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I portici di contrada Nuova erano affollati di questuanti provenienti dalle campagne, venuti a cercare qualcosa da mettere nello stomaco.
La miseria era ovunque, frutto di una guerra che si protraeva da anni e non accennava a finire. Tutt’altro: ora che Napoleone stava tornando in Francia si poteva immaginare che le ostilità si sarebbero riaccese, portando altra morte e altra indigenza, specialmente fra i più deboli.
Conon passò oltre e si diresse verso l’ospedale magnetico.
Non era la prima volta che ne vedeva uno. A Parigi, al tempo dell’accademia militare, aveva perfino visitato quello fondato da Franz Anton Mesmer in persona. Perciò, quando il dottor Alessandro Belmondo lo accolse e gli parlò del magnetismo animale e di tutto il resto, non gli riuscì difficile fingersi informato sull’argomento. «Sono interessato a sottopormi a un ciclo di trattamento», gli disse.
Il dottore annuì in modo solenne, come se fosse affare già fatto, fra intenditori. «Sarà un piacere vedervi stare meglio, signore!», e gli porse la mano. «Benvenuto».
Conon gliela strinse trovandola corposa e ruvida. «Molto lieto, dottore». Lui naturalmente si era recato lì soltanto per reperire informazioni. E il suo interesse era, al momento, accentuato dal fatto che Mesmer, il fondatore del mesmerismo, fosse un membro degli Illuminati di Baviera.
Il mesmerista Belmondo lo invitò a fare un giro all’interno dell’ospedale. «I pazienti sono abituati ai visitatori, non faranno caso a noi», disse. «Voglio che vediate tutto prima di iniziare le cure».
«Certo», disse Conon.
Il dottore era di carnagione scura, robusto, peloso, camminava con le braccia staccate dai fianchi, aveva dita grosse come quelle dei pastori sardi e respirava in modo rumoroso, ma era gioviale e sorridente. «Qui siamo in grado di somministrare tutte le cure insegnateci dal maestro Mesmer. Io sono stato suo allievo e i miei assistenti hanno fatto pratica a Parigi, proprio nell’ospedale in cui siete stato voi, signor…». Belmondo lo guardò strizzando gli occhi; fingeva per galanteria di aver dimenticato il nome, che non gli era stato detto.
Conon pensò che non fosse il caso di usare quello del disertore, perché era possibile che il dottore lo conoscesse. Perciò inventò un nome di sana pianta: «Antonio Ludovico de’ Paoli».
«Signor Paoli?»
«Sì, basta signor Paoli».
«Molto bene». Il dottore si sfregò sonoramente le mani e riprese a camminare. Lo condusse in una stanza carica di tendaggi, nel cui centro c’era una vasca cilindrica con asticelle mobili e corde da cui, spiegò, si irradiava il fluido.
Era il famoso apparato di Mesmer.
Conon vide alcuni pazienti che stavano formando una catena, il cosiddetto “circuito mesmerico”. Altri pazienti si erano radunati attorno ai poli che circondavano i corpi. Un mesmerista stava provocando le crisi benefiche stimolando i pazienti con il fluido per ristabilire l’armonia.
«Quella lì», Belmondo indicò una camera imbottita di materassi, «è la stanza delle crisi».
Conon annuì. Lì venivano condotti e rinchiusi i pazienti in preda a crisi compulsive. Ma in quel momento era vuota.
In un’altra sala c’erano decine di bottiglie contenenti acqua mesmerizzata, disposte come i raggi di una ruota. Erano preparate con filamenti di acciaio e, disse il dottor Belmondo, trasmettevano il fluido tramite barre di acciaio mobili che il paziente applicava sulla parte malata. «La catena mesmerica formata dai pazienti è il circuito in cui scorre il fluido», spiegò.
