2016: Lily, 19
La casa è vuota eppure sembra incredibilmente piena. È ancora tutto qui: i vestiti del papà, i suoi vecchi attrezzi, il barattolo della salsa alla menta che piaceva solo a lui in fondo alla credenza. La casa è stipata di oggetti eppure ci vivo da sola. È la condizione che avevo sempre desiderato da stupida quindicenne. «Me ne andrò da questa casa», «Perché non mi lasci in pace?».
Che idiota.
Ora che il mio desiderio si è avverato, vorrei esprimerne un altro: riavere mio padre.
Non so quale sia il modo per affrontare questa situazione. La casa e tutto ciò che contiene ora appartengono a me. I broccoli ammuffiti in fondo al frigorifero: miei. La lattina di fagioli scaduta nella dispensa: mia. L’unto sudicio sulla porta del forno: mio. Il rotolo di carta da parati nello sgabuzzino sotto le scale: mio anche quello.
Qualcuno con più pazienza potrebbe catalogare ogni cosa. Alcuni oggetti potrebbero andare in beneficenza; altri potrebbero essere riposti da qualche parte, per ogni evenienza; per il resto, ci sarebbe il bidone dei rifiuti. Io non ho questa pazienza, – ma ho un grosso rotolo di sacchi neri per la spazzatura, molto capienti. Setacciare il pianterreno è abbastanza semplice: tranne le fotografie, tutto il resto finisce nel sacco. Sotto al divano c’era persino una vecchia ciabatta.
Al piano superiore è più difficile. Ognuno dei vestiti di mio padre ha la sua storia.
Ci sono i pantaloni rossi che ha indossato qualche volta quando aveva iniziato a giocare a golf. Una parte di me vorrebbe tenerli, vorrebbe ricordarlo conciato in quel modo. Non per la cosa in sé: la mamma rideva di lui, e io con lei. Vedo i pantaloni rossi e penso alle risate.
Ma finiscono lo stesso nel sacco.
Ha conservato i pantaloni della tuta che ha portato ininterrottamente per quasi diciotto mesi dopo la morte della mamma. C’è un buco sulla coscia destra e uno sul ginocchio sinistro. Sono raccapriccianti eppure, mentre li lancio nel bidone, una parte di me vorrebbe conservarli. Quando penso a mio padre, me lo immagino sempre con indosso questi pantaloni.
Ha due completi, uno nero e uno marrone. Non sono sicura di averlo mai visto portare il secondo; l’altro l’ha indossato in occasione del funerale della mamma. C’è una banconota da venti sterline in una delle tasche – il mio unico bottino, prima che finisca nel sacco.
Certo, perdere un genitore è doloroso. Lo sarebbe anche per un marito, una moglie, un fidanzato o una fidanzata, probabilmente. Non è solo la morte: sono le conseguenze.
Quando in passato mi succedeva qualcosa di importante, uno dei primi pensieri era: «Non vedo l’ora di raccontarlo a papà», oppure «E ora come faccio a dirlo a papà?». È istintivo, e ora so che anche l’istinto è superfluo. Continuerò a domandarmi come farò a dire qualcosa al papà – ma poi ricorderò che, in ogni caso, non potrò. È come cercare di dimenticare l’impulso che ti spinge a mettere un piede davanti all’altro quando si cammina. Ogni volta che mi accadrà qualcosa, dovrò riprogrammare il mio modo di pensare.
Poi, bisogna occuparsi della biancheria altrui. Nessuno ne parla mai, ma un cassetto pieno di boxer e calzini improvvisamente appare più intimo di qualsiasi altra cosa. Il posto in cui un tuo amato non guarderebbe mai, a meno che si verifichi una situazione simile a questa.
Dopo tutti questi pensieri, è proprio l’atto di buttare via i suoi calzini in un sacco della spazzatura che mi fa esplodere. Passo tutto il tempo a dirmi quanto sia stupido, che in questo momento sono irrazionale, ma non aiuta. Mi faccio un bel pianto sui calzini e poi mi sento meglio.
Solo quando ho svuotato l’intero contenuto del cassetto mi accorgo di una busta formato A4 rimasta sul fondo. Gli angoli della carta sono ingialliti e malconci, ma sembra che non sia stata toccata da molto tempo. Non c’è scritto niente sopra, né sul fronte né sul retro, ed è molto sottile.
Non è sigillata, quindi estraggo i due fogli al suo interno. Il primo è una lettera indirizzata a mia madre e mio padre; il secondo un certificato: reca il mio nome in lettere grigio chiaro, impresse da una vecchia stampante che aveva bisogno di una cartuccia nuova.
Lily Armitage. Nessun secondo nome. Il resto delle informazioni è chiaro, lì, grigio su bianco. La parola chiave spicca sulla pagina ed è impossibile da accettare.
Non può essere vero. Non è possibile.
La mamma o il papà me l’avrebbero detto, a un certo punto. Perché no?
Non può essere vero.
Solo che, dentro di me, so che lo è.