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Era notte fonda quando Caffarel si appostò in contrada dei Due Buoi e si mise a osservare le finestre buie al primo piano di una palazzina.
Gli era stato detto che lì si era introdotto un uomo, uno che lui stava cercando da settimane e che non sperava più di poter incontrare. Rispondeva al nome di Michele Andervolti, una testa calda che in passato a Torino aveva collaborato con i repubblicani; risultava anche che fosse un membro della Società dei Raggi – un gruppo di recente formazione che operava in segreto per unire l’Italia –, che avesse frequentato una loggia massonica di Rito Egizio e che commerciasse in antichità, proprio come le prime due vittime del decapitatore, delle quali era stato amico e socio in affari.
Andervolti mancava da Torino da più di un anno. Prima di sparire, si era arruolato come volontario nell’esercito francese, e secondo le relazioni delle spie asburgiche aveva disertato. Forse era questo il motivo per cui era rientrato a Torino: qui, con gli austriaci al potere, poteva stare tranquillo.
A Caffarel importava solo che Andervolti fosse stato amico intimo e socio in affari delle prime due vittime del decapitatore, e massone come loro.
I tre, insieme ad altri, procuravano e rivendevano oggetti antichi a ricchi collezionisti. Motivo per cui Caffarel lo aveva cercato, per parlargli.
Dalla moglie, però, aveva appreso che non faceva avere sue notizie da un anno e più. Caffarel, quindi, ne aveva segnalato il nome alla gendarmeria. Non credeva veramente che Andervolti si sarebbe fatto vivo a Torino, e tantomeno che qualche soldato fra gli addetti alla sorveglianza delle porte cittadine si sarebbe, nel caso, ricordato di comunicarlo tempestivamente a un commissario di Polizia. E invece…
Stando a quanto gli era stato riferito un’ora prima dal sottoufficiale Gustav Bauer, che era di guardia alla Porta di Palazzo, Michele Andervolti aveva fatto ritorno a Torino da poche ore. L’inappuntabile Gustav si era premurato non soltanto di informare subito Caffarel ma anche, nel frattempo, di far seguire Andervolti di nascosto, per vedere dove andava.
E stranamente l’uomo non si era precipitato a casa sua, dalla moglie, ma stava trascorrendo la notte altrove.
Le domande adesso pulsavano nella testa di Caffarel.
Perché Andervolti non era andato subito a riabbracciare la moglie e i figli?
Da chi si era recato invece?
Avrebbe potuto domandarglielo. Sarebbe bastato fare un gesto per chiamare Nicolas, che si era diligentemente installato all’angolo opposto della contrada, e ordinargli di andare a chiedere al direttore Vogel i rinforzi per fare irruzione nel palazzo. Ma in tal modo, pensava Caffarel, si sarebbe ritrovato fra le mani nient’altro che un uomo da interrogare.
No, si disse, meglio aspettare.
Finora Michele Andervolti era stato nient’altro che un nome su un fascicolo, e a Caffarel era passato più di una volta per la mente che l’assassino di massoni potesse essere proprio lui.
Avrebbe pagato oro per poterlo interrogare. E adesso eccolo lì, finalmente a portata di mano, di nuovo a Torino.
Il cuore gli rimbombava nella testa.
Caffarel prese dalla tasca la chiave realizzata dal fabbro.
«Che cosa apri?», chiese all’oggetto di ferro.
Caffarel era passato al Museo di Antichità, l’aveva provata con ogni possibile serratura, ma non ne aveva trovata neppure una che corrispondesse.
Eppure sembrava proprio una chiave, per quanto dalla forma insolita: le scanalature e i denti nella parte terminale erano inequivocabili.
Una chiave.
Un oggetto banale e così pregno di significati: il simbolo stesso delle risposte.
Ma in assenza di una porta non era altro che un freddo punto di domanda.
Caffarel tornò a scrutare l’appartamento in cui si era recato Michele Andervolti. Era evidente che l’uomo aveva intenzione di trascorrere lì la notte.
Bisognava rassegnarsi ad aspettarlo, malgrado il brutto tempo.