«Lo so», disse Conon, guardandosi attorno. Contò sei pazienti, tutti uomini, di varie età, coperti soltanto da un piccolo asciugamano legato in vita. Era impossibile capire a quale ceto appartenessero.
«Facciamo a giorni alterni», disse il dottore.
«Prego?»
«Un giorno i maschi e un giorno le femmine».
«Ah, capisco».
«Venite». Lo sospinse dentro un salotto traboccante di oggetti esotici, cristalli colorati e drappi di velluto, e lo fece sedere su una poltroncina. C’era un’ampia finestra che permetteva di tenere i candelabri spenti durante il giorno. Il dottore versò da bere e si accomodò di fronte a lui. «Gradite?», disse porgendogli il bicchiere. «È un liquore mesmerizzato».
«Grazie». Conon lo prese e lo annusò.
«Allora, signor Paoli, quando vorreste iniziare?»
«Subito».
«Bene. Di cosa soffrite?»
«Perdo facilmente la memoria».
«Accidenti».
«Già». Trangugiò il liquore e approvò: sapeva di canfora. «Buono».
«Se ne dovrebbe bere non più di un cucchiaino da tè», sorrise il mesmerista, «ma se ne gradite ancora un bicchierino…».
«No, basta così, grazie».
«Dunque, signor Paoli, vi capita di non ricordare».
«Spesso, purtroppo».
«E quali sono le cose che dimenticate più di frequente?»
«I fatti. Gli accadimenti».
«Sant’Iddio! Dev’essere difficile la vostra vita».
«Lo è anche troppo».
«Sì, lo immagino». Il dottore accavallò le gambe massicce e sorseggiò il liquore, meditabondo. Nel frattempo le sale si popolavano: arrivarono altri pazienti, seguiti ognuno da uno o due assistenti in grembiule nero con un sole dorato sul davanti. «Sapevate già dell’esistenza di questo ospedale o vi ha mandato qualcuno?»
«Mi ha mandato un amico. Non ricordo se abbia ricevuto dei trattamenti o per quale motivo vi conoscesse».
«Posso chiedervi se ricordate come si chiama il vostro amico?»
«Michele Andervolti».
Il nome sembrò avere il potere di rendere rovente la poltrona su cui sedeva il dottore. «Andervolti?». Lanciò un’occhiata fuori dalla porta. «Vogliate scusarmi, prego». Alzò il dito indice per dire che doveva assentarsi un attimo.
Nella sala accanto, infatti, un paziente aveva cominciato a urlare, a piangere, e poi a battere forte un pugno contro il pavimento. Belmondo corse a prendere un cuscino e andò a sistemarlo nel punto in cui il forsennato stava picchiando con la mano, per evitare che se la rompesse. Gli accarezzò la testa e gli sussurrò qualcosa. Dopodiché scambiò due parole col suo assistente e tornò da Conon. «Perdonatemi, i miei collaboratori sanno il fatto loro, ma è più forte di me: prendo il mio lavoro troppo a cuore».
«Bene», disse Conon, però aveva capito che il dottore si era allontanato per nascondere l’imbarazzo e pensare a cosa rispondere riguardo ad Andervolti.
«Stavamo dicendo? Oh, sì, il vostro amico. Be’, è da tanto che non lo vedo. Sta bene? Spero che abbia tratto benefici dalla mia cura».
«Parlatemi di lui».
«Di Michele Andervolti?». Di nuovo il mesmerista cominciò a muovere il fondoschiena come se la poltrona scottasse. «Non avete detto di essere suo amico?»
«In realtà sono il suo avvocato».
«Come? E la vostra memoria?»
«Ha alti e bassi. Come la vostra, immagino».
«Mi fate una richiesta alquanto strana, signor Paoli». Un altro paziente cominciò a urlare e a dimenarsi in preda alla crisi. E subito se ne aggiunse un terzo. Sembrava che lo stato d’animo del dottore si stesse proiettando all’esterno. Stavolta Belmondo restò seduto e lasciò che se ne occupassero gli assistenti. «Andervolti… Lo ricordo a malapena. Si è cacciato nei guai con la legge?»
