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Avevano puntati addosso sei occhi e due fucili.
I due uomini armati erano completamente rasati, fin nelle sopracciglia, vestiti con tonache bianche; stavano ai fianchi di un uomo in abito di seta nero e camicia bianca di pizzo, maturo, alto e fiero nel portamento, la carnagione quasi albina e i capelli di un insolito colore tendente al rosa.
Somigliava notevolmente a Teodoro: viso lungo con il mento pronunciato, occhi a mandorla e guance incavate. Sotto la giacca si intuivano un ventre rotondo e fianchi larghi.
Aveva una fisionomia davvero curiosa e, cosa ancora più strana, sorrideva.
«Perché vi siete introdotti in questa casa?», domandò. «Come avete fatto?»
«Avevamo la chiave», confessò Caffarel.
«La chiave?»
«Sì, e stavamo inseguendo un assassino».
«Un assassino? Qui?»
«Sì, signore».
«Posso sapere i vostri nomi?»
«Io sono il direttore della Polizia di Torino. Mi chiamo Eugenio Caffarel».
L’uomo annuì e si rivolse a Conon. «Voi, invece?».
Lui dichiarò il proprio nome per intero, digrignando i denti dalla rabbia.
«E chi sarebbe l’assassino a cui stavate dando la caccia?»
«Teodoro», rispose Caffarel.
«E lo avete trovato?»
«Sissignore, si trova in questa casa. Poco fa era di sotto, lo stavano medicando».
«Medicando?»
«Siamo stati costretti a sparargli un colpo, signore».
«Voi?»
«Abbiamo assistito a un omicidio. E aveva già ucciso anche altre persone. Altrimenti non avremmo mai osato introdurci furtivamente nella vostra proprietà».
L’altero signore si lasciò sfuggire un sospiro di sconforto, poi si voltò verso l’uomo rasato e armato di fucile, alla sua sinistra, e gli chiese di andare a cercare Teodoro.
«Subito, signore», disse l’altro, scattando e avviandosi prontamente per eseguire l’ordine.
L’uomo elegante stette per qualche istante a guardare la schiena del servitore che si allontanava, poi tornò a rivolgersi a Caffarel e a Conon. Ne ripeté i nomi, come per appurare di averli memorizzati correttamente. «Chi vi ha dato la chiave di questa casa?».
Caffarel fece un passo avanti e fu subito dissuaso dall’uomo col fucile ad avanzare ulteriormente. Disse: «Consegnateci Teodoro, affinché sia arrestato e processato per i suoi crimini abominevoli, e noi vi spiegheremo come siamo entrati».
«Non credo di poterlo fare».
«Chi siete?», gli chiese Caffarel. «Che razza di posto è questo?»
«Io mi chiamo Ermete Kagemni».
«Avete uno strano cognome», osservò spavaldamente Conon. «E anche una insolita fisionomia. Posso domandarvi da dove venite? Siete italiani?»
«Io sono di Torino, come tutti i miei familiari, da moltissime generazioni».
«Onestamente, non sembra». Conon si guardò attorno, indicò la statua del faraone che aveva gli stessi caratteri somatici del proprietario. «Quella da dove viene?».
Caffarel corrugò la fronte: non capiva perché Conon si stesse mettendo a parlare della statua, poi però fece caso anche lui alla notevole somiglianza fra quella e il signor Kagemni; non che la statua lo raffigurasse – era evidentemente un altro individuo – ma gli somigliava, come un giapponese poteva somigliare a un altro giapponese: appartenevano alla stessa genia, una genia diversa da quelle a loro conosciute.
«Era un faraone», rispose Kagemni guardando la statua. «Si chiamava Akhenaton».
Conon gli disse di essersi recato, solo pochi mesi prima, in una località egiziana chiamata El Amarna, e di avervi visto una stele raffigurante un re, una regina e tre bambini con quelle fattezze, sotto un disco solare da cui pendevano raggi terminanti in mani.
«Quelli erano Akhenaton e la sua consorte Nefertiti», disse Kagemni.
«Da dove viene la vostra gente, signore? Dall’Africa? Chi siete? Siete voi i Superiori Sconosciuti?»
«Come?», rise il signor Kagemni. «Superiori Sconosciuti, avete detto?».
Conon specificò: «Siete i capi segreti della Fratellanza di Heliopolis?»
«Ah, ho capito», disse Kagemni, serio, «vi riferite alla loggia massonica del sedicente conte Darch, a quel ladro».
«Teodoro lo ha ucciso», gli fece sapere Caffarel.
E fu come averlo chiamato.
Teodoro arrivò, con una fasciatura alla spalla e scortato dal servo armato. Era agghindato allo stesso modo di prima, ma adesso non aveva addosso neppure una lama.
«Buonasera, padre», disse, posando un ginocchio a terra. «Volevate parlarmi?».
Il signor Kagemni lo fulminò con uno sguardo severo. Gli mostrò una piccola sfera di pietra. «Sai cos’è questa, vero?».
Teodoro non profferì parola.
