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«Voi?», esclamò incredulo e deluso Caffarel, vedendo l’uomo nella cella.

«Io lo sapevo che era un infido bastardo», ringhiò Conon.

Il mesmerista, dottor Belmondo, seduto sulla fredda pietra, strisciò indietro fino a toccare la parete con la schiena; li guardava dal basso in alto, agitando le pupille dilatate sotto le sopracciglia da cinghiale.

«Perché sono qui? Non ho fatto niente! Io sono una persona stimata, un dottore, perdio!».

Era stato portato nella stessa cella del signor Fario, il quale se ne stava rannicchiato in un angolo, per terra sul fieno sporco. Fario era cambiato dall’ultima volta che Caffarel gli aveva parlato nella trattoria: sembrava dimagrito, la pelle del viso era tirata come pergamena e, sulle guance, si era formata una patina di barba ispida e grigia, aveva gli occhi lucidi, spenti; sembrava malato. La prigione non giovava all’umore di nessuno.

«Io non ho fatto niente di male», protestò il mesmerista. «Devo tornare subito al mio ospedale, i pazienti mi aspettano».

Caffarel lo ignorò e si rivolse a Fario: «Come vi sentite?»

«Male».

«Mi sapete dire se costui», Caffarel indicò il dottore, «sia il famigerato conte Darch, Gran Maestro della…?»

«Non mi sembra lui», rispose Fario. «Darch era alto e snello».

«Oh, visto!», sbraitò il mesmerista. «Io sono soltanto il dottor Belmondo, stimato medico, fondatore del…».

«Se permettete…». Conon si fece avanti. «Vorrei scambiare due chiacchiere col dottore».

Con un gesto della mano, Caffarel gli diede il consenso ad applicare i suoi metodi. «Nicolas?», chiamò.

«Sì, professore?»

«Aspettaci fuori».

«Agli ordini, signore».

«Prima, però, porta il signor Fario in un’altra cella».

«No, no», implorò Fario.

Ma Nicolas lo trascinò via.

Quando i lamenti di Fario si persero lontano, nella torre, Conon si avvicinò al mesmerista.

«Ah, ma io vi conosco!», esclamò Belmondo appena la penombra scivolò via dalla faccia di Conon. «Avete intenzione di picchiarmi un’altra volta?»

«Sì», rispose Conon. «Sempre che essere malmenato non vi procuri piacere».

«State lontano da me!».

«Allora», gli disse Caffarel, «se non volete soffrire, spiegateci come mai vi siete fatto seguire dalla Polizia».

«Io?».

Conon esalò un sospiro fiacco e si sedette a terra accanto a lui. «Dottore», disse, calmo, «sono stanco. Sono reduce da un viaggio per mare, lungo, scomodo, noioso, senza considerare la paura costante che da un momento all’altro potessimo essere avvistati e annientati dalle navi nemiche. Sono stati sedici giorni di dondolio continuo, di pessimo cibo e di altri innumerevoli disagi. E da quando mi trovo a Torino le cose non sono migliorate affatto. Non dormo come si deve da parecchio tempo. Perciò, vi supplico, risparmiatemi la fatica di torturarvi. Facciamoci quattro chiacchiere fra amici. Nessuno lo verrà a sapere, ve lo giuro. E io cercherò di convincere il direttore della Polizia qui presente a lasciarvi tornare al vostro ospedale».

«Sempre che non sia lui il Cannibale», puntualizzò Caffarel.

Lo sguardo basso, come stesse pensando ad alta voce, Belmondo disse: «Io non mangio carne di nessun tipo, figuriamoci».

Conon gli diede la mano. «Affare fatto?».

Belmondo guardò Caffarel, poi ruotò la testa verso Conon, lo fissò a lungo, e alla fine annuì. «Domandate pure quel che volete, vi aiuterò».

«Bene. Perché vi siete vestito come il conte Darch, perché siete andato alla torre civica e poi da Bozzanti e poi in contrada del Gallo?»

«Vi riferite agli occhialini scuri che uso portare? L’ho imparato proprio dal Gran Maestro. Gli occhiali sono un regalo che mi fece lui».

«E, dal momento che facevate parte della stessa loggia, come può, Fario, non riconoscervi?»

«Quando ci riunivamo indossavamo delle maschere o, meglio, degli elmi di cartapesta sagomati, da calarsi sulla testa. Non ci conoscevamo tutti. Fario era uno degli ultimi arrivati».

«Che genere di maschere indossavate?»

«In Egitto si possono vedere degli affreschi e delle incisioni con figure dal corpo umano e la testa di animale. Ne avete mai sentito parlare?»

«Continuate», rispose Conon.

«Be’», proseguì Belmondo, «nella Fratellanza di Heliopolis c’erano teste di falco, di cane, di ibis…».

Conon aveva ben presente ciò di cui stava parlando, per cui lo interruppe. «Cosa ci facevate davanti alla torre civica?»

«Avevo un appuntamento».

«Con chi?»

