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Il commissario di Polizia Eugenio Caffarel si guardò intorno a bocca aperta: era successo di nuovo, pensò, e stavolta nella sontuosa camera da letto di una villa disabitata.

Prima di esaminare il cadavere disteso sul pavimento, accanto a una buca e a una cassaforte aperta e vuota, raccolse il fuoco di una candela con un bastoncino e accese la pallina d’oppio che aveva caricato nel fornello della pipa. Quindi, si avvicinò al corpo, seguito da una densa scia di fumo. «Abbiamo a che fare con uno strano assassino», disse. «Un mostro folle».

«Posso andare fuori?», supplicò il giovane soldato austriaco che lo aveva accompagnato, e subito si voltò di scatto premendosi la mano sulla bocca per trattenere i conati. «Posso, professore?»

«Esci pure, Nicolas», gli disse Caffarel. «Ma non ti allontanare, potrei aver bisogno di te».

«Va bene, signore», ansimò il giovane. «Grazie, signore». Si rimise il chepì d’ordinanza sulla testa e corse a vomitare fuori, all’esterno di quella grande villa, dove per fortuna non c’era nessuno che potesse vederlo.

Caffarel cominciò a studiare l’orrore, il motivo per cui era stato chiamato.

Accadeva per la seconda volta. Il primo omicidio, però, era avvenuto all’aperto, e il corpo, conciato pressappoco allo stesso modo, era stato trovato da alcuni passanti vicino al ponte di pietra di Borgo Po.

Stavolta l’assassino si era introdotto in una villa, forse nottetempo, senza lasciare segni di effrazione. Caffarel pensò che forse il proprietario di casa lo conosceva.

L’uomo per terra e senza più la testa attaccata al collo – che gli era stata posizionata fra le gambe, all’altezza delle caviglie – rispondeva al nome di Maurizio Calandra.

Era lui il proprietario della villa.

Bastava vedere la cassaforte che teneva nascosta nel pavimento, o anche semplicemente guardarsi attorno e ammirare il lusso della sua dimora principesca, per capire quanto fosse ricco.

Secondo un vicino di casa, che Caffarel aveva interpellato poco prima di entrare, Calandra era un facoltoso mercante di antichità e un grande collezionista, specializzato nei reperti dell’Antico Egitto. Era sempre in viaggio e nessuno lo aveva più visto, da parecchio tempo.

A trovarlo morto e ad avvisare la Polizia era stata una pattuglia di soldati austriaci, che quella mattina si era addentrata nella proprietà credendola disabitata e, quindi, utilizzabile come bivacco.

Dal mese di maggio, ormai, le truppe asburgiche, come sciami di insetti infestanti, stavano requisendo alloggi e case in tutta la città, per accamparvisi; e quella grande villa doveva essere apparsa loro come una residenza particolarmente appetibile, dato che poteva ospitare nel lusso più confortevole una considerevole quantità di uomini.

Ma i soldati, abituati alle atrocità della guerra, erano scappati a gambe levate vedendo quel che c’era all’interno.

Il corpo non era stato solo decapitato: l’assassino gli aveva aperto l’addome con una lama molto affilata e aveva asportato una parte delle viscere.

Era uno spettacolo immondo.

Caffarel si chiese come mai Calandra vivesse da solo: non aveva famiglia? Neppure un aiutante, un giardiniere o una donna delle fatiche…?

Nessuno.

Si domandò anche perché, se era un collezionista di antichità, nella casa non ce ne fosse traccia.

E anche la cassaforte aperta, vuota e rovesciata per terra meritava qualche risposta.

Un furto?

Possibile.

Caffarel si riempì voluttuosamente i polmoni di fumo e si avvicinò ancora un po’ al cadavere; ogni boccata che aspirava diminuiva il senso di disgusto.

Esaminò la scena con attenzione.

Sul petto della vittima, all’altezza dello sterno, c’era un oggetto dalla forma insolita: una specie di croce che, al posto del braccio verticale più corto, aveva una sorta di goccia rovesciata.

Vedendolo, posato sul torace in quel modo così accurato e premuroso, come un fiore fresco su una tomba, Caffarel pensò che l’assassino avesse voluto mitigare il proprio gesto efferato lasciando una benedizione sul cadavere.

