Capitolo ventotto

Lunedì

 

Rhys e Nattie mi aspettano sulla panchina fuori dal Black Horse la mattina successiva. Mi sembra strano vedere Rhys in un ambiente diverso dalla luce soffusa del nostro divanetto in fondo al pub. Indossa dei jeans e una camicia a scacchi, come se dovesse andare in cantiere – lavora nel settore edile. Dice che «sta aspettando la chiamata» – qualsiasi cosa significhi. Nattie ha la giornata libera, oppure attacca più tardi. Ha un vestitino estivo, corto, che le sta bene nonostante il color panna con una fantasia a fiori viola – sembra una tenda. Alza i suoi occhiali da sole dalla montatura spessa per guardarmi.

«Cosa ti è successo ieri sera?», domanda.

«Dovevo vedere delle persone».

Alza le spalle e salta in piedi, prendendomi sottobraccio. «Okay», dichiara, «ti abbiamo preparato un regalo».

«Cos’è?»

«Sorpresa!».

«Non mi piacciono molto le sorprese».

«Ma questa ti piacerà».

Ci incamminiamo lungo High Street, in direzione del Via’s, con Rhys un passo dietro di noi. Ora ho una vaga idea della posizione dei luoghi ma, anche se rimane classificato come paese, Stoneridge è un po’ più esteso degli altri. La periferia è caratterizzata da nuovi quartieri residenziali che si espandono a macchia d’olio, sempre più in là.

Invece di andare verso la collinetta dietro il complesso di edifici dove vive mio padre, o lungo il fiume, camminiamo in senso opposto. C’è un negozio dell’usato e un altro bar, seguiti da una lunga schiera di cottage in pietra con il tetto di paglia.

Arriviamo presto fuori dalla scuola elementare di Stoneridge. C’è un cartello con un arcobaleno e l’immagine di due bambini che giocano con una palla. Le scuole, specialmente quelle elementari, sono sofisticate illusioni. Tutto sembra così grande quando si è bambini, poi, da adulti, lo stesso parco giochi pare minuscolo.

Ci fermiamo davanti al cancello, guardiamo oltre il cortile verso la scuola. Dalle finestre si intravedono poster colorati e dipinti, e l’asfalto di fronte è ricoperto di ghirigori variopinti, come un caleidoscopio.

«Ti ricordi qualcosa?», domanda Nattie.

«No».

Rhys estrae dalla tasca posteriore una foto sbiadita. Ci sono due bambine che giocano alla campana: una ha una coda di cavallo bionda ed è in equilibrio sul piede sinistro, l’altra ha due codini rossi e tiene in mano un sasso.

Nattie indica l’angolo del cortile in cui ora si trovano alcune panchine disposte a L.

«Questa foto è stata scattata proprio lì», afferma.

Non c’è dubbio che sia lo stesso luogo. L’ombra del muro si riflette quasi nello stesso identico modo e riesco a scorgere la parete nell’immagine.

«La mamma l’ha trovata ieri sera», aggiunge Nattie. «Pensa risalga a quando avevamo cinque anni. Non ricorda chi ce l’abbia fatta, ma è stata probabilmente lei, oppure tua madre».

La scuola è immersa in un silenzio inquietante. È il periodo delle vacanze e i bambini sono a divertirsi nei parchi e nei giardini; o in casa a giocare al computer. Non c’è nessuno qui, ma il cortile ospita i fantasmi di centinaia di futuri irrealizzati.

«Dacci una spinta».

Rhys ubbidisce e intreccia le mani, Nattie sale sul gradino umano e lui le dà lo slancio oltre le sbarre di metallo. La ragazza atterra con un «oof!», si pulisce le mani e afferma di stare bene. Rhys si abbassa di nuovo e io la seguo oltre la grata e sul cemento, rimbalzando in avanti quando atterro, ma uscendone illesa. Rhys infine si dà lo slancio, evitando per un pelo di immolare le proprie parti intime, mentre scavalca. Atterra con molta più grazia atletica rispetto a me e Nattie.

«Come te la tiri», commenta Nattie con un sorriso.

Ci dirigiamo verso quell’angolo e ci sediamo sulle panchine bassissime, ridacchiando tra noi per quanto dobbiamo sembrare ridicoli.

Nattie tiene in mano la foto a mezz’aria, girandosi in modo da confermare che siamo sedute nell’esatto punto in cui c’era la campana.

«Ti ricordi qualcosa, ora?», domanda.

«Mi piacerebbe poter dire di sì…».

Appoggia la stampa sulla panchina. «Riaffiorerà tutto prima o poi, ne sono sicura. Passerai qui davanti e tutto sarà di colpo davanti ai tuoi occhi».

«Mi piace la scoperta. Parlare alle persone, sentire le loro storie. Riesco a trovare il vero senso di cosa sia successo».

