2016: Lily, 19
Jimmy mi invita a sedermi, e lo faccio. Gira intorno alla scrivania e chiude la porta dell’ufficio, che scatta in modo sinistro. Poi raggiunge il fondo della stanza.
«Vuoi un tè?», chiede.
«No, grazie».
Accende comunque il bollitore. Il tavolino da tè è una nuova aggiunta all’ufficio. Niente di speciale, certo – non sarebbe nello stile di Jimmy. Ha un tavolo economico, un bollitore di plastica economico, una scatola di bustine di tè e una confezione piccola di latte a lunga conservazione. Non sia mai che si debba procurare un frigorifero.
Mi siedo e lui cammina goffamente verso il muro, mentre aspettiamo in silenzio. Cosa abbiamo da dirci? Ha quarant’anni più di me e non condividiamo nulla se non il desiderio di ottenere qualcosa l’una dall’altro.
Quando il bollitore si spegne, immerge una bustina di tè in una tazza sudicia con un cucchiaio ancora più sporco, aggiunge uno schizzo di latte e torna a sedersi dietro alla scrivania. È tutta una posa – e ho imparato che se provo a farlo sbrigare, si attarda ancora di più. Ha il coltello dalla parte del manico e ne è consapevole: io ho più bisogno di un investigatore privato di quanto lui ne abbia di una nuova cliente.
«Come stai?», mi domanda.
«Ti interessa?»
«Sto cercando di essere cortese! Non è questo ciò che vuoi?»
«Sì…».
Sorseggia il suo tè e si lamenta perché bollente. «Allora… come stai?», riprende.
«Bene».
«Come va con la casa?»
«Invenduta».
Annuisce lentamente ma non aggiunge nulla. Poi inizia a occuparsi di una pila di lettere sulla sua scrivania. Nonostante la desolazione del suo ufficio, Jimmy ha un tagliacarte molto elegante, con il manico di opale e la punta affilata come un rasoio. Apre la parte superiore di un paio di buste e scorre il contenuto delle lettere. So che non le sta veramente leggendo.
L’investigatore mi guarda. «Vuoi fare le pulizie?»
«Cosa?».
Indica la porta. «Ci sono un secchio e della candeggina nel ripostiglio in corridoio. Ho pensato che potresti lavare il pavimento…».
Vuole umiliarmi. Vuole che me ne vada – solo che non lo farò. Non ora che sono così vicina al mio obiettivo.
Invece di lamentarmi, faccio ciò che mi suggerisce. Mi lancia una chiave e apro la porta dell’ufficio per dirigermi nel corridoio, dove uso la chiave per accedere a quello che si rivela un ripostiglio. Ci sono due stracci, un secchio e un enorme bidone di candeggina, uno di quelli in vendita nei negozi all’ingrosso. C’è anche un piccolo lavandino.
Riempio il secchio con acqua e candeggina, cercando di non farmi stordire troppo dalle esalazioni. Quando ritorno in ufficio, Jimmy sta continuando ad aprire la posta e ad armeggiare con il computer. Lavo il pavimento. Mi chiede di spalancare una finestra. Poi mi fa notare che ho tralasciato una zona del pavimento: torno indietro, la pulisco e continuo.
Quando ho finito, l’acqua è nera e la stanza odora di ospedale. Rovescio il liquido torbido nel lavandino e ripongo tutto nello sgabuzzino, prima di rientrare nell’ufficio.
«Chiudi la porta».
Eseguo. Quando mi giro, Jimmy ha appoggiato la giacca allo schienale della sedia. Sembra che indossi gli stessi vestiti ogni giorno – l’abito marrone con le toppe sui gomiti, la cravatta dello stesso colore e una camicia bianca.
Si snoda la cravatta, se la sfila e la appoggia sopra la giacca; poi, inizia a slacciarsi la cintura.
«Hai detto di avere novità…».
Jimmy si ferma. Appoggia entrambe le mani sulla scrivania, squadrandomi dall’alto. «Hai fretta?», ribatte.
«È solo che… questa è la settima volta che vengo qui».
So che non avrei dovuto rispondere. Non ha mai funzionato prima e, ogni volta, affrontarlo peggiora solo la situazione.
La cintura è stata sfilata e appoggiata anch’essa sulla sedia.
«Ho tutte le informazioni che desideri», afferma.
Sta sogghignando, colmo di arroganza, ma mi sento come se mi avesse dato un pugno in faccia.
«Tu… cosa?».
Riesco a malapena a parlare.
«So chi è tua madre. Ho il tuo certificato di nascita, e, lasciamelo dire, è un nome molto interessante».
