Capitolo trentadue

È buio.

Avverto un rumore fastidioso nell’orecchio destro, una specie di rimbombo, come l’inizio di un terremoto. Provo ad alzarmi per allontanarmene, sbatto la testa contro qualcosa. Mi colpisce poco sopra l’occhio sinistro, e il mio campo visivo è invaso da puntini verdi che turbinano nell’oscurità.

Mi lascio cadere sul fianco e provo a capire cosa sta succedendo. Sono in uno spazio stretto e angusto. Sotto di me c’è uno strato di plastica spessa, simile a quella usata per imballare i televisori. È liscia, e scivolo avanti e indietro mentre il rombo continua.

È sicuramente un’automobile. Sono nel bagagliaio, posso sentire l’odore della benzina o dell’olio motore. Lo stesso odore avvertibile in un’officina.

La plastica non lascia presagire il meglio. Nell’era della polizia scientifica e dei test del DNA, l’unico motivo che giustifica la presenza di un telo di plastica nel baule di una macchina, insieme a un ostaggio, è che sta per accadere qualcosa di terribile.

Riesco ancora a sentire il sapore della sostanza che il mio rapitore ha usato per stordirmi. È amara, brucia come l’acqua ragia – anche peggio. Sento anche il sapore dell’alcol, ma solo vagamente. I resti di una notte quasi dimenticata, ormai.

Se chiudo gli occhi, forme viola e rosa danzano davanti alle mie pupille. Sono causate dalla stanchezza, dallo shock e dalla sostanza che mi ha messa ko, ma, allo stesso momento, mi permettono di rimanere lucida. Sono nel portabagagli di una macchina in movimento – i dossi e i tombini che superiamo me lo confermano. Non ha senso bussare sul baule per cercare di attirare l’attenzione, non se ne accorgerebbe nessuno. Ho bisogno di un piano più astuto.

Invece di provare a mettermi a sedere, e quindi sbattere di nuovo la testa, mi rotolo sulla schiena e mi distendo, facendo correre le dita lungo la superficie sopra di me. Plastica anche lì. Il tetto del bagagliaio è a poca distanza dalla mia faccia ma lo spazio è ampio e riesco a toccare gli alloggiamenti da entrambe le parti.

Non c’è chiaramente via d’uscita; forse potrei cominciare a scalciare contro quelli che sono probabilmente i sedili posteriori dell’auto. Li spingo con le mani, ma non cedono. Prenderli a calci con tutta la mia forza potrebbe aiutarmi a entrare nell’abitacolo, ma potrebbe anche esserci una paratia di metallo tra il bagagliaio e i sedili. E anche se così non fosse, è impossibile che riesca a uscire senza che il guidatore se ne accorga. Se lo scopo è scappare, non ha senso fare tanto rumore da rischiare di mettermi ancora più in pericolo.

Per pensare a un metodo più semplice per fuggire, devo capire il motivo per cui mi trovo qui.

Ci può essere solo una ragione… no? Qualcuno vuole sbarazzarsi di me. Rapire una persona e buttarla nel baule di una macchina foderato di teli di plastica non vuol dire solo provare a spaventarla, ma farla sparire definitivamente.

Olivia è scomparsa una volta, e ora è arrivato il momento del secondo giro.

L’unica altra domanda è chi ci sia dietro – ma anche questo sembra ovvio. Dal momento in cui sono arrivata, solo Ashley mi è stato ostile. È irrilevante sapere se pensi davvero che io sia in cerca di soldi. Ha persino la flotta di taxi a sua disposizione.

La mia unica consolazione – se così si può chiamare – è che sono ancora viva. Se Ashley avesse voluto uccidermi, l’avrebbe già fatto. Questo è ciò che mi racconto. È diverso da quanto è successo a Iain. Lui si è svegliato senza poter più usare le gambe, io almeno le ho ancora. Muovo persino le dita dei piedi nelle scarpe, come a volerlo dimostrare a me stessa.

Il rombo del motore diminuisce, è stata scalata una marcia e sembra che stiamo rallentando. Scivolo sulla plastica verso l’abitacolo della macchina e cerco di reggermi durante una curva. Dopo, le buche e i contraccolpi aumentano. Il primo mi fa rimbalzare verso l’alto, e il naso colpisce la plastica attaccata al tetto del baule. Appena atterro, scivolo verso il retro mentre il veicolo sbanda di lato, forse per evitare un fosso.

Prima dovevamo trovarci su una strada asfaltata, ma ora sono solo violenti sobbalzi e scossoni, come sulle montagne russe. Sbatto i denti, le mie ossa si scuotono: il tremore è così forte che non riesco neanche a pensare. Ci vuole il massimo sforzo per tentare di non essere scagliata da una parte all’altra del portabagagli, mentre la macchina sfreccia lungo quella che deve essere una strada sterrata.

Anche quando il peggio è passato, impiego un paio di secondi per capire. Ho il collo indolenzito e la vista annebbiata, come se non avessi mai smesso di bere. Tutto il mio corpo è in preda a un formicolio insistente che si propaga fino alla punta delle dita.

Solo allora capisco che ci siamo fermati.

Sento il rumore della portiera che si apre e si chiude, e mi prende il panico: devo a tutti i costi farmi venire in mente qualcosa. Devo lottare? Scalciare? Non sono legata, ma non sono lucida.

Il baule si apre, un fascio di luce mi acceca. Una mano mi prende e mi tira ed è tutto così confuso che mi è impossibile reagire in alcun modo. Prima che possa realizzare cosa stia succedendo sono a terra – sento la polvere sotto i palmi delle mani.

La luce mi acceca di nuovo e poi si allontana, scavando un fascio luminoso nell’oscurità. È una torcia.

«Alzati», mi intima una voce maschile. Mi tira di nuovo, prendendomi per un polso e sollevandomi come se fossi una bambola. Sono appoggiata alla fiancata dell’automobile adesso, e non so bene come ci sia arrivata, mentre cerco di difendermi dal bagliore accecante della torcia, sbattendo le palpebre.

Qualcosa di metallico cade a terra accanto all’automobile. Quando mi volto, noto che l’uomo, il mio rapitore, è di fronte a me.

E non è affatto Ashley Pitman.