo so, e niente sarà mai difficile come lo è stato raccontare l’accaduto a mia mamma. Forse è proprio questo a darmi la sicurezza che mostro adesso. Se non voglio parlare, non lo farò. Cosa potranno mai farmi? Non sto infrangendo nessuna legge.
L’ispettore si irrigidisce sulla sedia. Ha la bocca aperta e si passa la lingua sull’arcata dentale superiore. Non so cosa si aspettasse da stamattina, ma di sicuro non questo.
«Capisco bene che la situazione sia un po’ delicata per lei», afferma, «ma non ho mai sentito di un caso in cui una bambina si allontani volontariamente da casa, senza farvi ritorno per tredici anni».
Lascio che finisca, mentre penso alla risposta.
«Non ho detto che sia accaduto ciò», continuo. «Ma solo che preferisco non parlarne. Io non ho fatto nulla di male».
«Ma se, invece, c’è stata dell’attività criminale, allora ci potrebbero essere delle persone pericolose là fuori che devono essere perseguite».
Queste sono le chiacchiere di paese.
Uno sbadiglio mi parte dallo stomaco e raggiunge la bocca prima di poterlo nascondere con la mano. Mi scuso, ma ho gli occhi umidi – non è proprio l’impressione che avrei voluto dare di me. Mi scuso di nuovo, ricaccio indietro un altro sbadiglio e mi asciugo le palpebre.
«Preferirei scordarmi tutto e andare avanti con la mia vita», rispondo.
«Se è stata rapita – se –, il responsabile potrebbe essere ancora libero. È gente pericolosa, quella. Altri bambini potrebbero essere a rischio».
Aspetta che io reagisca e io aspetto lui. Non ho nulla da dire.
L’ispettore si sporge in avanti, facendo l’errore cruciale di appoggiare i gomiti sul tavolo appiccicoso. «Ci sono persone pericolose là fuori?», mi domanda.
«Sono sicura che ci sia un sacco di gente pericolosa in giro».
«C’è qualcuno di cui ha particolarmente voglia di parlarmi?».
Scuoto la testa. «In realtà, non voglio parlarne».
Si riappoggia allo schienale. La stoffa del suo vestito fa un leggero rumore quando stacca i gomiti dal tavolino. Fa una smorfia, e controlla che sia tutto a posto.
«Lasci che la metta in un altro modo», afferma. «Se c’è qualcuno là fuori che ha rapito una bambina, potrebbe farlo di nuovo. Potrebbe tornare qui e causare dei problemi anche a lei, a sua madre e ad altre persone che conosce. Non vorrebbe aiutarci a evitarlo?».
Questo non è porlo in maniera diversa, ma ripetere la stessa domanda. Il cuore mi batte talmente forte che temo sia udibile dall’esterno. Non ho mai avuto molti contatti con la polizia prima d’ora, figuriamoci tenere testa a un ispettore. Una parte di me pensa di essere nel torto.
«Temo di non poter essere d’aiuto».
McMichael serra le labbra e aggrotta la fronte. Forse mi è sfuggito qualcosa. Una legge di cui non sono al corrente, qualcosa che ho valutato nel modo sbagliato. Persino chi viene ritenuto responsabile di un crimine ha il diritto di non parlare alla polizia. Io non sono neanche accusata, perché non potrei rimanere in silenzio?
«Devo avvisarla che ottenere servizi o beni con l’inganno è considerata frode. Il furto di identità è punibile fino a otto anni di prigione…».
Altri pettegolezzi. L’ispettore parla con calma e autorevolezza, e la stanza è di nuovo gelida. È una sfida e sono pronta a sostenerla. Mantengo il contatto visivo e mi sforzo di non deglutire.
«Chiaramente è una frode se si prova a spacciarsi per qualcuno che non si è. Ma se si è quella persona, qual è l’accusa?».
C’è un altro impercettibile scambio di occhiate tra i due agenti. L’ispettore annuisce. «Non esistono molti precedenti di casi simili», continua l’ispettore, «ma un test del DNA potrebbe mettere a tacere ogni dubbio…».
«Non sapevo che ci fossero dei dubbi da mettere a tacere».
Passano alcuni lunghissimi secondi, poi, senza una parola, le due figure scattano in piedi nello stesso momento. Succede in modo talmente improvviso che quasi mi spavento. Mi alzo anch’io. L’ispettore McMichael è più alto di quanto pensassi – mi sovrasta di tutta la testa e le spalle. Non era sembrato così imponente quando ci siamo stretti la mano, solo qualche minuto fa. Ora mi sta offrendo di nuovo la sua destra.
«In tal caso, credo che sia tutto», afferma. Infila una mano nella tasca interna della giacca e mi porge un biglietto da visita. «Se le viene in mente qualcos’altro, o se cambia idea, mi chiami».
I due attraversano il pub per raggiungere l’uscita. McMichael rimuove i pesanti catenacci che chiudono la porta. Si ferma per un attimo e si volta. «Bentornata a casa, signorina Adams».
«Grazie».
Ho l’impressione che non sia finita qui, ma l’ispettore spinge la porta, aprendola con un tonfo legnoso. Il sole invade il pub e la luminosità improvvisa mi fa strizzare gli occhi. Dal nulla, tra i due agenti appare la sagoma di mia madre. Si affretta all’entrata non appena la porta si apre, chiamandomi per nome e abbracciandomi. Sono ancora disorientata dalla luce ed è tutto sconcertante. L’ispettore e la sua partner si sono bloccati sul marciapiede davanti al locale a osservare me e la mamma sulla soglia.
«Va tutto bene?», mi sussurra con la voce spezzata.
«Come sapevi che erano qui?».
La mamma mi lascia andare ma tiene la mia mano, mentre indietreggia di mezzo passo. Non ha bisogno di rispondermi, perché è chiaro: ai lati della strada sono ammassate almeno due dozzine di persone. Una volante della polizia è parcheggiata un po’ più avanti e nel paese si dev’essere diffusa la notizia del ritorno della figliol prodiga. Un mormorio sommesso si innalza dagli astanti mentre strizzo gli occhi davanti alla folla. Ci sono giovani e vecchi, alcuni adolescenti appena più piccoli di me, un ragazzo che addenta un panino le cui briciole cadono sul terreno.
«Non sono stata io», mi dice la mamma.
«A fare cosa?»
«Non ho detto io alla polizia del tuo ritorno».
Le stringo la mano. «Non l’ho pensato nemmeno per un secondo».