Cerco di captare se si stia prendendo gioco di me. È già capitato: alimenta le mie speranze, per poi dire che avevo capito male.
«Cosa significa?», lo interrogo.
«Esattamente ciò che ho detto. Conosco il nome di tua madre. E ho fatto qualche piccola ricerca su Google. Posso assicurarti che se scegli di metterti in contatto con lei, avrà una storia notevole da raccontarti».
Lo fisso. Sorride, godendosi la posizione di vantaggio.
«Posso conoscere questo nome?».
Rimane immobile per un momento e poi mi sorprende, spostandosi fino agli archivi sul fondo della stanza. Si dà dei colpetti sulle tasche in modo melodrammatico, come se non avesse la chiave, poi picchietta la sommità dello schedario, prima di voltarsi nuovamente verso di me.
«Non ancora», risponde.
«Quando?».
Si sbottona i pantaloni. «Prima abbiamo degli affari da sbrigare».
«Non posso. Sono quei giorni del mese».
La sua mano armeggia con la zip. «Possiamo fare altre cose».
«Prima il nome».
I suoi occhi si stringono mentre si raddrizza, poi si riallaccia i pantaloni e infila una mano nella tasca anteriore per cercare la chiave. Apre lo schedario e fruga nel suo misterioso contenuto prima di estrarne una cartellina beige. Temporeggia, chiudendo lo schedario con studiata lentezza. Poi si sistema il cavallo dei pantaloni. Se glielo chiedessi ancora, troverebbe di sicuro il modo per tardare oltre la consegna delle informazioni. Sono già fortunata che mi abbia assecondata così tanto.
Jimmy attraversa la stanza per tornare alla scrivania e si siede. Scorre velocemente i documenti della cartellina, emettendo uno strano «mmm» insieme a una serie di «questo è interessante».
Lo odio.
«Sei certa di volerlo?», mi domanda, facendo ondeggiare i fogli davanti a me in segno di scherno.
«Sì!».
«Sei veramente certa? Una cosa è pensare di volerlo, un’altra volerlo davvero».
«Voglio leggere cosa c’è scritto».
«Mmm».
Afferra la cartellina e poi me la passa. Distendo un braccio – mi aspetto che lui non mi consegni il file.
Ma non è così.
Ora è in mio possesso. Mi tremano le mani. Volto la copertina. Sono otto o nove pagine. Un certificato di nascita, un modulo per l’adozione, una lettera indirizzata alla mamma e al papà. Altra corrispondenza. Un ulteriore modulo.
Sfoglio le pagine a una a una, sempre più velocemente, poi alzo lo sguardo con una rabbia che è ormai impossibile da nascondere. «E questo cosa sarebbe?», esclamo.
«Quello che volevi».
Lancio la cartellina sulla scrivania. «Tutti i nomi e le informazioni sono oscurati. È del tutto inutile».
«Ho la versione completa e non censurata. Non ti preoccupare».
«Dove?».
Mi lancia un sorriso malizioso, a trentadue denti. «L’avrai quando mi pagherai».
Fa una smorfia, come un bambino sulle montagne russe che si sta divertendo un mondo.
«Pensavo che avessimo un accordo», ribatto.
Il sorriso non si spegne. «C’è forse una scrittura privata, da qualche parte, di cui sono all’oscuro?».
Apre il cassetto della scrivania e ne estrae due fogli; li appoggia sulla scrivania, uno vicino all’altro.
È una fattura dettagliata, comprensiva delle ore di lavoro, dei chilometri percorsi e di ogni genere di spesa. L’ultima voce riguarda le “varie ed eventuali” che, dato l’ammontare della somma, immagino significhi “mazzette e tangenti”.
L’unica cifra che importa, però, è quella nella colonna finale: 2357 sterline.
«Più IVA, si intende», comunica Jimmy.
«Non le ho», lo informo.
«Niente soldi, niente informazioni».
«Ma li avrò. Lo sai. Sai che la casa è in vendita».
«Allora temo che dovrai aspettare…».
È da molto tempo che non piango, ma ora ho un nodo in gola. «Pensavo che avessimo un accordo…».
È più un piagnucolio che un’affermazione – ovvero, proprio ciò che fa scattare Jimmy. «Quello era l’acconto», dice. «Sufficiente a coprire le spese iniziali, ma niente più. Se volevi trovare un modo diverso per pagare il servizio che ti ho reso, avresti dovuto dirmelo». Si passa la lingua sulle labbra. «E, a dirla tutta, non sei poi un granché».