«Questa», disse Kagemni rivolto ai due estranei, «mi ha fatto sapere che lui», indicò il figlio inginocchiato, «era entrato in casa». Nell’altra mano stringeva una seconda sfera, identica, e la fece vedere. «Questa, invece, mi ha informato che la porta si era aperta un’altra volta». Tornò a rivolgersi a suo figlio. «Io so sempre quando qualcuno entra in questa casa».
«Una persona agisce anche per il suo predecessore», disse Teodoro. «Io ti colloco nel mio cuore ogni giorno. Il figlio invero è giusto quando è buono per suo padre».
«Tu devi ascoltare quel che ti dico, Teodoro. Non trasgredire ciò che è stato ordinato».
«Padre, lasciami spiegare. Khonsu guida il mio volere, è dentro di me».
«Ne parleremo dopo. Ora vattene, Teodoro».
«No!», si intromise Caffarel. «Lui è in arresto, deve venire con noi».
Conon era tentato dal raccogliere le pistole, le sbirciava avidamente, e i due servi di Kagemni alzarono i fucili per fargli capire che se n’erano accorti.
«Padre, ubbidisco. Ma vi supplico, lasciate che prima mi occupi di questi due intrusi».
Il signor Kagemni parve prendere in considerazione l’idea, ma poi strinse forte un pugno e, soffocando la rabbia, disse: «No, deciderà il vecchio. Tu hai già combinato troppi guai».
Mogio come un bambino bastonato, Teodoro si mise in piedi e se ne andò.
«Seguitelo», ordinò il signor Kagemni ai due uomini armati. «Assicuratevi che non scappi. Io intanto scambio due parole con i gentiluomini della Polizia».
I servi annuirono, ma, prima di eseguire, raccolsero da terra le pistole di Caffarel e se le portarono via.
Rimasto solo con loro, il signor Kagemni si toccò la tempia con un dito e disse che Teodoro aveva qualcosa che non andava nella testa. «È malato. Un padre sente molto dolore quando vede il proprio figlio smarrire sé stesso nel delirio della follia», sospirò avvicinandosi. «Ha fatto del male a qualcuno? Ha addirittura ucciso?»
«Almeno sei persone», precisò Caffarel.
Il signor Kagemni sospirò, addolorato. «Vi capisco. Volete arrestarlo e farlo giustiziare, e avete ragione. Ma lui crede di essere posseduto da uno spirito, non è padrone della propria volontà. Non ne ha colpa. La colpa è mia, che non l’ho controllato abbastanza. È con me che dovete parlare».
Caffarel scosse energicamente la testa. «Nossignore. L’assassino è lui. È grande e grosso, può e deve rispondere di quel che ha fatto. Consegnatecelo immediatamente. Altrimenti non avrete scampo, signor Kagemni. O ci consegnate vostro figlio o pagherete tutti quanti per le sue colpe».
«Ben detto», fece Conon, pur sapendo che era solo un patetico tentativo di fare la voce grossa in una situazione disperata.
La rabbia colorava di viola la faccia esangue di Kagemni. «Chi vi ha dato la chiave?».
Caffarel glielo disse: «Il signor Emanuele Savinio».
«Il guardiano». Kagemni non sembrava sorpreso. «Il signor Savinio è stato custode qui da noi per un po’ di tempo. Lo avevamo assunto su raccomandazione del conte Darch. Il conte ha tradito la nostra fiducia. Ha introdotto nella nostra casa una spia, affinché gli procurasse la chiave. Così ha potuto sottrarre oggetti antichi dalla nostra collezione. Teodoro ha agito di sua…». Si corresse: «Ha agito credendo follemente di impersonare un’antica divinità, ma quelle persone avrebbero pagato comunque per quel che ci hanno fatto».
«Non ci si può fare giustizia da soli», disse Caffarel. «E comunque ormai sono tutti morti. Chi deve pagare è vostro figlio».
«Lui ha preso i vestiti e le armi dalla collezione. Come ho detto, è pazzo».
«Lo stabilirà la legge, signore».
«Vostro figlio», disse Conon, «cercava una mappa. Anche voi?»
«Sì, naturalmente. È la mappa rubataci da quel vile traditore di Darch».
«Ora è nelle nostre mani, signore».
Il signor Kagemni esalò un sospiro: «Quella è la mappa dell’Egitto prima delle sabbie», disse. Aprì la mano destra scoprendo sul palmo una manciata di sottile polvere gialla. «La sabbia del deserto». La accostò ai loro visi come per fargliela vedere meglio, ma all’improvviso vi soffiò sopra mandandogliela negli occhi e costringendoli a inalarla.
Non era sabbia, bruciava, irritava il naso e i polmoni.
Conon e Caffarel cominciarono a tossire, e a muovere le mani davanti alla faccia come se fossero assaliti da uno sciame di zanzare.
«Porco bastardo!», sbraitò Conon.
Poi crollarono entrambi a terra.
Prima di perdere i sensi udirono la voce del signor Kagemni che diceva: «Non sareste dovuti venire qui, non avreste dovuto sapere, non avreste dovuto vedere».