Capitolo ventisei
È la mia prima domenica mattina a Stoneridge e, come avrei dovuto immaginare, è un mortorio. In realtà, se si stesse svolgendo un funerale, sarebbe addirittura più animato di così: la processione, i parenti del morto e un rinfresco al Black Horse. Invece, non c’è nemmeno quello. Tranne che per la mamma e Harry, Ridge Park è deserto, come se esistesse una strana legge locale che vieti ai bambini di uscire nel giorno del Signore.
High Street sembra uscita da un film il giorno seguente a un’apocalisse zombi. Tutti i viventi sono stati mangiati e i mostri si trascinano in cerca del pasto successivo. Avrei pensato di vedere un po’ di attività, ma il Via’s è chiuso, e così anche la paninoteca sull’altro lato della strada. L’unico locale apparentemente aperto è il Black Horse, ma ho bisogno di restare sobria per guidare e non voglio tentazioni: so dove mi condurrebbe anche solo una birra al volo.
La campane della chiesa hanno iniziato a rintoccare a un’ora disumana, stamattina, e c’era la messa quando mi sono alzata. Ora è finita, e le auto parcheggiate in doppia fila sono scomparse. Con le vie deserte, il paese è ancora più da cartolina, ma è difficile abbandonare la sensazione snervante di essere sempre osservata, mentre cammino al centro della strada. Non credo esistano molti posti in questa nazione in cui un pedone possa permetterselo senza che un conducente inferocito di un SUV gli si metta alle calcagna, con il telefono cellulare in una mano mentre con l’altra si attacca al clacson, a causa di una legittima indignazione.
Devo far passare un’ora: se il pub non è un’opzione e tutto il resto è chiuso, cosa rimane?
Mi ritrovo a dirigermi verso la chiesa, più che altro perché è il centro nevralgico del paese. Solo dopo aver costeggiato il muretto di pietra e oltrepassato il cancello mi accorgo di essere in cerca di qualcosa.
C’è un vialetto che porta alla facciata della chiesa: le porte sono aperte, ma non c’è nessuno in vista. Come in tutto il resto del paese, c’è verde ovunque. Aiuole fiorite seguono il perimetro dell’edificio, oltre il quale si estende un prato costellato di lapidi. Alcune sono classiche, con la sommità arrotondata, altre piatte e incastonate nel terreno.
Le più vecchie risalgono al XIX secolo. Molte sono ricoperte da uno strato di muschio – ne trovo una con un angolo in basso infestato dai vermi.
Non sembra esserci un ordine. Le sepolture più antiche sono vicine a quelle recenti, quelle pulite accanto ad altre che a quanto pare non ricevono alcuna cura da decenni. L’unica area differente è quella verso il limitare del bosco, circoscritta da una staccionata bianca. È il cimitero dei bambini e, invece di croci e lapidi tutte uguali, ospita mulini a vento, lanterne e decorazioni. Tutto è ornato con nastri multicolore e peluche.
Sono passata velocemente attraverso le tombe degli adulti, ma qui mi fermo per guardarle a una a una. La prima è quella di un maschietto di tre anni – “Dio ti ha preso troppo presto” – poi c’è una bambina di sei anni di nome Olive, morta vent’anni prima della mia nascita – “Mai dimenticata”.
Alcune sono di bambini nati morti – le date di nascita e trapasso coincidono. Non posso che fissarle, chiedendomi cosa sia loro successo. Una complicazione in ospedale? Sembra di osservare il fondo di un abisso, immaginando il peggio che l’esperienza umana possa offrire.
L’ultima tomba è di un’altra seienne: Melanie Price, morta tredici anni fa. Probabilmente frequentavamo la stessa classe, ma in qualche modo è stata dimenticata da tutti a eccezione dei suoi genitori. Non ci sono indizi sulla causa del decesso ma, qualsiasi fosse, deve aver commesso l’errore di non aver avuto un’aura di mistero. Olivia Elizabeth Adams vivrà per sempre, Melanie Price è nel dimenticatoio.
Mi domando se la mamma abbia mai pensato di piazzare una lapide qui, e cosa avrebbe potuto scriverci. “Mai dimenticata” è forse la formula migliore.
Dopo lo sconcerto per il cimitero dei bambini, è difficile farsi coinvolgere dal resto delle sepolture. Un bambino di otto anni ha avuto qualche possibilità, rispetto a un piccolo nato morto.
Continuo a girare in tondo nel cimitero, lanciando rapide occhiate a tutti i nomi, finché, quasi inaspettatamente, ne trovo una che riporta la dicitura: Eve Hanham. È vicina a Ged Hanham, entrambe pietre orizzontali nascoste in un angolo bagnato di rugiada. L’erba intorno è bassa – ma solo grazie a un tagliaerba. Nessuno si è avvicinato con un rifila-bordi per fare un lavoro più preciso. Uno strato viscido di melma verde-marrone copre le incisioni di entrambe le lapidi; ma quella di mia nonna è in condizioni peggiori, sembra non sia stata mai pulita di recente. È più verde che grigia.
Mia nonna.
Oggi ho scoperto un nome – Eve Hanham – per fare compagnia ai miei cattivi pensieri.
Che genere di persona vorrebbe che sua figlia desse via suo nipote? Come è possibile? È semplice deresponsabilizzare una persona, giustificandola come una questione generazionale: non è una buona scusa, soprattutto se riguarda la vita di altri. Perché, allora, fin dove ci si può spingere? I padroni degli schiavi erano filantropi incompresi che cercavano di dare un obiettivo ai migranti? I membri del Ku Klux Klan non conoscevano alternative? A volte bisogna tracciare una linea e affermare che non è questione di generazioni o di modi di pensare che cambiano. Non sono le persone più giovani contro gli anziani, le donne contro gli uomini, gli etero contro gli omosessuali.
Sono solo stronzi che si comportano da stronzi.
La strega sotto i miei piedi non ha neanche idea di cosa abbia fatto. Alzo la testa e dirigo lo sguardo verso la parte principale della chiesa, per controllare eventuali movimenti. Non c’è nessuno qui intorno né anima viva nel resto del cimitero.
Sembra sbagliato, ma in realtà nemmeno così tanto. Abbasso gli slip, mi accuccio e mi concentro, aspettando lo splendido sciacquio del liquido sulla pietra.
Quando ho finito, mi tiro su e mi sistemo la biancheria intima, infine mi allontano per osservare la pozza di piscio che sta colando sulle incisioni del suo nome.
Vaffanculo, Eve Hanham.
Il mio unico rimpianto è di non aver bevuto di più stamattina.