Capitolo undici

Stoneridge, finora, si era rivelato un perfetto luogo da cartolina. Prati curati, graziose aiuole, strade pulite e un’atmosfera linda e ordinata.

Mio padre vive dall’altra parte del paese. Decido di incamminarmi a piedi invece di prendere la macchina, così mi dirigo nella direzione opposta a High Street; attraverso il ponte sul fiume e percorro la strada sulla collina, verso il quartiere delle case popolari.

Il retro del blocco di edifici è stato intenzionalmente nascosto da un filare di alberi. Da High Street sembra un delizioso boschetto verde sulla sommità di una collina; solo quando mi avvicino mi rendo conto che alle sue spalle si estende una schiera di palazzi di mattoni rossi che ospitano appartamenti a due piani. Sembrano delle costruzioni LEGO – squadrate e regolari. Un triciclo arrugginito è stato abbandonato in un canale di scolo e un lungo rivolo oleoso attraversa un cortile per terminare nel tombino più vicino. Immagino i membri del consiglio di zona perdere le staffe per questo genere di cose, lamentando il crollo dei prezzi delle case causato dal degrado del quartiere.

Un imbecille mette in mostra il motore del suo mezzo dall’altro lato di un orrendo muro sempre in mattoni rossi, continuando a sgasare finché chiunque nel raggio di mezzo chilometro non desidera appenderlo. L’unico suo merito è coprire il suono della pessima musica diffusa dallo stereo di un altro abitante della zona.

Seguo la strada, facendo attenzione ai cartelli imbrattati di graffiti per cercare di non perdermi. Imbocco un paio di vicoli ciechi prima di ritrovarmi, finalmente, davanti a un parallelepipedo identico a tutti gli altri a eccezione del nome sulla facciata.

Il papà, a quanto pare, abita in un appartamento al piano terra in una strada senza uscita situata a una delle estremità del quartiere. Pochi metri più in là, e vivrebbe nel bosco. C’è un piccolo giardino anteriore, un quadrato di verde che sembra progettato a casaccio. Se mi sdraiassi sull’erba con le gambe e le braccia allungate, ne occuperei tutto lo spazio. All’esterno, l’appartamento mostra una sottile patina nerastra: non è proprio sporco, ma di certo non appare pulito.

Busso alla porta d’ingresso e aspetto, ripassando tutte le diverse opzioni che ho a disposizione. La mamma ha urlato «Olivia!», così non ho dovuto spiegare io la faccenda, ma da ciò che mi ha raccontato Georgie con mio padre sarà tutta un’altra faccenda.

Non risponde nessuno. Busso di nuovo. La porta ha spessi doppi vetri e non c’è il campanello. Le tende alle finestre sono tirate. Provo a guardare attraverso la feritoia per le lettere ma non riesco a vedere nulla.

Provo a bussare di nuovo, con i palmi contro il vetro stavolta, dopodiché faccio anche sbattere lo sportellino della buca delle lettere un paio di volte.

Ancora nessuna risposta.

Sono pronta ad andarmene quando decido di tentare con la maniglia. È dura, ma con un po’ di sforzo riesco ad abbassarla e ad aprire la porta. Mentre entro, noto una chiave nella toppa, che evidentemente nessuno ha utilizzato.

«C’è nessuno?».

L’atrio è buio ed emana un odore di calzini bagnati. Solo grazie alla luce che penetra dalla porta d’ingresso distinguo le scale alla mia sinistra e due porte sulla destra.

«C’è qualcuno in casa?».

Ancora nessuna risposta e nessun segno di movimento.

Comincio a pensare di aver sbagliato indirizzo, o forse l’errore è stato di Georgie. Mi sono introdotta in casa di un perfetto sconosciuto: una violazione di domicilio bella e buona. Dovrei andarmene, solo che… qualcosa non mi sembra normale.

La prima porta dà su un soggiorno, che definire spoglio è un eufemismo. Vedo solo un televisore, una lampada e una poltrona – a eccezione dell’uomo addormentato su di essa. Il suo petto si alza e si abbassa mentre russa starnazzando come un’oca infuriata. Porta un basco che gli è scivolato sugli occhi, e questo rende impossibile distinguerne i connotati.

