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Il proprietario dell’albergo, il signor Ludovico Augusto, andò loro incontro a braccia aperte, ma non per dare un’accoglienza calorosa: il suo volto, fermo e grigio come una pietra, era la maschera della paura. «Dunque è vero, hanno ucciso il direttore Vogel?»
«Sì, purtroppo».
«Che tremenda sciagura!». Augusto si rivolse a Conon e accennò un inchino. «Buongiorno, colonnello».
«Buongiorno», rispose lui andando dritto verso la scala e guardando in alto. «Il professor Ridolfi c’è?»
«Arrivate giusto in tempo. Sta facendo i bagagli. Quando ho visto arrivare la vostra carrozza ho creduto che fossero venuti a prenderlo». Augusto andò a chiudere a chiave l’ingresso, poi tornò indietro e cominciò a salire la scala. «Non ci sono ospiti attualmente», disse. «Gli austriaci sanno chi siamo, la gente evita di farsi vedere qui, per non essere sospettata di nutrire simpatie nei nostri confronti. Siamo considerati nemici sia dagli imperiali austriaci sia dal governo francese, perché vogliamo unire l’Italia».
«E per quale motivo Ridolfi va via?», gli chiese Caffarel. «Chi deve venire a prenderlo?».
Augusto rispose quando fu arrivato all’ultimo piano. «Pensa che sia giunto il momento di lasciare la città», disse ansimando. «Non so chi verrà a prenderlo». Si accostò alla porta dell’appartamento di Ridolfi e, dopo essersi sistemato la giacca, bussò. «Professore?».
Non rispose nessuno.
Augusto bussò di nuovo. Chiamò.
Niente.
Scrutando negli occhi torvi di Caffarel e Conon, capì che stavano per buttare giù la porta a calci, quindi si tolse le chiavi di tasca, le sgranò selezionando il gruppo dell’ultimo piano e ne infilò una nella toppa. Aprì.
L’appartamento era vuoto e silenzioso, e Conon notò che anche il telescopio era stato portato via.
«Il professore se n’è già andato?», chiese Caffarel.
«Professore!», chiamò Augusto. «Non può essere andato via, lo avrei visto uscire».
Infatti, lo trovarono nella stanza da letto.
Ridolfi era appollaiato sul davanzale della finestra spalancata, vestito di tutto punto, con le scarpe ai piedi, e torceva il collo per guardare indietro, pronto a saltare giù. «Andate via!», urlò, aggrottando le spesse sopracciglia bianche e stirando la bocca in una smorfia sardonica. «Via!».
Sul letto disfatto c’erano tre valigie, piene e ancora aperte; a terra, un grosso baule chiuso.
«Non farlo!», gli intimò Caffarel mostrandogli i palmi delle mani. «Luciano…». Si avvicinò lentamente. «Luciano, sono io: Eugenio Caffarel. Cosa ti prende? Non è da te fare certe sciocchezze. Scendi subito da quella finestra».
«Sei Eugenio?». L’anziano professore si schermò gli occhi per scrutare le ombre nella stanza. «Caffarel?»
«Sì, sono io, scendi, per favore, ho bisogno di parlarti».
«Oh», sospirò Ridolfi scrollando la testa, «mi dispiace». Accettò la mano offertagli da Caffarel e si lasciò aiutare a scendere dal davanzale. «Credevo che…».
«Cosa credevi? Di chi hai paura?». Caffarel lo cinse con un braccio e lo fece sedere sul letto; nel mentre il signor Augusto andò a guardare fuori dalla finestra e tirò un sospiro di sollievo.
Conon si mise da una parte e non fiatò, sperando di passare inosservato, ma Ridolfi domandò a Caffarel, sottovoce, che cosa ci facesse lì il colonnello.
Caffarel lo tranquillizzò: «Mi sta aiutando, non ci sono problemi».
