Capitolo tredici
Io e Nattie torniamo verso il centro solo quando il sole comincia a calare sotto la linea degli alberi. Parliamo di tutto e di niente: trasmissioni televisive, gruppi musicali, una vacanza a Ibiza che lei vorrebbe fare, un festival estivo di cui lei e Rhys hanno i biglietti.
È piacevole essere normale.
Ascolto con attenzione. È passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ho potuto godere di cose come la televisione, o immaginare di andare a un festival. Mi fa pensare che forse posso avere una vita di questo genere. Amici e famiglia, giornate di sole al parco, due settimane in Spagna o in Grecia durante l’estate. La vita che fanno tutti i miei coetanei.
Nattie mi sembra molto accogliente. Nel giro di un giorno, siamo passate dall’essere sconosciute a comportarci come se ci conoscessimo da sempre. Per molti aspetti, mi sento più vicina a lei che a chiunque altro abbia incontrato finora. Mi rivolge un sacco di domande, ma non riguardano dove sono stata per tredici anni, quanto piuttosto da dove venga la maglietta che indosso o se ho tatuaggi. È perfettamente consapevole del fatto che il suo sia un lavoro banale e che viva in un piccolo paese: sa che potrebbe anche non andarsene mai ma, allo stesso tempo, parla di tutte le nazioni in cui vorrebbe trasferirsi. È una sognatrice e una realista insieme.
Camminiamo fino al Black Horse e rioccupiamo lo stesso divanetto della volta scorsa. Prendo la mia solita pinta di Guinness e Nattie sceglie nuovamente il sidro.
Finisce il primo, ne ordina un secondo, e poi passa al vino. Io non ho ancora finito la mia Guinness che lei è già su di giri. Credo che beva molto.
Il tempo passa e sto pensando di andare a dormire – o a leggere gli articoli che mi ha dato mia madre – quando la porta si spalanca e Ashley entra a grandi passi. Si dirige direttamente al bancone, agitando una mano in direzione di Pete. Tutti gli avventori si immobilizzano.
«No», dice Pete prima ancora che Ashley possa parlare.
«No, cosa?»
«Te l’ho detto prima e lo dico da sempre: sei bandito da qui».
«Perché?»
«Lo sai perché. Ora vattene».
Ashley stringe i pugni. Per un momento temo che possa scatenare una rissa, invece non fa obiezioni. Si allontana di qualche passo dal bancone, si volta a osservare la clientela e poi fissa lo sguardo su di me. Mi scruta per un paio di secondi al massimo, poi infila l’uscita e scompare.
C’è un momento di calma, poi tutto torna alla normalità, come se non fosse successo niente. Non sono neanche sicura che Nattie si sia resa conto dell’accaduto.
Sta ridacchiando da sola. «Penso di aver bevuto troppo», dice. «Meglio che chiami mia mamma per farmi dare un passaggio a casa». Ride di nuovo e poi fa la telefonata, prima di crollare sul divanetto.
Quando arriva Georgie, mi chiedo se sia turbata o arrabbiata per lo stato in cui versa la figlia – e per il fatto che io fossi presente – ma a quanto pare è abituata a queste cose.
Nattie esce camminando a fatica. La madre la guarda con una mano sul fianco, poi mi strizza l’occhio e sorride. «Hai passato una bella serata?»
«Non quanto Nattie».
Questo la fa ridere. «A presto, cara. Fatti viva».
Capisco di avere bevuto troppo anche io quando fatico a concentrarmi sugli articoli di giornale. Erano solo tre pinte, ma non ho consumato un pasto vero e proprio dopo la colazione – riesco a sentire i liquidi che gorgogliano nello stomaco. Devo stare attenta. Bere con Nattie va bene, e anche con Rhys, ma devo assolutamente evitare di ubriacarmi. Non posso dimenticare nulla di quanto mi viene detto né rischiare di lasciarmi sfuggire qualcosa.
È stata una giornata positiva anche per la raccolta di informazioni. Tutti vogliono parlarmi e io sono più che felice di ascoltarli.
In bagno, bevo un bicchiere d’acqua, poi lo riempio di nuovo e lo porto in camera. Ricomincio a leggere. Sembra vada meglio.
I primi articoli riportano la cronologia dei fatti. Una bambina scompare, si cercano i testimoni, la polizia rilascia una dichiarazione, la madre fa il suo appello… Poi tutto si calma per un paio di giorni. Il tono cambia in modo drastico, dalla speranza del ritrovamento alla sua improbabilità. In seguito, cominciano i commenti su mio padre. Comportamento incosciente, irresponsabile, dovrebbe essere perseguito e via dicendo. È tutto scritto con un disturbante sottotesto: forse è stato lui fin dall’inizio. Ha ucciso sua figlia e poi ha dichiarato che è stata rapita. È sempre colpa di uno dei genitori, no?
Poveraccio.
Gli credo quando dice che era rientrato in casa solo per andare in bagno. È una cosa che capita a chiunque e che con ogni probabilità succede migliaia di volte ogni giorno: un genitore lascia momentaneamente il figlio incustodito per fare pipì, o svolgere qualche noiosa incombenza.
Nessuno dei reportage dice nulla di tutto ciò, è ovvio. Invece, tutti affermano – erroneamente – che lui era in casa a guardare la partita, mentre la figlia scompariva. Non stupisce che nessuno gli abbia creduto, e non sorprende che si sia trasformato in… be’, qualsiasi cosa sia diventato ora.