Capitolo due

La mamma si alza di scatto. È un po’ più bassa di me, ma solo di qualche centimetro. Cammina lenta intorno al tavolo, senza staccarmi gli occhi di dosso per un istante, dopodiché distende un braccio e tira delicatamente il lato più lungo della mia frangetta. È come se volesse assicurarsi che sono qui in carne e ossa, non un fantasma o un prodotto della sua fantasia.

«Non ci posso credere», sussurra.

Lascia andare i miei capelli, poi mi appoggia la mano sulla guancia. È calda, e il suo tocco morbido. Quando si rende conto di cosa sta facendo, si scusa e incrocia le braccia, come per stringersi da sola, in cerca di conforto.

«Hai gli stessi occhi», dice, mentre i suoi si riempiono di lacrime. «Sono passati così tanti anni, ma non sono affatto cambiati».

Di tutto ciò che pensavo potesse accadere, questo non era previsto. Avevo preparato un discorso sul mio ritorno – ma non è stato necessario. Mi ha chiamata per nome, poi ha riconosciuto i miei occhi. Adesso che sono qui, tutto quello che mi ero programmata di dire mi sembra totalmente stupido. Dubito che sarei riuscita a pronunciare anche solo mezza frase, figuriamoci un intero discorso.

«Non ho mai smesso di sperare». La sua voce è roca, come quella di un accanito fumatore.

Mi rendo conto che ci stanno guardando tutti: il silenzio che credevo di aver immaginato è reale. La cameriera regge una tazza sporca a mezz’aria e le madri hanno smesso di spettegolare. Non penso che possano sentire le nostre parole, ma ciò che è accaduto era troppo palese per essere ignorato.

«Dove sei stata?», mi chiede. La domanda più ovvia, chiaramente. Ho un discorso pronto anche per questo.

«Possiamo andare da qualche altra parte?», rispondo. La prima frase che pronuncio da quando le ho chiesto il suo nome.

Basta solo uno sguardo verso il retro del bar per far cogliere il messaggio a mia mamma. Mi fissa per un attimo ancora, sbatte le palpebre, e si prepara. Chiude di scatto il MacBook e rovista nella borsa sotto la sua sedia. Ci infila i fogli e il computer, e si muove verso il bancone.

«Devo uscire, Nattie», dice. La cameriera è ancora bloccata con la tazza a mezz’aria e le serve un momento per capire di essere la destinataria di quelle parole.

Poi torna quasi in sé, ma si limita a mugugnare qualcosa.

«Mi trovi sul cellulare, in caso di bisogno».

Nattie mi lancia un’occhiata e mi chiedo se non ci avesse sentite, alla fine. Guarda il mio tavolo, con il tè ancora intatto. Magari è troppo sensibile per permettersi di dire qualcosa, nel caso in cui ci abbia ascoltate, quindi ci offre il suo sorriso standard da cameriera e assicura che non c’è alcun problema.

La campanella sulla porta risuona mentre usciamo verso quello che mi appare come un mondo del tutto nuovo.

Io ho una madre. E lei ha me.

Fa caldo, il sole splende nel cielo terso. Stoneridge ha una piccola strada principale, High Street, che conta una dozzina di negozi. Non ci sono punti vendita di grandi catene: nessun McDonald’s o Starbucks, niente archi gialli pacchiani o strane sirene verdi e bianche. È tutto molto “Gran Bretagna in fiore”, con cestini appesi alle tende parasole degli esercizi e aiuole perfettamente curate a dividere la via. Le estati sono un tripudio di bandierine colorate e feste di strada; la domenica le campane rintoccano, e ogni vigilia di Natale la chiesa è gremita per la messa cantata.

Camminiamo l’una accanto all’altra, ed è come se fossimo entrambe troppo spaventate per dire qualunque cosa. La mamma è un po’ più piccola di quanto pensassi – indossa tacchi bassi che risuonano sulla pavimentazione. Io porto un paio di ballerine.

Oltrepassiamo un ristorante italiano già aperto, le sedie e i tavoli di ferro ingombrano il marciapiede. Superiamo una banca, poi un’altra; quindi un parrucchiere, almeno tre negozi che vendono cianfrusaglie usate per beneficenza, una pasticceria e un’edicola. Infine un obelisco di pietra che sembra piovuto all’improvviso – e a caso – alla fine dell’aiuola che separa una carreggiata dall’altra. È tutto estremamente accogliente e confortevole.

«Non so da dove cominciare», dice mia mamma a un certo punto. «Come sapevi che ero in quel bar?».

Non è la domanda che mi aspettavo.

L’avevo quasi dimenticato. Nella mia testa regnava un caos totale. «Sono andata a casa, e… ».

«Sei stata lì?»

«Pensavo che ci vivessi ancora».

La mamma rallenta il passo. «Oh… certo. Dopo che tuo padre e io abbiamo divorziato…». Si ferma. «Scusa, avrei dovuto trovare un modo migliore per dirtelo. Sapevi che ci siamo separati?»

«No».

«Oh…». Inizia a spiegare un paio di volte, ma si interrompe finché non è di nuovo calma. «Mi sono risposata», mi racconta. «Si chiama Max. Ci siamo trasferiti in una nuova casa, dall’altra parte del paese, circa due anni dopo che tu…».