Sposta la sedia all’indietro e si sbottona i pantaloni, divaricando le gambe. «Ora vuoi inginocchiarti qui, o no? Posso scalare cinquanta sterline dal conto, se vuoi. Il mio problema è che sono troppo buono».
Jimmy sogghigna e abbassa la zip, poi lascia cadere i pantaloni alle caviglie. Indossa dei boxer a quadri, come sempre. Mi piace pensare che ne abbia una serie tutta uguale, ma mi sembra improbabile. Questo sporco bastardo non si cambia mai.
Controlla l’orologio. «Forza, non ho tutto il giorno».
Come un automa, giro intorno alla scrivania. Il pavimento di legno è ancora umido dove ho passato lo straccio. Mi inginocchio. Jimmy sogghigna ancora. Fa un movimento con la schiena, lasciando scivolare anche i boxer fino alle caviglie.
«Anzi, facciamo quaranta sterline», afferma. «Magari, se sei veramente brava, saliamo a cinquanta. Ma fa’ attenzione con i denti».
Ride. È come se osservassi la scena dall’esterno. È la mano di qualcun altro che si appoggia alla scrivania e impugna il tagliacarte. Che si slancia in avanti e lo affonda nello stomaco dell’investigatore privato. Poi la lama viene estratta per colpire la gola, il petto e di nuovo lo stomaco, ancora e ancora.
Jimmy non ha avuto la possibilità di reagire. La sua ultima parola è stata “denti”. Ora è riverso a terra, sotto la scrivania, in un lago di sangue.
Non so per quanto tempo io resti seduta sul pavimento. Le natiche nude dell’investigatore sono rivolte verso l’alto, mostrando smagliature e buchi della cellulite.
Alla fine, il papà aveva ragione. A volte, le persone vanno abbattute come gli animali. Sarò anche stata adottata, ma qualcosa in comune l’avevamo davvero.
Ci sarà del DNA in questo ufficio – ma non solo il mio. Qualsiasi altro cliente avrà lasciato cellule epiteliali e capelli. Non ha molto senso cercare di pulire la scena. Svuoterò semplicemente il bidone di candeggina sul corpo, sul pavimento e sulla sedia, nient’altro. In ogni caso, non compaio nel database del DNA. Possono risalire a me attraverso gli archivi dell’investigatore. Il vicolo su cui si affaccia questo ufficio è troppo squallido perché ci siano telecamere a circuito chiuso. Sono arrivata a piedi e posso uscire dalla viuzza nell’altra direzione, scavalcare la barriera che dà sulla strada sottostante, e giungere al parco in pochi minuti. Nessuno avrà il minimo sospetto. Il mio unico pensiero è il sangue che ho sui vestiti, ma forse il giubbotto lo coprirà.
Il calendario di Jimmy è facilmente accessibile sul suo computer. Clicco e cancello il mio nome dagli appuntamenti di oggi, poi cerco “Lily” e faccio sparire ogni altro riferimento. Mi elimino dalla sua lista dei contatti, poi prendo il suo cellulare e me lo infilo in tasca. Non gli ho mai scritto mail, quindi non devo preoccuparmi di quello. Il computer, adesso.
Imposto una ricerca con le parole chiave “Lily” e “Armitage”, e ne approfitto per aprire lo schedario.
Il suo frugare affannoso era solo una pantomima – sulla prima cartellina in alto c’è scritto ARMITAGE. Controllo di corsa le altre, per essere sicura, ma non credo di comparire altrove.
Devo andare a prendere la candeggina, è passato già troppo tempo. Le mie dita tremano ancora quando inizio a sfogliare le prime pagine.
Ci sono due certificati di nascita – uno originale e uno modificato. La scrittura è filiforme e illeggibile in quello originale. Non vi è riportato nessun padre, però il nome di mia madre è lì, insieme al suo indirizzo. Che delusione: è una certa Sarah Hanham, di un posto chiamato Stoneridge.
Mai sentita nominare, ovviamente. Mi stava forse prendendo in giro quando parlava di un nome interessante?
Dopo alcune pagine c’è il certificato di matrimonio di Sarah Hanham e Daniel Adams. Anch’esso contratto a Stoneridge: quel luogo sarà il punto di partenza delle mie ricerche.
Questa cartellina contiene molti più fogli di quella che mi ha dato Jimmy. Ci sarà parecchio da studiare: una richiesta di divorzio, un articolo di giornale stampato da Internet su una bambina scomparsa e un secondo certificato di matrimonio.
Alla fine, per quanto tutto il resto possa essere interessante, importa solo una cosa: adesso conosco il nome di mia madre.