«È così».
«Be’, io non voglio grane».
«Non le avrete, ve lo garantisco. Ma dovete collaborare».
«È una minaccia?»
«Dipende: se vi suona come tale, lo è».
«Io non so neppure chi siete. Ho sbagliato ad accogliervi. Ora vi prego di andarvene».
Conon restò immobile. «Cerco informazioni su una loggia, il cui Gran Maestro si chiama Darch; è un conte. Voi ne fate parte? Cosa mi sapete dire al riguardo?»
«Assolutamente niente». Il medico pescò un orologio dalla tasca e lo guardò. «Si è fatto tardi», disse, si alzò e andò impettito verso la porta. «Se non vi dispiace…». La spalancò di scatto e rimase fermo con la mano sulla maniglia. «Ho molto da fare».
Conon lo raggiunse, ma anziché imboccare la porta gli si parò davanti. «In questo posto si grida parecchio», gli disse. E in effetti, in quel momento il frastuono ricordava una bolgia di dannati. «Se voleste urlare per chiedere aiuto, non vi udirebbe nessuno».
Belmondo si schiacciò contro il muro, occhi sgranati. «Cosa volete dire?».
Una poderosa ginocchiata ai testicoli fu più che sufficiente a chiarire il concetto. Il mesmerista fu costretto a piegarsi in avanti e cadde sulle ginocchia gemendo e boccheggiando. Emise anche un urlo strozzato, ma nessuno lo udì. E nel caso ci fosse ancora qualcosa da spiegare, Conon gli disse che poteva scegliere tra collaborare e collaborare. Gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi e dopo un po’ il dottor Belmondo accettò di afferrarla.
«Va bene», annuì massaggiandosi il ventre. «Ho capito».
«Iniziate», gli disse Conon.
«Andervolti era soltanto un mio paziente. Un giacobino. Ma io non c’entro nulla con le sue idee rivoluzionarie. Sono sempre stato fedele ai Savoia, e adesso lo sono agli amici austriaci. Come vi ho detto, non voglio grane».
«Perché quando vi ho fatto il suo nome vi siete agitato?»
«Andervolti veniva qui con…». Il dottore sbuffò e tergiversò, contrariato dalla situazione. «Veniva con quei poveracci che sono stati decapitati».
«Spiegatevi, per favore».
«Avrete sentito parlare del Cannibale. L’assassino che ha decapitato alcune persone e poi ne ha asportato delle parti… Be’, due delle vittime, Ugo Carbone e Maurizio Calandra, sono state miei pazienti, insieme ad Andervolti. Loro tre si conoscevano bene. Ecco perché sentire quel nome mi ha messo a disagio, che ci crediate o no». Tornò mestamente alla poltroncina e vi si lasciò cadere sopra. «Cos’altro volete domandarmi, signor Paoli?».
Conon aveva lo sguardo assente. Stava ripensando ai nomi delle vittime del Cannibale: li aveva già sentiti, erano negli appunti di Andervolti. «Questi due che sono stati uccisi erano le uniche persone che Andervolti frequentasse, qui nel vostro ospedale?»
«No, certo che no, quello lì era un chiacchierone!».
«Chi altri frequentava?»
«So che si era unito alla Società dei Raggi».
«Cosa sarebbe?»
«Sono una sorta di giacobini esagerati; avversi a tutti, ma comunque più amici dei rivoluzionari francesi che dei reazionari austriaci: lottano in segreto per unire l’Italia, combattono e complottano contro chiunque non favorisca il loro piano. Molti Raggi sono massoni».
«Avete un indirizzo da darmi?».
Il mesmerista eruppe in una risatina nervosa. «Se ve lo dicessi, potrei andare incontro a dei problemi».
«È esattamente il contrario, dottore».