«Djoser».

«Sarebbe», spiegò Conon a Caffarel, «il faraone per il quale fu costruita la piramide a gradoni di Saqqara».

Belmondo assentì guardandolo con ammirazione. «Ve ne intendete!».

«Chi asserisce di essere un intenditore è un cialtrone», disse Conon. «Abbiamo appena iniziato a sollevare il velo sull’Antico Egitto».

«Qui a Torino», ribatté Belmondo, «c’è chi è in grado di vedere sotto quel velo».

«Davvero? E chi?»

«I Superiori Sconosciuti».

«Questo Djoser sarebbe uno di loro?»

«No, lui è solo un Fratello».

«Del quale voi non conoscete la reale identità, immagino».

«Sì, è così».

«Perché dovevate incontrarlo?»

«Mi deve del denaro».

«E perché poi vi siete recato dallo speziale di piazza delle Erbe?»

«Siamo amici».

«Noi, dottore, sappiamo che anche lo speziale è un adepto della Fratellanza di Heliopolis».

«Non dovreste parlarne al presente: la loggia non esiste più».

«Da quando?»

«Un anno fa ha sospeso le attività, che erano già da parecchio tempo clandestine e molto rischiose per tutti noi».

«Il tempio è…», Caffarel si corresse, «era dentro la torre civica?»

«No, ci riunivamo a Porta Palazzo, in contrada del Gallo, in uno stabile di proprietà di un inglese che non ci vive. Ma adesso lì non c’è più niente. Vi si sono installati dei soldati austriaci. Andate pure a controllare».

«Allora perché vi siete recato lì stamattina?»

«Non sapevo dove andare. Non so neanch’io perché sono finito lì».

«Nicolas?», chiamò Caffarel.

Il suo vice arrivò all’istante. «Sì, professore».

«Manda qualcuno a controllare se in contrada del Gallo ci sono soldati austriaci. Uno che cavalchi veloce».

Nicolas, biondo e in divisa bianca, schizzò via come una scintilla nella penombra della cella.

Quindi, Caffarel si rivolse nuovamente a Belmondo. «Il vostro nome all’interno della loggia qual era?»

«Ramses», rispose Belmondo. «Io mi chiamavo Ramses II».

«Caspita!», esclamò Conon. «Dovete essere un pezzo grosso, allora».

«Perché pensate questo?»

«Ramses II fu un faraone molto importante».

«Sì, ma era del Nuovo Regno, quindi è alquanto recente, in confronto alla lunga storia egizia».

«Cosa significa?»

«Il criterio col quale ogni adepto sceglieva il proprio nome iniziatico era l’antichità, non la grandezza del faraone: i gradi più alti assumevano i nomi dei faraoni più antichi».

«Quindi», chiese Caffarel, «il Gran Maestro si chiamava come il primo faraone?»

«Sì».

«Menes?», domandò Conon.

«Sì». Belmondo lo guardò con un misto di stupore e ammirazione. «Menes». All’improvviso sembrava aver dimenticato di essere stato arrestato. «Vi intendete parecchio di Antico Egitto, signore!».

Conon rinunciò a ripetere per l’ennesima volta che nessuno si intendeva parecchio di Antico Egitto. «Cosa ci sapete dire dei Superiori Sconosciuti?»

«I Fratelli più giovani chiedevano sempre al Gran Maestro una prova della loro esistenza, ma lui non li accontentava. Così, molti hanno cominciato a dubitare della loro realtà. Sapete, da quando i Superiori Sconosciuti della Stretta Osservanza, i Templari, si sono rivelati una truffa del fondatore… A ogni modo, alcuni dei più giovani hanno deciso di tradire la loggia. Sembra che abbiano cominciato a sottrarre oggetti dagli archivi e a rivenderseli; sono stati scoperti e se la sono data a gambe».

«Di chi parlate?»

«Di Michele Andervolti, Ugo Carbone, Maurizio Calandra, e anche quel Fario. Li conoscete bene».

«E voi perché non avete lasciato la loggia?»

«Ero e sono deluso anch’io, ma non per questo sono diventato un traditore e un ladro. Finché la loggia è rimasta attiva, mi sono recato alle riunioni. Poi è finito tutto. Almeno per me. Almeno lo credevo, fino a ieri sera».

«A ieri sera?», chiese Conon.

«A oggi», si corresse Belmondo. «Sono confuso, potete capire».

«Mm», fece Conon, sempre sensibile alle contraddizioni degli interrogati. Riattaccò con le domande: «Avete mai incontrato i Superiori Sconosciuti?»

«No. Solo a Darch era permesso. Poi lui riferiva ai gradi più elevati, quelli che arrivavano fino alla quinta dinastia faraonica».

«Cioè fino al re Unas?», domandò Caffarel, che ricordava quanto gli aveva raccontato Conon.

«Siete un intenditore anche voi?», sobbalzò Belmondo, attonito. «Ma come…?»

«Di quante persone stiamo parlando?», incalzò Conon. «Nomi?»

