Capitolo trentaquattro
«Come hai fatto?».
Max è più calmo, adesso. Ciò che è accaduto nell’ultima settimana risulta quasi divertente. Ha sempre saputo che sono una millantatrice, ma non ha potuto smascherarmi. Poi, quando ho acconsentito a sottopormi al test del DNA, deve aver pensato che mi stessi tradendo. Non sorprende che fosse così confuso quando la mamma ha letto i risultati.
«A fare cosa?», rispondo.
Tutto, pur di rimandare l’inevitabile.
«Lo sai. Come sei riuscita a contraffare il test?»
«Non l’ho contraffatto».
Ride, ma ha un’aria minacciosa. «Comincia a scavare, così vedremo se stai dicendo la verità».
Non voglio. So che mi sto scavando la fossa – letteralmente. Non ci sarà più una sola Olivia, lì sotto: ce ne saranno due. Ma disseppellire quei resti richiederà tempo e io non ne ho molto a disposizione. Mi avvicino al punto indicato da Max; lui mi segue, reggendo la torcia.
«Qui», dice, quando sono davanti alla conca.
«Quanto profondo?»
«Comincia e lo scopriremo. Abbiamo tutta la notte».
Basta un solo colpo di vanga per capire che non funzionerà. Il terreno è duro – non piove da diverse settimane. Per rimuovere anche solo la crosta superficiale è necessario uno sforzo enorme – l’intero lavoro richiederà ore. Abbiamo tutta la notte, è vero, ma non è questo il punto.
«Pensavo che fossi tuo fratello», commento. Parlare è la mia unica speranza.
«Continua a scavare».
«Sto scavando».
Lavoro con estrema lentezza.
«Quando mi sono ripresa, in auto, ho pensato fosse stato Ashley a prendermi».
Max ridacchia. Si tiene ancora a distanza, anche se ridotta, mantenendo la luce ferma sul terreno. «Mio fratello ha tanti difetti – la lingua troppo lunga, soprattutto. Blatera tanto, ma non si accorge della metà delle cose che gli succedono intorno».
Premo nuovamente la vanga contro il terreno, girandola e contorcendomi finché un’altra zolla di terra, polvere e radici non salta via.
«Vuoi dire che lui non sa cosa è successo a Olivia?».
Una pausa, la torcia oscilla. «Pensavo che tu fossi Olivia…».
Non rispondo, continuo a scavare; ho le spalle e le braccia in fiamme.
«Quella piccola vacca era una trappola», afferma Max.
«Olivia?».
Mi suona strano usare quel nome per parlare di un’altra persona. Mi ci è voluto così tanto per abituarmici e sentirlo mio. Olivia Elizabeth Adams. È il mio nome, eppure non lo è.
Max ruggisce la sua risposta: «Sarah sarebbe rimasta con lui per sempre, a causa di quella bambina. Non importava quanto fosse infelice, o quanto volesse stare con me. Non avrei avuto alcuna speranza».
Non è proprio una sorpresa, credo. Nonostante le teorie dei media, Stoneridge è un paese troppo chiuso in se stesso perché i suoi abitanti non notino una macchina o un furgone sconosciuti. Se l’ipotesi di un estraneo che mette in scena un rapimento è da escludere, allora Olivia avrebbe dovuto essere stata presa da qualcuno che la conosceva. Chi aveva di più da guadagnarci di Max? Alle spalle, aveva una relazione di tredici anni con il suo primo amore. Georgie ha raccontato che seguiva la mamma come un cucciolo ed ecco il motivo: pura infatuazione.
«La mamma mi ha detto che è venuta a letto con te mentre era sposata con papà».
Il fascio luminoso corre dal terreno al mio viso, accecandomi per un attimo prima di spostarsi di nuovo verso il basso.
«Lei cosa?»
«Ha detto che siete stati insieme qualche settimana prima che Olivia sparisse».
«Cos’altro ti ha detto?»
«Che il loro matrimonio era in crisi anche prima della scomparsa di Olivia».
Pausa. «Scava», ripete.
Rimuovo un altro paio di badilate, ma sono ancora in alto mare.
«Lo amava?», mi chiede. Max ne sembra sinceramente all’oscuro. Come se avesse passato tredici anni a domandarlo a se stesso, senza mai trovare il coraggio di chiederlo a sua moglie.
«Sì».
«E io?»
«Amava anche te».
