2008: Lily, 11
Mio padre stringe la mia mano e mi dà il prurito. È più di una settimana che non va a lavorare, ma i suoi palmi sono ancora ruvidi e screpolati. E le unghie sono ancora sporche, cosa per cui la mamma l’ha sempre rimproverato. Forse ora dovrei farlo io.
Restare fermi sulle dure panche di legno è scomodo, e il papà comincia ad agitarsi prima di me. Lascia andare la mia mano per un momento, ma io ristabilisco subito il contatto. Pelle ruvida o no, non voglio staccarmi.
È la mia prima volta in chiesa e non mi piace molto. È tutto enorme, il soffitto altissimo. Ascoltare le persone è difficile, dato che la loro voce si disperde. Il papà si sporge per sussurrarmi qualcosa, ma non lo sento. Poi mi lascia di nuovo la mano e, prima che possa fare un gesto verso di lui, si alza in piedi e percorre il pavimento in pietra verso il palco sul fronte della chiesa.
C’è un prete, o un vicario, non conosco la differenza. È un uomo anziano, mi ha salutata quando siamo entrati ma io non sapevo cosa dire. Guarda di nuovo verso di me e io mi sento molto sola nella panca della prima fila.
Il papà è in piedi dietro una specie di grande scrivania in legno. Sta parlando della mamma, ma non riesco a sentire con precisione cosa stia dicendo – un po’ a causa dell’eco, ma anche perché continua a mordersi un labbro, nel tentativo di non piangere. Quando si volta dalla mia parte, gli occhi sono rossi e il labbro inferiore trema. Vorrei piangere, ma non lo faccio.
Ho sentito il papà parlare sottovoce con una persona che ha chiamato «assistente sociale» qualche giorno fa. Io ero in soggiorno e loro in cucina. Pensavano che non potessi sentirli, ma non era così. Il papà ha detto che non avevo mai pianto, e chiedeva se fosse strano. Ha anche chiesto se io sono strana. L’assistente sociale ha risposto che le persone reagiscono a un perdita in molti modi diversi, e il papà è scoppiato in lacrime.
Anche adesso sta piangendo, mentre guarda dritto verso di me, parlando della mamma. Dice che era una buona madre e una moglie amorevole.
È la prima volta che indossa un abito come gli uomini che appaiono in TV. Ha passato la mattinata a lamentarsi che era troppo stretto e che non gli andava più bene. Io ho dovuto mettere la gonna nera che di solito uso per la scuola e una giacca nuova dello stesso colore che mi ha comprato mio padre. Alla mamma non piacevano i colori scuri – motivo per cui è strano che tutti in chiesa siano vestiti di nero.
Con la mia gonna, la giacca e i capelli, sono tutta in nero. Il papà ha impiegato un sacco di tempo a pettinarmi, chiedendomi se li volessi sciolti o raccolti in una treccia. La mamma era bravissima a pettinarmi, ma il papà proprio non ne è capace, quindi alla fine mi sono fatta la treccia da sola. Nel frattempo lui mi osservava, respirando profondamente per fermare le lacrime.
Piange molto, negli ultimi tempi. Lo sento, di notte, quando pensa che io stia dormendo. Una volta è entrato nella mia stanza ed è rimasto a guardarmi mentre fingevo di essere addormentata. Dopo un po’ si è scusato e ha richiuso la porta. L’ho sentito singhiozzare da solo in camera sua, poco dopo.
Il papà sta ancora parlando, anche se non mi guarda più. A casa ha continuato a dire «la parola con la C», ma qui utilizza il vero termine.
Cancro.
Per mio padre, l’assistente sociale e le altre persone che ho incontrato, la parola con la C è come Voldemort. Nessuno vuole dire “cancro”, quindi usano tutti “la parola con la C” al suo posto.
Il vero significato di cancro è che la mamma non è più qui.
Il papà finisce il discorso. L’organo inizia a suonare. Tutti si alzano. Dopo qualche secondo è di nuovo accanto a me, le sue mani screpolate che grattano le mie. Sono così grandi, così accoglienti.
Sono in piedi accanto a lui: siamo girati verso l’ingresso della chiesa e osserviamo la gente vestita a lutto che comincia a uscire. Penso che se ne stiano andando, ma non è così. Quando andiamo fuori, alla luce, sono tutti lì che ci aspettano, disposti ai due lati del vialetto, come a creare un tunnel. Ci guardano mentre ci dirigiamo verso la macchina. Mi sembra tutto talmente pesante.
Il papà cammina lento, ringraziando le persone per essere venute. Continua a tenermi per mano, costringendomi a seguire il suo stesso ritmo. Io vorrei correre avanti, scappare lontano da quel muro nero. Mi concentro sulla strada, e non sulla gente, perché tutto ciò che riesco a sentire è il mio nome, sussurrato insieme a cose come «mi dispiace», o «sono qui, se avete bisogno». In tanti hanno detto frasi simili nell’ultima settimana. L’assistente sociale mi ha fatto sedere con lui per dire che avrei potuto raccontargli tutto ciò che volevo, che potevo fidarmi se avessi voluto confidargli qualcosa di cui non riuscivo a parlare con mio padre.