Nattie mi guarda e, solo per un attimo, le sue sopracciglia si inarcano, come se non sapesse come prendere queste parole. Non avrei dovuto dirlo, ma mi ci è voluta solo una settimana e credo sia la verità.

Si alza e raggiunge il serpente dipinto nel cortile. È diviso in quadrati, ognuno con dentro un numero. Nattie si abbassa e raccoglie un sasso dal marciapiede.

«Dài, vieni», mi invita. «In onore dei bei vecchi tempi».

E allora giochiamo alla campana. Rhys sta seduto e guarda. Ci fa mettere in posa per una foto. Io sto in equilibrio sulla gamba sinistra e Nattie tiene in mano la pietra. Dopo che l’ha scattata, corriamo verso la panchina per confrontare le due immagini. A parte i capelli più lunghi, la maggiore superficie di pelle scoperta e le nostre stature, non è male.

Rhys scherza sul fatto di vendere la foto a qualche tabloid per un sacco di soldi, ma la minaccia di Nattie, che gli ricorda di avere una copia della chiave di casa sua, è abbastanza per metterlo a tacere. Non le domando perché abbia la chiave. Ho immaginato fin dalla prima volta che li ho incontrati che ci fosse qualcosa tra loro, ma non si sono mai scambiati effusioni in mia presenza.

Nattie si sdraia sulla panca, le braccia distese oltre la testa e io faccio lo stesso sulla panchina adiacente. Rhys è seduto sull’asfalto in mezzo a noi.

«Sei preoccupata?», domanda Nattie.

I miei occhi sono chiusi – la luminosità del cielo filtra attraverso le palpebre. Solo quando la ragazza urla «O!» capisco che sta parlando a me. La O arriva al primo colpo.

«Che c’è?», rispondo.

«I risultati del test. Non dovrebbero arrivare oggi?»

«Non ho bisogno di essere nervosa. Conosco il risultato».

«Non intendevo nervosa per il risultato, ma per le sue conseguenze».

L’interno delle mie palpebre è di un arancione fiammante, con forme verdi brillanti che si muovono in tondo. Lascio ricadere le braccia ai lati della panchina e inspiro il tepore della mattina.

«Credo di non averci ancora pensato».

«Cambierà tutto, ne sei consapevole, vero? Avrai un padre e una madre. Anche un patrigno e un fratellino. Sarà tutto ufficiale. Passeranno solo un paio di giorni prima che i giornalisti si presentino in paese, poi sarai in TV».

«Gli dirò che non mi interessa».

«Ma continuerai ad avere una madre, un padre e un fratellino». Fa una pausa, e quando ricomincia sembra tremare un po’. «Pensavo… se rimani, potremmo prendere un appartamento insieme. Io vivo ancora con mia madre perché non posso permettermi di vivere da sola. Non deve essere per forza a Stoneridge. Possiamo spostarci di qualche chilometro. Abbastanza lontano perché tu possa fare la tua vita e non debba temere visite indesiderate; ma abbastanza vicino perché tu possa andare a trovare tua mamma e Harry…».

Nattie deve aver pensato già a tutto, forse ha anche controllato i prezzi e le disponibilità di appartamenti sfitti. Stringo gli occhi, e uso tutta la forza che ho per non mettermi a piangere.

«Era solo un’idea…».

Il suo tono è un po’ addolorato e le rispondo immediatamente, anche se sto singhiozzando: «Non è quello».

Ho gli occhi ancora chiusi, ma percepisco un movimento, e poi la mia mano è in quella di Nattie. La sua pelle è calda. «Non volevo farti stare male, O. So che è una cosa importante a cui pensare».

«Non è neanche quello».

Mi siedo e apro lentamente gli occhi. La luce è fortissima e mi ci vuole qualche secondo per capire che Nattie è seduta sul marciapiede. Rhys è appoggiato all’altra panchina, ci guarda in silenzio.

«Non credo di aver mai avuto una vera amica, prima», dico.

Le parole fanno male, tagliano come lame affilate.

Nattie stringe le mie dita e posa la testa sul mio ginocchio. Sembra che stia per dire qualcosa ma poi il mio telefono squilla, rovinando tutto.

La mamma.

Rispondo. È agitata, lo capisco dal modo in cui pronuncia il mio nome.

«Sei in paese?», mi domanda.

«Sì, con Rhys e Nattie».

«Puoi venire qui? Sta arrivando il corriere con i risultati».

Mi rizzo a sedere. «Posso portare anche loro?»

«Certo».

«E papà?».

Un momento di pausa. Credo che sia caduta la linea. Stacco il telefono dall’orecchio, ma la ricezione è buona, e la scritta MAMMA è ancora sullo schermo.

«Sei ancora lì?», chiedo.

«Sì», risponde. «Sì a entrambe le cose. Puoi portare anche tuo padre».