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Caffarel seguì Vogel in strada e poi dentro il Palazzo Carignano, fino al suo studiolo, che si trovava nel piano nobile. Era la prima volta che vi entrava.
«Qui», disse il direttore facendolo accomodare sulla poltrona di pelle, davanti alla scrivania, «possiamo parlare in santa pace». Gli tremavano visibilmente le mani e si sistemava continuamente il copri-occhio, come se il legaccio che gli faceva il giro del cranio fosse urticante. Inalò nervosamente due prese di tabacco prima di sedersi a sua volta e piantare i gomiti sullo scrittoio. «Che situazione», borbottò frizionandosi con rabbia le narici, «che situazione incredibile! In quale altro posto al mondo accadono certe cose?»
«La domanda da farsi, signor direttore, è perché accadono».
«Mi accontenterei di catturare questo mostro infame».
«Non pensavo foste un letterato», disse Caffarel ruotando la testa per ammirare le scaffalature piene di libri, che tappezzavano le pareti.
«Siete solito sottostimare le altre persone, Caffarel?»
«No, ma conoscendovi superficialmente avevo pensato che… Be’, avrei dovuto capirlo che siete un intelletto fine: il vostro italiano è impeccabile».
«Forse è perché ho un occhio solo che mi considerate poco adatto alla lettura? Ma come potete constatare…», mosse la mano per indicare i volumi, «le apparenze ingannano».
«Talvolta piacevolmente», assentì Caffarel.
«Mi piace studiare».
«D’un tratto mi state simpatico».
«Smettetela di scherzare. In un momento tragico come questo, poi».
«Dicevo solo la verità, direttore Vogel».
«Non vi ho fatto venire qui a caso. Di solito non intrattengo rapporti di confidenza con i commissari. Ma voi siete un’eccezione: siete stato un professore di Filosofia all’università; la vostra cultura e il vostro pensiero possono risultare utili. Qui c’è bisogno di ragionare, perdio! E inoltre, siccome avete insegnato in quell’edificio, forse conoscevate personalmente il guardiano del museo».
Caffarel confermò esponendo brevemente i fatti e concluse: «Non lo vedevo da parecchio, però».
«Cosa sapete sul suo conto?»
«Il signor Savinio era un uomo semplice, ma con qualche vizio; gli piaceva frequentare le bische e spesso spendeva le vincite con le sgualdrine… niente più di questo. La moglie, la signora Maria Luisa, è sempre riuscita a farlo rigare dritto».
Il direttore spostò e rispostò il copri-occhio, poi gli puntò contro mezzo sguardo di fuoco. «Voglio essere informato su tutto quello che scoprite. Non mi dovete nascondere niente. Da me potete aspettarvi lealtà, Caffarel, non sono il genere di persona che si prende il merito del lavoro altrui. So che state lavorando giorno e notte a questi crimini, con zelo, e sarete premiato per i vostri sforzi».
«Vi ringrazio, direttore, siete molto gentile. Però non mi era mai passato per la mente di nascondervi qualche scoperta». Caffarel lo disse tastando nella tasca la scatoletta trovata addosso al signor Savinio. «Io sono un leale servitore della Polizia asburgica».
«Finora vi siete sempre comportato bene. Avete scoperto e arrestato diversi criminali. Non ho niente da ridire. Tuttavia non mi avete mai fatto un rapporto sul caso del Cannibale».
«È perché brancolo nel buio più fitto, direttore. Non ho niente in mano al momento».
«Io mi sono dato da fare. Non brancolo nel buio, ma nelle tenebre».
«Cosa intendete, direttore?»
«Niente, lasciamo stare». Batté un colpo con le mani e se le strofinò come una mosca. «Allora, facciamo il punto della situazione. Abbiamo una terza vittima, uccisa allo stesso modo delle prime due. Ve lo ha confermato anche l’anatomista a cui avete fatto esaminare i corpi; dico bene?»
«Sì, signore».
«Perché non siete venuto a comunicarmelo?».
Caffarel alzò le spalle. «Ragiono ancora come un semplice satellite, come quando avevo il compito di aggirarmi in abiti civili fra i malviventi e intervenire se necessario. Devo ricordarmi di essere un commissario, signore. Il lavoro che sto facendo sul Cannibale… mi sta assorbendo completamente».
«Sì, ho notato che non vi state risparmiando. Cosa vi spinge?»
«Questione di orgoglio», rispose Caffarel. Poi, però, sospirò facendo crollare la testa in avanti. «No, direttore, la verità è che non riesco a stare a casa per più di pochi minuti. Ci sono troppi bei ricordi lì dentro».
«Be’, io non voglio addentrarmi nel labirinto della vostra mente, Caffarel. Potete continuare a investigare. Anzi, ve ne sono grato. Ma d’ora in avanti dovrete farmi rapporto in modo puntuale. Se scopro che mi state nascondendo delle informazioni, vi faccio impiccare. Siamo intesi?»
«Intesi, signor direttore».
«Bene. Ieri si è presentato alla Polizia un certo signor Giovan Battista Fario. Lo stavamo cercando perché risultava amico e socio in affari di una delle vittime; la seconda, per la precisione».
«Maurizio Calandra», disse Caffarel.
«Corretto. Pace all’anima sua. Se volete fare qualche domanda al signor Fario, lo trovate a questo indirizzo all’ora di cena». Fece scivolare un pezzo di carta sul piano della scrivania. «Lui non è sospettabile dei primi due omicidi, perché non era a Torino. E dubito fortemente che abbia ucciso il guardiano del museo. Parlateci lo stesso, Caffarel, chissà che voi, con i vostri modi mansueti, non riusciate a cavargli qualche informazione utile».
«Voi, direttore, lo avete incontrato?»
«Non c’ero quando si è presentato».
«E con chi ha parlato, allora?»
«Con nessuno. Ma ha lasciato scritto su questo biglietto dove trovarlo. Occupatevene e, mi raccomando, voglio essere informato».