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Sul pavimento di marmo si era creato un piccolo lago scuro e brillante di sangue; al centro c’era un uomo, la testa recisa e collocata fra le gambe all’altezza delle caviglie; una pistola stretta nella mano destra; una lanterna nella sinistra; il ventre squarciato.
Eugenio Caffarel osservò la scena a bocca aperta e con le mani sui capelli. Era successo ancora, pensò. E stavolta non per strada, non in una villa privata, ma in un luogo sorvegliato: l’assassino aveva ucciso il guardiano, benché fosse armato. «Il direttore Vogel è stato informato?».
Nicolas, che mezz’ora prima aveva tirato Caffarel giù dal letto chiedendogli di seguirlo fino al palazzo dell’università, era sul punto di vomitare. «Sì», rispose boccheggiando e tamponandosi col braccio la fronte gelata, «starà per arrivare».
«Questa è proprio una brutta rogna», commentò a mezza voce Caffarel guardando il cadavere scempiato. «Questo mi addolora». Conosceva bene quell’uomo: lo aveva incontrato per anni, quasi tutti i giorni, ai tempi in cui l’università era aperta e in funzione; il suo nome era Emanuele Savinio, ma da tutti, studenti e professori, era conosciuto come Gulliver, per via della statura imponente. «Nicolas, sai dirmi chi lo ha trovato?»
«La moglie».
«Era venuta a cercarlo?»
«A portare da mangiare».
«Povera donna, lo faceva sempre». Caffarel si avvicinò lentamente, sconcertato da quel che stava vedendo. «Che Dio, se esiste, abbia pietà di te, povero Emanuele».
«Amen», disse Nicolas.
«Sai cosa diceva Epicuro a proposito della morte, ragazzo mio?».
Il piantone, sguardo vacuo, sempre più grigio in volto, fece di no con la testa.
«Epicuro era un filosofo dell’antica Grecia», disse l’ex professor Caffarel. «Lo sapevi?»
«Grecia», ripeté quello.
«Sì, la grande Grecia antica. Qui siamo nel Museo di Antichità, del resto; la mia citazione è alquanto appropriata».
«Sì».
Caffarel si accosciò accanto al cadavere e ammirò rabbrividendo il taglio netto con cui la testa del povero signor Savinio era stata spiccata dal busto. «Un gran bel lavoro», disse. Anche in questo caso era stata usata una lama estremamente affilata, e con grande maestria. E come nel caso del signor Calandra, l’assassino aveva lasciato un ankh di legno sul petto. Caffarel lo tolse, lo guardò e poi lo gettò via. «Sai cos’è un filosofo, ragazzo?»
«Sì».
«Molto bene!».
«Epikur».
«Sì, Epikur! Epicuro. Bravo ragazzo mio! Voi austriaci siete pieni di sorprese».
«Grazie», ansimò il giovane straniero, con le mani premute sullo stomaco.
Caffarel, invece, si era aiutato con una piccola pallina d’oppio. Poteva dire di averne viste e sentite di tutti i colori, negli ultimi anni, ma mai aveva neppure immaginato crimini tanto efferati e anomali.
Guardò il soffitto della sala riflesso nella pozza di sangue in cui giaceva il corpo; poi osservò la cassa di legno col coperchio schiodato e dalla quale sembrava non mancare nulla. Tornò a rimirare il taglio netto del collo. «Vedi qui?», disse.
Ma il soldato distolse lo sguardo.
«Mio caro Nicolas, nonostante il guardiano fosse un uomo molto alto, il taglio non è obliquo, ma dritto. Vedi? Significa che chi lo ha decapitato con un fendente netto era alto almeno quanto lui, o magari ha fatto un balzo».
«Mm». Un fiotto di poltiglia si riversò sul pavimento.
«Come se lo schifo qui non fosse già sufficiente. Potresti uscire, per favore?».
Nicolas fece di no con la testa, determinato a resistere. «Ich entschuldige».
«Vuol dire “scusa”?»
«Sissignore».
Caffarel andò di nuovo a guardare la cassa che era stata aperta dal ladro – se di ladro si trattava – ma non vi rovistò dentro; gli bastava constatare che era piena di oggetti avvolti negli stracci. «Ammettiamo che il povero guardiano abbia sorpreso un ladro. Vedi? Ha ancora la pistola in pugno». Seguendo alcune ipotetiche linee balistiche riuscì dopo un po’ a individuare il foro del proiettile nel muro. «Il guardiano ha sparato, ma malauguratamente non ha colpito il bersaglio».
«Vero».
«Sai se hanno trovato delle finestre aperte?»
«Nessuna».
«Erano tutte chiuse dall’interno?»
«Sì, signore».
«Allora l’assassino deve essere scappato dal portone di ingresso».
«Credo».
Caffarel aveva visto tanti morti quanti libri di filosofia, ma davvero non aveva mai sentito parlare di una mostruosità come quella. Tornò vicino al cadavere di Savinio e si abbassò per esaminarlo meglio. Controllò se avesse qualcosa nelle tasche, non trovò granché, soltanto un fazzoletto di cotone sporco e un mazzo di chiavi. Dovevano essere quelle del museo e, quasi certamente, di casa sua. Caffarel le prese in consegna. Poi, tastando i vestiti, sentì qualcosa: pareva una tabacchiera, solo che era nascosta nella cucitura della giacca.
«Allora, ragazzo, lo sai o no cosa diceva Epicuro?»
«No».
Caffarel strappò la fodera e prese la scatoletta. La osservò, era d’argento decorato. «Epicuro diceva che non bisogna aver paura della morte, perché quando c’è lei non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è lei. Ma in questo caso…». Invitò il soldato a osservare il corpo da vicino, la perfetta sezione anatomica del collo. «In questo caso, ragazzo mio, ho paura che il povero guardiano abbia visto sé stesso già morto. Accade anche con la ghigliottina, sai, almeno così dicono. I francesi la chiamano “il rasoio della nazione”. L’intenzione dell’inventore era quella di creare una macchina razionale ed efficiente, capace di dare al condannato una morte rapidissima, con un colpo solo, per evitargli sofferenze inutili. Ma poi si è capito che la ghigliottina causava questo paradosso mostruoso. Riesci a immaginare? La testa che vola via, per qualche istante ancora viva».
Il giovane in divisa non fece commenti. Era troppo impegnato a trattenere il nuovo rigurgito in arrivo.
«Eh, sì». Caffarel raccolse la testa prendendola dai capelli e la rimise nella sua collocazione naturale. «Mi devi credere, ragazzo. È una brutta faccenda».
«Eh…».
«Perché l’assassino si porta via parte delle interiora delle sue vittime, ecco perché».
Nicolas provò a trattenersi ancora, ma poi si piegò in avanti ruggendo e dalla bocca sparò fuori un ventaglio di materia gialla.
Eugenio Caffarel lo guardò con commiserazione. «Insomma, con te non si può proprio parlare». Mentre il giovane piantone rivedeva tutta la colazione, lui aprì la tabacchiera trovata nella fodera della giacca.
Ovviamente, non conteneva tabacco.
Vi era dentro qualcosa di molto più interessante: uno spesso strato di cera, con al centro un calco dalla forma non nuova per Caffarel: la croce egizia che aveva trovato sul corpo di Calandra. Il braccio più lungo aveva la misura di un dito medio, ed era piatto alla base ma a sezione rotonda in alto.
Era il calco di una chiave.