Sento l’odore di alcol pur senza avvicinarmi oltre. Quando i miei occhi si abituano alla penombra, riesco a scorgere anche le bottiglie vuote. Ce ne sono almeno tre vicino alla poltrona – vodka o whisky. Forse entrambi. In un angolo svetta una pila di cartoni della pizza alta fino alla mia vita.

Appena muovo un passo nella stanza, l’uomo prende a farfugliare, il basco scivola sul pavimento, e sgrana gli occhi alla velocità di un fulmine. È abbastanza per farmi trasalire. La scarsa luce diffusa dalla lampada non gli impedisce di notare la mia figura. Scatta in piedi e urla: «Ehi, tu! Cosa diavolo stai facendo qui? Fuori da casa mia!».

Corre attraverso la stanza e mi è quasi addosso quando alzo le braccia per proteggermi, ma perdo l’equilibrio e cado di schiena, atterrando con un tonfo.

«Sono io!», urlo. «Olivia».

L’uomo si ferma come una statua con le braccia a mezz’aria e il corpo proteso in avanti. Ha una folta barba da hipster, più dettata dalla pigrizia che dalla moda. La sommità della sua testa è calva. Arretra di un passo, senza staccarmi gli occhi di dosso.

«No…».

Rimango sul pavimento, frastornata. Avverto un dolore alla testa nel punto in cui devo aver sbattuto, cadendo.

L’uomo scoppia a piangere.

Incespica, camminando all’indietro. Si copre il viso con le mani, poi si lascia cadere di peso sulla poltrona. Mi rialzo. Attraverso lentamente la stanza, ma lui riesce solo a ripiegarsi su se stesso, la testa sulle ginocchia. Sta singhiozzando.

«Papà…».

Mi accovaccio di fronte a lui e gli appoggio una mano sul ginocchio. Lui solleva piano il capo, sbirciando tra le fessure delle dita ancora sugli occhi.

«Oliva…».

Sorrido poco convinta. Lui distende un braccio e mi tira i capelli proprio come aveva fatto la mamma. Mi accarezza le guance con il dorso della mano e, per quanto provi a ignorarlo, è impossibile non avvertire l’odore. Non deve lavarsi da giorni, forse da settimane. Ci sono delle briciole incastrate nella sua barba, la maglietta malconcia è tempestata di macchie.

«Vuoi qualcosa da bere, papà? Ti porto un bicchiere d’acqua?».

Annuisce. Mi tiro su e mi dirigo oltre la porta sul fondo della stanza. Cerco la cucina.

È un disastro totale.

Il lavandino trabocca di piatti sudici; i pensili sono vuoti e con le antine spalancate. Poi vedo escrementi di topi vicino alla porta sul retro.

Non saprei neanche da dove iniziare.

Il frigorifero è vuoto, fatta eccezione per una poltiglia verde e marrone in un barattolo. Anche se volessi portargli qualcosa di diverso dall’acqua, sarebbe impossibile: non c’è nulla. Frugo nel lavandino per recuperare il bicchiere più pulito. Ne prendo uno, ma è ricoperto di muffa, quindi lo ripongo dove l’ho trovato.

Controllo in tutti gli armadietti bassi e trovo il bidone della spazzatura sotto il lavandino. Mi aspetto una visione da film dell’orrore, ma non è così… o, almeno, non nel modo in cui avrei immaginato. È pieno di bottiglie vuote. Si può scegliere tra imitazioni di Smirnoff e Jack Daniel’s, quindi prendo una delle bottiglie di vodka, la sciacquo tre volte, e la riempio di acqua.

È il meglio che riesca a fare. Torno in soggiorno e porgo al papà la bottiglia, dicendogli che è acqua. Biascica un «grazie» mentre apro le tende, lasciando finalmente entrare un po’ di luce.

Vorrei non averlo fatto.

Ci sono altri escrementi negli angoli della stanza, e segni di morsi sui cartoni della pizza. I vestiti del papà sembrano troppo grandi e mascherano quello che deve essere un corpo scheletrico. Beve a grandi sorsate, sbattendo le palpebre e rovesciandosi l’acqua addosso. Non c’è un posto per sedersi e non mi arrischio certo a sistemarmi sul pavimento, considerando lo sporco, quindi rimango in piedi al centro della stanza, cercando di non toccare nulla.

Mi guarda con gli occhi spalancati. «Pensavo che tu fossi…».

«È ciò che mi dicono tutti».

Sbatte di nuovo le palpebre, poi distoglie lo sguardo. «Scusa».

