2014: Lily, 17

Per un momento mi chiedo se il papà non abbia cambiato la serratura. Una specie di nebbia grigia sembra appannare gli angoli dei miei occhi, e piccoli vortici intermittenti corrono verso le mie pupille fino a quando non sbatto le palpebre e svaniscono. I lampioni stradali alle mie spalle non aiutano – un po’ perché emanano poca luce, ma principalmente perché l’arancione pare fondersi ai vortici, stordendomi ancora più.

La chiave graffia la toppa e tutto è all’improvviso molto divertente. Vortici. Ah-ah. I vortici sono divertenti.

La mia fronte è sul vetro della porta d’ingresso. Non ricordo di essermici appoggiata, ma è fresca. Ho sete. C’è dell’acqua in casa, certo, ma la mia chiave non funziona.

A proposito, dov’è la mia chiave?

Ce l’avevo in mano proprio un minuto fa…

Ah-ah, vortici. Rosa, verdi, arancioni e vorticosi. Barcollo un po’ mentre mi spingo via dal vetro e il vialetto si muove a gran velocità, facendomi oscillare di nuovo. Ci vuole qualche secondo perché riesca a riconquistare l’equilibrio – una mano sulla porta, l’altra…

Oh, ecco la mia chiave. Ce l’ho ancora in mano.

Questa volta entra nella serratura e, nonostante all’inizio sembri dura, gira nella toppa e finalmente incespico all’interno.

Il corridoio è buio; do un colpo alla porta con la spalla, aspettando che si richiuda con uno scatto. Forse dovrei chiudere a chiave, ma quando cerco il pomello, il piccolo pulsante tondo al centro si muove verso di me e riesco a mandarlo via solo serrando gli occhi.

È allora che tornano i vortici. Ma stavolta non sono così amichevoli. I colori non sono luminosi come prima e c’è una linea rossa che brucia con rabbia.

Mi rimbomba la testa mentre entro in cucina. Il fresco del frigorifero mi dà un po’ di sollievo, ma la luce è troppo forte e non riesco a mettere a fuoco nulla. Alla fine, infilo la faccia sotto il rubinetto della cucina e bevo a canna. L’acqua fredda migliora le cose, fa evaporare i vortici e mi aiuta a vedere attraverso l’oscurità della stanza. Mi accorgo anche di avere ancora la chiave in mano.

L’impasto della confusione svanisce quasi all’istante grazie all’acqua: improvvisamente mi rendo conto di cosa sia successo negli ultimi minuti. Sono in cucina, dopo essere riuscita ad arrivare in qualche modo dentro casa. Le cifre rosse dell’orologio del forno segnano le 03:17. Sono sveglia da troppo tempo e ho bevuto troppo. Le gambe, i piedi e i fianchi mi fanno male per aver ballato troppo.

Vado in soggiorno senza accendere nessuna luce. La poltrona mi chiama, anche solo per sedermi un attimo. È buio, l’unica fonte di illuminazione è l’orologio sul decoder della TV satellitare oltre all’alone arancione dei lampioni all’esterno, che filtra dalle tende.

«Ciao».

Sobbalzo così tanto per lo spavento che la mia testa quasi sbatte contro il soffitto. Di sicuro mi sfugge un gridolino, forse addirittura un urlo, ma succede tutto nella frazione di un secondo, quindi non ne ho la certezza.

Il papà è seduto in poltrona.

«Sei stato sveglio tutta la notte?», gli domando. La mia voce è rauca, ma abbastanza ferma. Non lascia trapelare i postumi della serata.

«Potrei chiederti la stessa cosa».

Mi siedo sul divano, appoggiando la testa sul morbido cuscino dell’angolo e rannicchiando le gambe. La stanza è talmente buia che riesco solo a immaginare la sua sagoma.

«Dove sei stata?», mi interroga.

«Fuori».

«Hai diciassette anni, Lils. Sei ancora sotto la mia responsabilità. È solo questo».

«Sono solo uscita con Zoe».

«Come sei tornata a casa?»

«In taxi».

«E dove hai trovato i soldi? Non hai un lavoro e io non te ne ho dati».

La sua voce è affilata, è ovvio che qualcosa sia cambiato.

«Ha pagato lei».

È la prima cosa che mi viene in mente, ma è una bugia, è chiaro.

«Zoe?»

«Esatto. Sua madre le ha dato dei soldi».

«Quindi Zoe ti ha pagato da bere tutta la notte? Ha pagato il tuo taxi? Ha pagato l’ingresso in discoteca o qualsiasi altra cosa abbiate fatto?».

Improvvisamente, un martello pneumatico entra in funzione nella mia testa, sulla fronte. Una pulsazione sorda lo accompagna. La doppia sfiga del mal di testa da ubriachezza.

«Possiamo parlarne un’altra volta?»

«Hai mal di testa?»

«Sono solo stanca».

Con un movimento del polso, lancia qualcosa attraverso la stanza, facendola atterrare nel mio grembo. Devo prenderla in mano per capire che è un sacchetto di plastica chiuso da una zip.

«Sei sicura che non abbia a che fare con queste?».

Faccio scorrere le dita tra le dozzine di pastiglie rotonde contenute del pacchetto. Non ho possibilità di farla franca.

«Cosa stavi facendo nella mia stanza?»

«Questa è la tua risposta? Trovo della droga nella camera di mia figlia e lei è preoccupata di come abbia fatto a scoprirla, non del perché ne sia in possesso. Se vuoi la verità, stavo svuotando il cestino della spazzatura e – come saprai bene – erano attaccate con il nastro adesivo sotto la tua scrivania. Non stavo ficcando il naso, anche se forse avrei dovuto».

Emette un profondo sospiro, mentre aspetta una risposta che non arriva.

«Cosa sono?», continua, poi.

«Solo un po’ di MD, papà. La prendono tutti».

«Tutti? Ma chi frequenti?».

Non so rispondere. Che senso ha dire “Zoe”, quando lo sa benissimo?

«La prendi anche tu?»

«L’ho provata. Non fa per me».

«Spacci?».

Stavolta aspetta a lungo. Il silenzio sembra durare un’eternità.

«Ha importanza?», rispondo.

Passa altro tempo. Il papà non si muove, e nemmeno io. La delusione invade la stanza, ed è molto più dolorosa del mal di testa.

Passa parecchio tempo prima che lui parli ancora. Quando lo fa, è più un sospiro che un’affermazione. «Non so cosa ti stia succedendo, Lils. Pensi che tua madre sarebbe fiera di te? Dei tuoi risultati scolastici? Del fatto che sei sempre in giro? E ora questo?».

Mi si blocca il respiro in gola, le tonsille sembrano gonfiarsi. È un nodo così grande che è impossibile mandarlo giù.

Non riesco a replicare, quindi il papà continua. «Non posso dire di essermi coperto di gloria nella mia vita», afferma. «Ho commesso degli errori. Tu sai cosa ho fatto… ma questo. Dài, Lils… cosa ti salta in mente?».

Restiamo seduti al buio ancora per un bel po’. L’unico orologio nel soggiorno è appeso in alto sulla parete, ma è troppo buio per vederlo.

«Speravo di essere scoperta».

Le parole escono prima che io riesca a fermarle.

«Perché?»

«Perché qualcuno me ne chiedesse il motivo».

«Te lo sto chiedendo io».

Ancora silenzio. Sto cercando di pensare alle parole giuste, e arrivano. Le frasi che ho provato e riprovato nel letto, ma che non ho mai pronunciato. Il papà non può che stare ad ascoltare, in preda a un orrore e una furia crescenti, mentre gli racconto di zio Alan.