Che cos’era?

Lo raccolse prendendolo con le punte delle dita e lo guardò.

Era fatto di legno chiaro, forse pino o abete, e non sembrava né prezioso né particolarmente antico; era difficile immaginarlo in una collezione importante. Infatti, non era stato rubato, bensì messo sulla scena del delitto dallo stesso assassino.

Perché lo aveva fatto?

Cosa significava?

A Caffarel sovveniva di aver già visto un oggetto come quello da qualche parte. Il suo cervello di professore universitario, benché arrugginito, era ancora in grado di fornire delle risposte a certe domande. Pian piano nella sua memoria prese forma un ricordo: quell’oggetto somigliava alla croce usata dai cristiani d’Egitto, i copti.

Non era così assurdo pensarlo, visto che il signor Calandra faceva commercio di oggetti egiziani.

Caffarel lo avvolse nel fazzoletto da naso e se lo mise in tasca. Forse conosceva qualcuno in grado di dirgli che cos’era.

L’oggetto aveva quasi la stessa forma dell’uomo a terra, considerando che il poveretto era supino con le braccia spalancate, le gambe leggermente divaricate, e dal suo collo era fuoriuscita una notevole quantità di sangue, allargatasi in un’aureola oblunga.

Cos’era successo in quella casa?

Caffarel la ispezionò da cima a fondo e non trovò niente, nel vero senso della parola. A eccezione della camera da letto in cui si trovava Calandra, il resto della villa pareva in disuso. Non c’erano quadri alle pareti, ma solo le ombre chiare della loro assenza; le credenze e le dispense erano completamente vuote; le altre stanze da letto si presentavano con i materassi snudati delle lenzuola; gli armadi erano svuotati; e i pitali nei comodini erano lindi e privi di tartaro d’orina, come se fossero stati ripuliti con molta cura prima di lasciare la grande casa ai fantasmi.

Caffarel uscì all’aperto e si fermò davanti all’ingresso. Ammirò il giardino, anch’esso abbandonato e incolto. Svuotò il fornello della pipa e fece un giro di perlustrazione. Non impiegò molto a individuare tracce di suole impresse nella terra fangosa.

Erano orme di dimensioni notevoli, presumibilmente appartenenti a un individuo più alto della media, e si susseguivano collegate l’una all’altra da strisciate, come se l’uomo che le aveva lasciate camminasse strascicando i piedi.

«Nicolas!», chiamò Caffarel.

«Eccomi, professore».

«Misura queste impronte».

Il ragazzo aprì un coltello a serramanico, andò a cercare un rametto, poi tornò, si chinò e prese le misure del piede impresse nella terra umida facendo delle tacche sul legno.

«Bene», disse Caffarel. «Ora va’ a confrontarlo con il piede della vittima».

«Come, signore?»

«Voglio accertarmi che non siano le sue impronte. Anche se a dire il vero, queste mi sembrano decisamente più grandi».

Nicolas era restio a rientrare in quella casa. «Devo proprio?».

Caffarel gli tolse il ramo dalla mano e andò a verificare personalmente. Lui ormai era quasi insensibile al sangue e al macello: niente poteva avvicinarsi all’orrore tremendo che gli era toccato in sorte di vedere nella sua vita. Di solito, a rattristarlo e a metterlo a disagio, erano le famiglie felici, perché gli ricordavano la propria tragedia e risvegliavano il ricordo più doloroso che un uomo possa immaginare.

Quando aveva a che fare con le sciagure, invece, avvertiva un leggero senso di sollievo: poteva raccontare a sé stesso che il male colpiva anche altri, che il mondo funzionava così e non si era accanito soltanto contro sua moglie e le sue due bambine.

Trasse un profondo respiro e si accosciò accanto al corpo del signor Maurizio Calandra. Confrontò il suo piede con i segni sul ramo fatti da Nicolas.

Quelle nel giardino non erano le sue impronte, questo almeno era sicuro: Calandra aveva piedi nettamente più piccoli.

Caffarel scosse la testa e si rialzò sospirando.

Aveva bisogno di fumare.