«Non è colpa tua, papà».

Il suo labbro inferiore comincia a tremare. Lo stringe tra i denti. «Stai bene?», chiede.

«Sì».

«Sei in salute?»

«Sì».

«Sei felice?»

«Lo sono di più, adesso».

Annuisce e abbassa la testa per guardarmi i piedi. Una reazione ancora diversa. La mamma, Max, Ashley, Nattie e Georgie hanno reagito tutti con diversi gradi di accettazione, scetticismo e meraviglia. Questo è un mix di afflizione e sollievo. Non so bene come affrontarlo.

«Hai avuto una bella vita?».

La sua voce è un sussurro rauco, appena udibile. È una domanda strana. Non me l’ha mai chiesto nessuno prima; la gente mi ha domandato dove sia stata, cosa sia successo, ma nessuno si è mai chiesto se fossi stata bene.

«Sta migliorando», rispondo.

Il papà prende a fatica un lungo respiro, poi beve ancora un po’ d’acqua.

«Ti hanno dato la colpa, non è vero?», dico.

China il capo, annuisce. Ha praticamente sepolto la testa tra le ginocchia.

Ora capisco da cosa mi stavano mettendo in guardia la mamma e Georgie. Il papà è divorziato, single, disoccupato, alcolista e vive… qui. Non mi stupisce che volessero prepararmi, prima che venissi da lui.

Attraverso il soggiorno e mi piazzo vicino alla poltrona, posandogli una mano sulla spalla. Me la stringe, ma la sua presa è più debole di quella di un bambino.

«È vero?», chiedo. «Hai cercato di ucciderti?».

Emette un gemito sordo e inizia a dondolare avanti e indietro. Non avrei dovuto rivolgergli quella domanda, ma dopo un po’ ottengo una risposta, per quanto ruvida: «Un’altra cosa in cui ho fallito».

Mi appoggio allo schienale della poltrona e gli passo un braccio attorno alle spalle, la mia fronte contro la sua testa. Non c’è la scintilla che ho provato quando la mamma mi ha toccata, ma provo un imbarazzo minore. È rassicurante, anche se siamo sconosciuti. Restiamo così per qualche minuto, abbastanza a lungo perché il mio collo sia dolorante quando il papà finalmente si riporta in posizione eretta.

«Mi dispiace così tanto», dice.

«Ssh…».

«Pensavo fossi al sicuro. Nessuno usava mai quella stradina sul retro. Ti abbiamo lasciata a giocare in giardino migliaia di volte. Eri felice di stare all’aria aperta».

«Lo so, papà. Lo so…».

«Sarei dovuto rimanere lì con te».

«Non è colpa tua».

«Hanno detto che stavo guardando il calcio, ma non è vero. La televisione era sintonizzata sulla partita, ma sono rientrato solo per andare in bagno. Hanno fatto sembrare che mi interessasse più lo sport di te».

Gli cola il naso, le lacrime gli rigano il volto. Vorrei dirgli che va tutto bene, ma è chiaro che desiderava pronunciare queste parole da tredici anni.

«Poi, non c’eri più», aggiunge. «Pensavo che volessi giocare a nascondino. Ridevo, urlando che stavo venendo a cercarti. Ho controllato tra i cespugli e nel capanno. Poi sono entrato in casa e ho perlustrato il piano di sopra, poi quello di sotto, e alla fine ho capito…».

«Ora sono qui, papà».

Sputa un misto di saliva e muco.

«Mi dispiace così tanto».

«Non ti preoccupare».

Scuote la testa e poi allunga la mano. «Non solo per quello. Guarda questo posto».

Oh.

Mi lascia senza parole. Cosa potrei dire? È vera miseria.

«Puoi tornare un’altra volta?»

«Certo».

«Che giorno è?»

«Mercoledì».

Annuisce. «Sabato. Torna qui sabato. Sarà diverso, te lo prometto».

Gli accarezzo la spalla, lui mi cinge con un braccio e mi stringe a sé. Mi piacerebbe poter dire che sia stato un momento strappalacrime – il grandioso incontro di un padre e di una figlia dopo tredici anni –, ma l’odore di uova marce è talmente intenso che riesco a sentirne quasi il sapore. E quando il tanfo mi arriva in gola, devo chiamare a raccolta tutte le mie forze per non vomitare.