«Non so rispondervi».

«Avete mai sentito parlare dei Seguaci di Horus o dei Neteru?».

Alla bocca di Belmondo sfuggì una risatina stridula, da folle. «Voi… Chi siete voi? Come fate a conoscere queste cose?». Scosse la testa, continuando a ridere in silenzio. «I Seguaci di Horus… Sono proprio loro i Superiori Sconosciuti». Alzò uno sguardo fisso e vitreo, e disse: «Noi, però, li chiamavamo Akeru».

Caffarel e Conon incrociarono gli sguardi: conoscevano quella parola per averla letta nel testo che parlava di Unas, il re cannibale.

«“Tremano le ossa degli Akeru”», citò Conon, sorprendendo ancora una volta il dottor Belmondo. «E cosa c’entra tutto questo con una loggia massonica clandestina di Torino?»

«Torino», disse Belmondo, «fu fondata da un principe egizio. Voi lo sapevate?»

«Sì, ma rinfrescateci la memoria».

«Vi posso dire la storia così come la conosco: era un principe della diciottesima dinastia faraonica. Si chiamava Pa Rahotep, e giunse qui intorno all’anno 1523 avanti Cristo, con un gruppo di seguaci. Era partito dall’Egitto durante il regno di Amenofi I in seguito a dissidi con la casta sacerdotale. I sacerdoti seguivano il culto di Amon e non vedevano di buon occhio il culto solare di Aton, al quale Pa Rahotep era devoto. Per questo motivo il principe lasciò l’Egitto e partì per un viaggio in cerca di nuovi territori in cui insediarsi. Passando dalla Grecia, risalendo la costa tirrenica italiana, giunse nella valle del Po, dove insieme ai seguaci fondò la sua città. Il Po divenne il loro nuovo Nilo. Torino prese il nome dal culto del toro sacro di Menfi, Api, adorato da quel momento anche qui, nella colonia del principe Pa Rahotep. Il principe diffuse il culto del dio toro Api, e fece erigere un grande tempio in suo onore, dove adesso si trova il Borgo Po, sulla riva destra del fiume, in corrispondenza del ponte di pietra. Da questo culto nacque Taurasia, la città dei Taurini: Torino».

Caffarel guardò Conon. «Borgo Po?».

Lui annuì. Era il posto in cui avevano rinvenuto il corpo del signor Ugo Carbone.

Entrambi si domandarono se fosse solo una coincidenza, ma evitarono di parlarne davanti a Belmondo; e comunque non avrebbero saputo cosa pensare.

«Io», disse Conon, «sapevo che a fondare Torino era stato Eridano, il fratello di Osiride».

«Sì», disse Belmondo, «questa è la versione leggendaria: Eridano era sbarcato in Liguria, aveva risalito il corso del Po e si era fermato nella verdeggiante pianura; qui aveva fondato una città e diffuso il culto di Api. Dopo la morte di Eridano, il suo nome fu dato al fiume, nel quale lui era annegato durante una gara di quadrighe».

Caffarel cominciò ad andare su e giù per la cella, ripensando a quel che aveva letto negli appunti di Vogel. Poi prese Conon in disparte e a bassa voce gli disse: «Questo principe Pa Rahotep era partito dall’Egitto durante il regno di Amenofi I ed era devoto al culto solare di Aton. Nelle carte di Vogel abbiamo letto che Mosè era un dignitario di Amenofi IV, vale a dire Akhenaton, il primo monoteista della storia, che aveva imposto a tutto l’Egitto il culto di Aton come unico dio».

«Ricordi bene», disse Conon. «Akhenaton rinnegò il politeismo in Egitto e impose il monoteismo».

«Comunque c’è una certa coerenza, non trovi? Ci sono due faraoni chiamati Amenofi, entrambi devoti ad Aton. È solo una coincidenza? O forse le leggende che narrano di Torino fondata dagli egizi hanno qualcosa di vero?»

«Se Roma fu davvero fondata da Enea come si crede», disse Conon alzando le spalle, «Torino potrebbe essere stata fondata da un faraone monoteista».

«O da un dio», sussurrò Caffarel. «O da uno dei Seguaci di Horus».

Conon sorrise. Stava per invitarlo a non dire stupidaggini, ma fu interrotto da un trapestio, fuori dalla cella. Arrivava Nicolas.

«Professore, è vero: in contrada del Gallo c’è uno stabile occupato da soldati austriaci. Non hanno mai visto riunioni di massoni da quelle parti».

«Eccellente, Nicolas!». Caffarel tornò a rivolgersi a Belmondo: «A questo punto, dottore, dovrei domandarvi dove possiamo trovare il conte Darch. Ma immagino che non lo sappiate o che non vogliate dircelo».

«No, no, io lo so, invece, e voglio dirvelo!».

Caffarel e Conon si rizzarono come le orecchie di una lepre.

«Dove?»

«È in un posto qui vicino. Vi ci posso portare anche subito, se volete».