Capitolo otto
L’ufficio postale rimarrà anche chiuso il giovedì, ma oggi era aperto, e ho scoperto che vende mappe e cartine della città. Ancora non mi è ben chiaro il perché, dato che questo posto non mi sembra esattamente un paradiso per vacanzieri, ma non ho motivo di lamentarmi.
È buio, il pub è silenzioso mentre apro la mia cartina sul letto e vi segno i luoghi che conosco. Il Black Horse, ovvio, poi il bar della mamma, Via’s, su High Street. Localizzare la casa di mia madre è un po’ più difficoltoso, dato che non ho guidato né all’andata né al ritorno. C’è almeno mezza dozzina di strade che, dal centro, portano fuori città, due delle quali possono essere escluse perché troppo grandi. Delle altre quattro, due puntano verso sud, e non impiego molto a individuare il percorso che abbiamo seguito l’altro giorno. All’inizio mi sembrava che la villa fosse al di fuori dell’area mappata, ma poi la trovo in un angolo in alto, a qualche chilometro dal paese.
Riesco a ritrovare anche la vecchia casa, e accanto scrivo il nome JANET. Ho l’indirizzo di Nattie: rintraccio anche quello e appongo il nome. Mi pare utile avere tutte le informazioni di cui dispongo davanti a me e, nonostante abbia già cercato tutto online, ora che sono qui sotto i miei occhi è molto più reale. “Chiesa” non corrisponde più a una mera indicazione vicino a una macchia verde: adesso è un luogo vero e proprio.
Quando mi sembra di aver preso sufficiente dimestichezza con la topografia del paese per muovermi a mio agio, sfoglio gli articoli che ho salvato nello smartphone, leggendo tutti quelli che riguardano Olivia Adams per l’ennesima volta. Ne conosco a memoria svariati passaggi. Se i fatti fossero accaduti ai giorni nostri, online si troverebbero molti più contenuti sulla vicenda. I quotidiani non avevano una presenza così massiccia su Internet tredici anni fa, ma sono comunque riuscita a scovare qualche pezzo.
Emerge un dato: la gente dimentica in fretta. Non parlo degli abitanti di Stoneridge, ma di tutti gli altri. Per Nattie e Rhys, la bambina scomparsa fa parte del loro vissuto, mentre per il resto della nazione è stata una notizia rilevante per un paio di settimane, prima di uscire dai radar.
Una frase di un articolo attira la mia attenzione. Non mi sembrava che avesse un significato profondo, prima, ma ora posso finalmente contestualizzarla:
Ashley Pitman, proprietario del Pitman’s Garage, in paese, ha partecipato alle ricerche fin dall’inizio e rimane speranzoso. «La troveremo», ha dichiarato. «Continueremo a cercare finché sarà necessario. Qualcuno, da qualche parte, deve sapere qualcosa».
Parole senza senso. “Finché sarà necessario”? Devono aver interrotto le ricerche, a un certo punto, e quando abbiamo parlato non era troppo contento del fatto che la caccia durata tredici anni fosse giunta a una conclusione.
Cerco il Pitman’s Garage, ma online non compare nulla. Non è di sicuro il genere di attività che potrebbe avere un sito e inoltre né Max né Ashley sembrano degli esperti di computer. In ogni caso, mi aspettavo almeno di trovare un numero di telefono. La mamma ha menzionato delle corse in taxi – e stavolta la ricerca produce dei risultati. Trovo un Pitman’s Taxi a Stoneridge, e segno anch’esso sulla mappa. Non è lontano dal Black Horse: forse un paio di minuti a piedi, uscendo dal retro.
Attraverso la stanza e raggiungo la finestra che si affaccia sul cortile, verso il retro e un lato del pub. Non si riesce a vedere quasi nulla quando asciugo la condensa per guardare attraverso l’oscurità.
Dopo aver incontrato Rhys e in particolare Nattie, è impossibile non provare a immaginare come sarebbero andate le cose se fossi davvero cresciuta qui. Lei mi piaceva già quando pensavo che fosse soltanto una cameriera acida e leggermente ipocrita, ma dopo aver trascorso la serata bevendo insieme mi piace ancora di più. La consapevolezza di sé rende le persone attraenti. La percezione di rappresentare una minuscola parte di questo mondo enorme e non esserne preoccupati. Il non prendersi sul serio.
Forse sarei stata felice, qui?
Un rumore al di là della porta mi distrae. Il pub è al pianterreno, io sono al primo, al secondo vive Pete. L’unica altra stanza su questo piano è il bagno. Non è privato ma non lo devo condividere. Il gabinetto è in uno stanzino collegato alla mia camera.
Ritorno silenziosamente a letto e resto in ascolto, chiedendomi se le assi del pavimento abbiano scricchiolato davvero. Potrebbe essere stato Pete che sale o scende le scale, eppure…
Sento di nuovo il rumore. Un cigolio, come se qualcuno fosse in piedi proprio davanti alla mia porta. Forse questa persona sta ascoltando me, che sono a mia volta in ascolto?
Adesso sento un graffio, lungo e sonoro, stavolta.
Mi avvicino in punta di piedi all’uscio e appoggio l’orecchio al legno. La porta è sottile, l’edificio è un ammasso di tubi che producono suoni metallici e muri che scricchiolano. Sarebbe un incubo per chiunque creda ai fantasmi.
Sento un fruscio oltre la porta. Qualcuno sta camminando avanti e indietro, oppure…
Apro di scatto, aspettandomi di trovare una persona, ma non c’è nessuno. Solo una pila di scatoloni di patatine accanto alla ringhiera delle scale, poi pacchetti di noccioline, una scatola di bicchieri, filtri per la macchina del caffè, bottiglie di alcolici.
Non serve a nulla fingere di non aver dato un’occhiata in giro, ieri sera.
Il pavimento di legno scricchiola di nuovo mentre esco sul pianerottolo e guardo da entrambe le parti. Lo stesso suono che ho udito qualche secondo fa. Mi sporgo dalla balaustra per guardare di sotto – non c’è anima viva.
«C’è qualcuno?».
Le pareti hanno la vernice scrostata e la mia voce riecheggia per le scale senza ricevere risposta. Cammino di nuovo sulle assi cigolanti del pavimento e torno nella mia stanza. Chiudo la porta a chiave e ascolto il silenzio. Nessun rumore. Se c’era qualcuno là fuori, ora deve essersene andato.
Ripiego la mappa e la infilo nella borsa. La camera è piccola: un letto, una specchiera e un comodino, nient’altro. Mi siedo davanti alla specchiera e accendo la lampada, guardando il mio riflesso. Ho aspettato a lungo questo giorno – ed è stato lunghissimo.
«Olivia», dico, studiando il movimento delle mie labbra. Suona bene. Suona nel modo giusto. Ho vissuto per tanto tempo con un altro nome, ma posso abituarmi a Olivia.
«Olivia Adams».
Anche questo suona bene. Olivia Pitman, no, non sarà mai il mio nome.
«Olivia Elizabeth Adams».
Mi piace anche questa versione. Chissà da dove proviene il secondo me. Se sia appartenuto a qualcuno di importante per mia madre, o se sia stato scelto a caso.
«O-li-vi-a».
Scandisco le sillabe. Sei lettere. Non male. Olivia è il mio nome – ora devo solo abituarmi a sentirlo pronunciare dagli altri.