«Va bene». Ridolfi alzò uno sguardo imbarazzato su Augusto, poi si rivolse a Conon e lo riverì con un mesto cenno del capo: «Buongiorno, colonnello».
Conon si limitò a un saluto silenzioso. Da qualche minuto si stava domandando come mai un uomo influente, a capo della Società dei Raggi, non avesse una scorta armata, se riteneva di essere in pericolo.
«Allora», disse Augusto, «col vostro permesso, tolgo il disturbo e vi lascio parlare comodamente», e, più che andarsene, scappò via.
Caffarel fece sentire il calore della propria mano sulla spalla del professor Ridolfi. «Ce la fai a parlare?»
«Sì, ma non qui. Io adesso me ne devo andare».
«Di cosa hai paura?»
«Non di morire», disse Conon, «visto che era pronto a gettarsi di sotto».
Il professor Ridolfi tremava ancora. «Io mi sarei buttato», ammise, con gli occhi sgranati in uno sguardo folle. «Stavo per farlo».
«Perché?»
«Non sono al sicuro qui».
«Neanche sul davanzale di una finestra lo siete», osservò Conon.
«Il colonnello de Solis ha ragione», disse Caffarel. «Che diavolo ti è preso poco fa?»
«Io… Lasciamo stare. Ditemi piuttosto perché siete venuti da me».
«Devo farti delle domande. Si tratta di una questione di vitale importanza. Forse tu ci puoi aiutare».
«No, non adesso».
«Per favore».
«No».
Caffarel staccò la mano dalla sua schiena e si alzò. Aveva sempre stimato il professor Ridolfi, ma date le circostanze non era disposto a tollerare un atteggiamento poco collaborativo. Andò dritto al sodo: «Conoscevi Georg Vogel, il direttore della Polizia di Torino?»
«È per questo che siete venuti?»
«Abbiamo trovato degli appunti a casa di Vogel», disse Caffarel. «Sospetto che tu c’entri qualcosa».
«Capisco». Ridolfi annuì tenendo basso lo sguardo. Trasse dei respiri profondi e lentamente si calmò. «Li avete letti?»
«Con molta attenzione. È perché stavi indagando con Vogel sui Superiori Sconosciuti che ti senti in pericolo?»
«Forse ho capito troppe cose», annuì Ridolfi. «Non voglio fare la fine degli altri». Si toccò il collo e poi l’addome con una smorfia di disgusto. «Preferisco lanciarmi nel vuoto, piuttosto che essere decapitato e sbudellato».
«Devi dirci tutto quello che sai al riguardo, Luciano».
«No, non posso… Io devo andarmene!».
«Scusate se mi intrometto», disse Conon. «Vorrei che fosse chiara una cosa al professore: o collabora senza riserve oppure gli farò rimpiangere di non essere stato ucciso dal Cannibale».
«Siamo tutti un po’ tesi», disse Caffarel, incrociando le braccia, ma sotto sotto ringraziava il cielo che ci fosse Conon, con i suoi modi spietati: si sentiva stanco, aveva bisogno di oppio, la sua mente franava. «Parla, Luciano».
«Ma non è il momento adatto, stanno per venire a prendermi».
«Chi stai aspettando?»
«Alla Società dei Raggi ora manca la protezione del direttore della Polizia di Torino, dobbiamo andarcene».
«Parlaci di questi appunti». Caffarel gettò sul letto la cartella trovata a casa di Vogel. «Tutto quello che sai, con ordine».
Ridolfi era più rigido di una statua, le labbra premute talmente forte che gli erano diventate bianche, come se volesse evitare che gli sfuggisse qualche parola.
Allora Caffarel, attingendo ai rimasugli di pazienza sul fondo della sua anima, gli rivelò di essere il nuovo direttore della Polizia e gli offrì, se avesse collaborato, la stessa protezione che gli assicurava Vogel.
Dopo un lungo silenzio di riflessione, Ridolfi si decise a parlare.
«Tutto», lo ammonì Conon, «in modo chiaro».