2016: Lily, 19
Willy Loman è appena stato licenziato quando qualcuno bussa alla nostra aula. Tutti si fermano, l’insegnante allunga il collo, pronta a lanciare uno sguardo torvo a chiunque stia interrompendo la lezione. Rimaniamo in sospeso, mentre attraversa con decisione la classe e apre la porta, sporgendo la testa verso il corridoio. Dopo un secondo, esce e si richiude la porta alle spalle. Ciò dà vita a un forte mormorio tra gli studenti: tutti prendono subito il telefono, per controllare cosa è successo su Instagram e simili negli ultimi venti minuti.
Ho un paio di anni in più rispetto a gran parte dei miei compagni, ma questo non mi frena dal prendere lo smartphone a mia volta. Mi si rizzano i peli sul collo e, quando la porta si riapre, l’insegnante impiega un secondo per concentrarsi su di me.
Sorride tristemente e pronuncia il mio nome. Tutti si voltano a guardarmi, e in qualche modo so perché. Raccolgo la mia borsa, e sbatto un fianco contro il banco mentre mi muovo a zig-zag tra i tavoli davanti agli occhi di tutti. L’insegnante mi appoggia una mano sulla spalla e la stringe con gentilezza. Non dice niente, mentre mi dirigo nel corridoio. Quando la porta si richiude alle mie spalle, capisco che non tornerò molto presto.
Un agente di polizia è seduto sulla panca di legno addossata alla parete.
«Lily Armitage?».
Non credo di aver risposto, ma la nostra intesa va oltre le parole. Mi ritrovo sulla panca vicino a lui. Mi stringo le ginocchia al petto, la schiena appoggiata al muro. Mi sembra che il mondo mi stia inghiottendo.
«Mi dispiace molto doverti dare questa notizia, Lily, ma tuo padre ha avuto un incidente in macchina poco fa».
Continua a parlare, ma dopo quella frase riesco a sentire solo delle singole parole: «Ospedale», «Ambulanza», «Hanno fatto tutto il possibile», «Mi dispiace», «Mi dispiace», «Mi dispiace», «Mi dispiace».
Nulla ha più importanza. Nulla ne avrà mai più.