Continuo a scavare. Ora che lo strato superficiale è stato rimosso, l’operazione sta diventando più semplice. La terra sotto è più morbida e la vanga vi affonda senza problemi. Se le ossa non sono troppo in profondità, potrebbe rivelarsi un lavoro più rapido del previsto. Tutto ciò che posso fare, in quel caso, è cercare di tergiversare.
«Cosa le hai fatto?»
«A Olivia?»
«E a chi se no?».
Tace per un momento, poi risponde in un tono freddo e fermo: «Le ho spezzato il collo prima ancora di sollevarla per farle scavalcare il cancello. Non deve aver sentito dolore».
Tutto qui. Parla senza alcun rimorso, come se descrivesse un viaggio in autostrada o la ricetta per un’insalata.
Ho messo la freccia e mi sono spostato sulla corsia più esterna prima di rientrare.
Ho tagliato dei pomodori da aggiungere alla lattuga. L’olio è nella credenza.
Olivia non significa nulla per lui.
Scavo ancora un po’, poi mi fermo per un momento, appoggiandomi all’albero più vicino.
«Non ti ho detto di fermarti».
«Mi fanno male le braccia. Ho bisogno di una pausa».
Max sembra riflettere – non riesco a vederlo, abbagliata dalla torcia.
«Chi sei?», mi domanda. Le sue parole riecheggiano nell’oscurità.
«Ha importanza?»
«Nessuno si prende gioco di me o della mia famiglia».
«Non è ciò che stavo cercando di fare».
La luce giunge di nuovo sul mio viso e poi punta a terra. Questa volta non è per caso – se mai lo è stato – ma è una manovra intenzionale per accecarmi.
«L’unica ragione per cui sei ancora in giro è che ho una spalla malconcia», sentenzia Max. «Ma anche quello non mi impedirà dallo scavare la fossa io stesso, se necessario. A te la scelta».
Se avevo dei dubbi sul fatto che parlare avrebbe solo portato a ritardare l’inevitabile, ora ne ho la conferma.
«Sei una zingara?», domanda.
«Una cosa?»
«Zingara. Rom. Nomade».
«No».
«Era una delle storie con cui hai fregato Sarah. Credeva a ogni parola. Ho pensato che avessi qualcosa a che fare con gli zingari».
«Ho inventato tutto. Mi ci sono voluti mesi».
Scavo un altro po’ di terreno.
«Complimenti», commenta. «Sembrava vera».
Era proprio quello il punto, credo. Doveva suonare reale, essere credibile. Le persone vogliono credere che ci siano dei demoni in attesa dall’altra parte del cancello dorato. Sono le paure di cui si nutrono i giornali e i film dell’orrore. Le due facce della stessa medaglia.
I nomadi arrivano in città e la gente prova a farli andare via prima ancora che abbiano tirato il freno a mano. La mia storia era semplice da bere e difficile da confutare. Come dice il loro stesso nome, sono nomadi. Si spostano. Potrebbero essere ovunque. Appena ci ho pensato, sapevo che sarebbe stata plausibile.
Max non ha finito. «Ashley ci ha creduto», aggiunge.
«Pensavo fosse lui quello che non credeva a me…».
«Oh, certo. È caduto nella rete. Il suo unico problema era che riteneva che tu volessi i suoi soldi. Non che ne abbia molti».
Sotto la vanga la terra pare più cedevole e friabile.
«Come ti chiami?», incalza Max. «Qual è il tuo vero nome?»
Mi sembra sbagliato rivelarlo adesso, come se appartenesse a qualcun’altra. Sotto molti punti di vista è così, certo. Non è più mio, non lo uso più.
Fa un passo verso di me, stavolta la sua voce è più ferma. «Allora? Non sto scherzando».
«Lily».
Si blocca, la torcia puntata a terra. È l’unico modo per sapere dove si trovi lui.
«Lily cosa?»
«Armitage».
Lo ripete, e suona ripugnante nella sua bocca. «Lily Armitage», dice. «Dovrei conoscere questo nome?»
«No».
«Come hai fatto a truccare il test?»
«Non l’ho fatto».
Fa un altro passo in avanti.
«Me lo dirai, Lily Armitage. Conoscevi qualcuno al laboratorio?»
«No».
«Hai pagato qualcuno, allora».
«Non ho pagato nessuno e non conosco nessuno al laboratorio. Ha organizzato tutto la mamma, ti ricordi? Non io».
«Non chiamarla così. Lei non è tua madre».
Quando sputa fuori quest’ultima frase, la rabbia controllata di prima di trasforma in una furia cieca.
«Te lo chiederò solo un’altra volta», intima. «Come hai contraffatto il test?».