Strattono la mano del papà, sempre più forte, finché non la smette di ignorarmi ed è obbligato a fermarsi e inginocchiarsi di fronte a me. Il cielo è così luminoso e il resto – tutta quella gente – così nero che mi fanno male gli occhi.
«Stai bene, tesoro?», mi chiede.
«Voglio tornare a casa».
«Dobbiamo prima andare alla veglia».
Parla sottovoce, in modo che nessun altro possa sentire.
«Che cos’è la veglia?», domando.
«È una specie di cerimonia: ci raduniamo per raccontare storie sulla mamma e ricordare quanto lei significasse per tutti noi. Si mangia, anche…».
«Ma io non ho fame. Non possiamo tornare a casa, invece?»
«Mi dispiace, amore, ma dobbiamo andarci. In questi casi ci si comporta così. La gente vuole ricordare la mamma. Non vuoi farlo anche tu?».
Me lo chiede come se non volessi. Come se l’avessi dimenticata solo a causa della parola con la C. Non rispondo, ma stringo più forte la sua mano e lui mi lascia andare per un momento. Si pulisce il palmo sui pantaloni, poi me lo rioffre. Sta sorridendo, ma in realtà è triste – per un attimo penso che stia per scoppiare di nuovo a piangere. Le sue sopracciglia si contraggono. Credo che sia molto triste.
Gli stringo ancora la mano, nella speranza che questo gli dia forza. Non voglio andare alla veglia e non ho fame, ma se ciò lo farà smettere di piangere, allora è senz’altro la cosa migliore da fare.
Procediamo sul vialetto, continuando a camminare molto lentamente finché non arriviamo sulla strada. Siamo venuti qui con un’auto nera, lunga e scintillante – non abbiamo preso la nostra macchina –, ma non guidava il papà. Guidava un tizio che non conosco. È vecchio e indossa un cappello grigio, che si è tolto quando mi ha salutata.
Dal lunotto posteriore osservo la lunga fila di veicoli che ci segue. Dopo un po’ parcheggiamo, scendiamo dalla macchina ed entriamo in una grande sala in cui non sono mai stata prima. All’interno c’è un tavolo ricoperto di cibo, proprio come aveva promesso il papà. Mi dice che deve parlare con alcune persone e resto sola per un minuto. La sala è fredda, il pavimento scricchiola quando mi muovo. Ci sono alcuni televisori appesi alle pareti, ma sono spenti. Forse hanno perso i telecomandi. Al papà è successo una volta.
Mio padre sta in piedi accanto alla porta mentre le persone che erano in chiesa entrano nel salone. Le saluta tutte di nuovo, e di nuovo le ringrazia per essere venute, anche se l’aveva già fatto.
Mi dirigo verso il tavolo del cibo. Ci sono panini e rustici con la salsiccia, più alcuni piccoli spiedini di salsicce. Ci sono torte e budini, e un intero vassoio di biscotti al cioccolato e crema pasticcera. Avevo detto al papà che non avevo fame, ma ora mi è venuta. Afferro un piattino di plastica e lo riempio con una porzione di ogni cosa. Mi guardo intorno in cerca di un posto a sedere, ma la gente sta già camminando verso di me, con quello stupido ghigno tipico degli adulti. Non stanno sorridendo davvero, non sono felici. È una bugia che raccontano con le proprie facce quando vogliono assicurarsi che io stia bene. Lo fanno sempre, ormai.
Lungo una parete è disposta una fila di tavoli, le cui tovaglie sfiorano il pavimento. Mi muovo velocemente verso uno di essi, prima che qualcuno mi noti, e mi ci infilo sotto, usando la tovaglia per far scomparire tutto e tutti.
Resto seduta immobile per un momento, chiedendomi se qualcuno degli adulti non mi abbia seguito. Ho l’impressione che non dovrei restare nascosta sotto il tavolo. Ma poiché non arriva nessuno, inizio a mangiare. Prima la torta, poi i biscotti. La mamma mi ha sempre detto di cominciare con il salato, ma ho infranto regole molto più importanti di questa nell’ultima settimana.
Però, preferirei che lei fosse ancora qui a fermarmi.
Quando sto per addentare un rustico con la salsiccia, la tovaglia inizia a muoversi. È il papà. Si accuccia sotto il tavolo, strizza gli occhi e sfoggia il suo sorriso triste. Lo fa per me.
«Ecco dov’eri finita», dice.
Penso che stia per chiedermi di uscire, o che mi voglia sgridare perché ho mangiato prima i dolci, ma non lo fa. Al contrario, si siede sul pavimento e si trascina finché non si trova seduto accanto a me. La sua testa sbatte contro il tavolo. Scoppio a ridere.
«Sei troppo grande per stare qui sotto, papà!», gli dico.
Lui piega il collo, per non picchiare di nuovo la testa, e posa la sua mano calda sulla mia. «Ti voglio bene, Lily», mi dice.
«Anche io ti voglio bene, papà».