Chissà a quale parola sta pensando. Dopo che me ne sono andata? Che sono sparita?

«Ti ricordi la vecchia casa?», chiede.

Si blocca ancora e mi osserva. Ho l’impressione che voglia che risponda di sì, ma non posso. Stringe gli occhi, poi li spalanca. Non è sicura di riuscire a capirmi.

«No», ribatto. «Ho cercato online il nome della strada ed è stato molto facile trovarla. Una donna ha aperto la porta e le ho chiesto di te. Mi ha detto che ti eri trasferita anni fa. Ho pensato che ormai vivessi in un’altra città, poi la donna ha aggiunto che sei la proprietaria di un bar su High Street, dove spesso trascorri il pomeriggio».

«È Janet», dice la mamma, ricominciando a camminare. «Ha sempre vissuto qui in paese, dalla nascita. Ha comprato la casa a prezzo ribassato, quando l’abbiamo messa in vendita. Ti ha riconosciuta?»

«Non credo. È successo stamattina. Ho fatto capolino nel bar, ma non c’eri, quindi ho riprovato a pranzo, e poi poco fa. La cameriera probabilmente ha pensato che stessi ispezionando il locale».

La mamma ride. «Nattie ha la tua età», mi spiega. «Eravate nella stessa classe alle elementari. Giocavate sempre insieme durante le vacanze».

«Oh».

Continuiamo a passeggiare. Siamo ormai oltre l’obelisco, alla fine di High Street. C’è una buca delle lettere, all’angolo, e la mamma si dirige sul lato opposto, verso una chiesa in pietra con un alto campanile. In entrambi i sensi di marcia la strada si è ridotta a un viottolo, fiancheggiato da piccole case di mattoni rossi, ma senza marciapiede. Sembra un paesaggio da cartolina.

«Il nome del bar ha qualche significato?», domando.

La mamma si ferma di nuovo, e anche io. Si gira per mettersi di fronte a me, e mi appoggia una mano sulla spalla. La stringe. Sono fatta di carne, sangue e ossa.

Sono reale.

«Certo», mi risponde. «Si chiama così per te. Ho sempre sperato che arrivasse questo giorno». Sussulta. «Non ti ho mai dimenticata».

Ora le lacrime le inondano gli occhi: cerca di arrestarle sbattendo le palpebre, prima di stringersi la punta del naso con due dita.

«Vuoi andare a casa?», mi chiede. «Quella nuova. Possiamo parlare lì, cosa ne dici? Ti andrebbe?»

«Mi sembra un’ottima idea».

Si gira a indicare la chiesa alla fine della strada. «La macchina è posteggiata lì».

«Posso prendere la mia».

«Oh». Sospira, in parte sorpresa e in parte divertita. «Certo, adesso hai…». Inizia a contare sulle dita.

«Diciotto anni».

«Esatto. Diciotto e mezzo. Puoi guidare, puoi votare, sposarti. Puoi fare qualsiasi cosa, ora…». Poi si interrompe e aggiunge: «Dove hai parcheggiato?».

Con un cenno del capo punto verso la stessa direzione che ha indicato lei. «Vicino all’ufficio postale».

Ricominciamo a camminare. Segue un momento surreale in cui lei inizia a raccontarmi che il consiglio comunale ha reso gratuito il parcheggio dopo che i residenti si erano lamentati. Proteste e lettere al giornale locale. Sembra tutto così normale: il genere di questione di fondamentale importanza per un ristretto numero di persone.

Quando finisce il racconto, scoppia a ridere, e io mi unisco a lei. Cos’altro potrei fare? È la vita di una piccola comunità. Dopo tutti questi anni di separazione, e con le decine di domande senza risposta, mia madre parla del problema dei parcheggi.

Svoltiamo oltre la fila di case e seguiamo un basso muretto a secco che circonda la chiesa, fino al posteggio sul retro dell’ufficio postale. Un grande cartello ne segnala la chiusura il giovedì e un cartellone pubblicitario annuncia sconti per il trasferimento di denaro.

La mamma indica una 4×4 nera. La mia è la Fiat argento malconcia qualche auto più in là. Si ferma dietro al suo veicolo e mi guarda un’altra volta. Sono un nuovo cucciolo che ha bisogno di essere rassicurato e coccolato, abbracciato e amato. È tutto scritto lì, sul suo volto. Mi offre una mano, poi la ritrae, diffidente: non vuole lasciarmi uscire dalla sua visuale, teme che io possa scomparire di nuovo.

«Ti seguo», le dico, cercando le chiavi della macchina nella borsa.

Sposta il peso da una gamba all’altra, non ancora pronta a un “arrivederci”, non importa quanto breve. Non vuole staccarmi gli occhi di dosso. Teme che potrei scomparire ancora. Mi sfiora un braccio con il dorso della mano: un tocco lieve e gentile, che vale più di mille parole.

«Non vuoi venire con me, invece?», chiede, anche se non è proprio una domanda. Ho l’impressione che non sia pronta a ricevere un rifiuto. «Non è lontano», aggiunge. «Posso riaccompagnarti qui più tardi, se vuoi».

All’improvviso, sono tornata bambina, assicurata al sedile anteriore della macchina e scarrozzata in giro. «Mi sembra una buona idea», rispondo.