2013: Lily, 16

Zoe regge la sua busta mentre io afferro la mia. «Vuoi fare cambio?», mi domanda. «Tu apri questa, io apro la tua?»

«No…».

«Come vuoi».

Strappa il lembo superiore ed estrae il foglio. Zoe strabuzza gli occhi davanti al contenuto e barcolla leggermente all’indietro.

«Wow. Non me lo aspettavo».

«Cosa?».

Indica la mia busta. «È il tuo turno».

Non volevo che le cose andassero così. Avrei di gran lunga preferito aprirla da sola. So già cosa vi troverò, ma una volta lette quelle parole sarà tutto definitivo. Come un albero che cade nella foresta. Finché rimarrà nella busta, però, su quel foglio potrebbe esserci scritto qualsiasi cosa.

Un urlo alle mie spalle mi fa voltare: il fotografo di un giornale locale è impegnato a mettere in posa il trio. Sono bionde e vestite in modo provocante – gonna troppo corta, tette in bella vista. Hanno sedici anni ora, quindi il gioco è legittimo, credo. Niente di meglio che lasciare intravedere un po’ di carne, quando raggiungi l’età del consenso. Le tre mostrano i fogli con i risultati degli esami, e scommetto che hanno preso il massimo dei voti. Il fotografo dice loro di sorridere e le modelle in erba eseguono, facendo sporgere le labbra e salutando con la mano mentre lui scatta.

Non posso più evitare Zoe, quindi alzo con cura il lembo di chiusura ed estraggo il foglio.

«Cinque C», afferma lei, guardando il suo. «Ci credi? Ho preso C in matematica. Come ho fatto? Due C in scienze, C in teatro, C in religione. Ridicolo. Mia madre mi deve cinquanta sterline…».

Lascia la frase in sospeso, in attesa che io riveli i miei risultati.

«B in inglese», annuncio.

«Hai preso B?! Sei andata a letto col professor Garland o cosa?».

Zoe ride, io no.

«Poi?», incalza.

«Tutte F».

C’è un attimo di silenzio in cui Zoe si domanda se io stia scherzando. «Oh», continua, poi. «Ho preso due E, qualche F e un paio di NC».

Giro il foglio in modo che Zoe possa vederlo, in tutta la sua gloriosa umiliazione. Una B e una fila di F.

F come fallimento.

Mi passa la sua pagina con i risultati e scoppia a ridere. «Ah, be’, c’è del sidro nel sottoscala a casa di mia madre. Lei è a lavorare, se vuoi venire…».

Le rendo la sua busta e scuoto la testa. «Devo andare a casa», rispondo.

Zoe mi guarda, deve essersi accorta che sto mentendo. C’è un momento di imbarazzo, poi alza le spalle. «Se cambi idea…».

Non abbiamo altro da dire, quindi si gira e si incammina per il lungo viale d’accesso della scuola. Non c’è più bisogno di sgattaiolare tra le siepi – abbiamo finito per sempre con questo posto. Nessuno di noi vi farà mai più ritorno, e una parte di me sa che con ogni probabilità non frequenterò più molto neanche Zoe.

Aspetto finché lei è lontana, poi raggiungo anche io il viale. Ci sono diversi gruppetti di persone del mio stesso anno che festeggiano sull’erba. Un ritornello di gioia e risate. Un alfabeto fatto solo di A, B e C. Parlano di esami e di università, del divertimento dell’estate imminente e del futuro.

Nessuno mi chiama, ma del resto non ho passato molto tempo con loro nell’ultimo anno. In tanti si saranno probabilmente dimenticati il mio nome, e agli altri perché dovrebbe importare di me?

Potrei prendere la strada diretta per casa. Impiegherei solo venti minuti ed è una bella giornata, ma questo significherebbe anticipare il momento di rivelare a mio padre che i miei voti sono un fallimento. E che dovrebbe vergognarsi di me.

Senza nessuna premeditazione, mi ritrovo a girovagare per i complessi residenziali che circondano la scuola. È estate, c’è gente ovunque – mamme con i passeggini, coppie che fanno una passeggiata, ragazzi in calzoni corti. Molti studenti della scuola di Joe gironzolano in gruppi di tre o quattro, felici e sorridenti.

Ho quasi superato il furgone, quando mi accorgo della scritta sulla fiancata. Mi fermo e la guardo, domandandomi se non sia un’illusione ottica o uno scherzo della mia mente. Tocco la lamiera e il suo calore mi convince della reale esistenza del veicolo.

FAI TUTTO CON AL”.

Guardo da una parte all’altra della strada, ma è deserta e non c’è nessuno affacciato alle finestre delle case. Faccio un giro intorno al furgone e quando torno al punto di partenza mi sembra che gli occhi mi stiano ingannando. Sapevo che “zio” Alan fosse un tuttofare, ed eccolo qui: nome e numero di telefono.

Sono in piedi quando sento il rumore di una porta che si apre. Mi arrischio a lanciare un’occhiata attraverso il finestrino del guidatore, per vedere dall’altro lato della via Alan che cammina sul sentiero adiacente alla casa, con un’asse di legno tra le mani. Fischietta distrattamente tra sé e sé, senza prestare attenzione. Per un momento mi sembra impossibile che non mi veda, ma è così. Si dirige sul retro del furgone, apre il portellone e fruga all’interno. Per tutto il tempo, resto in attesa davanti al veicolo. Appena richiude lo sportello, torno accanto al lato del guidatore e Alan si incammina nuovamente verso la casa.

Sembra un miracolo che non mi abbia notata. Un segnale, come se fosse destino che le cose andassero così. Aspetto finché il portone non si richiude, ed è difficile non scoppiare a ridere quando vedo la strada di fronte al van. Non è asfaltata o lastricata, ma ricoperta di ciottoli. Non mi interessa nemmeno controllare se qualcuno possa vedermi, perché so che non c’è nessuno.

È ciò che devo fare.

Perdo tempo, tirando calci ai sassi, fin tanto che non ne trovo uno grande più o meno come il mio pugno. È perfettamente liscio, quasi sferico. Nonostante il peso, lo passo da una mano all’altra, e riattraverso la strada.

Il lunotto anteriore non si limita a rompersi, ma la pietra attraversa il vetro, generando una crepa perfetta che arriva agli angoli estremi della superficie e lasciando un buco tondo proprio davanti al posto del guidatore. Mi concedo un attimo per contemplare il mio capolavoro – ma solo un secondo. Poi, mi giro e corro via.