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Nascosto nell’ombra, dietro un angolo sbreccato da proiettili di moschetto, Caffarel stava provando sensazioni già sperimentate in passato.
La situazione gli ricordava quando era solito appostarsi per tendere agguati alle pattuglie francesi, durante l’occupazione. La differenza consisteva nel fatto che, adesso, lui era dalla parte della legge e non doveva più temere la ghigliottina. E questo bastava a farlo sentire tranquillo.
Continuò ad aspettare.
Aveva fatto una scommessa con sé stesso: l’uomo che stava seguendo non era entrato nell’albergo Rosa Bianca per affittare una camera, ma per incontrare qualcuno. Caffarel ardeva dal desiderio di scoprire se aveva indovinato; in tal caso l’uomo sarebbe dovuto uscire a breve.
Quell’albergo non era un posto qualunque, bensì la sede segreta della Società dei Raggi, con a capo il vecchio professor Ridolfi. Due vittime del Cannibale e lo stesso Andervolti avevano frequentato assiduamente quel luogo.
E non era un posto qualsiasi neppure l’ospedale magnetico in cui il sedicente Andervolti si era recato quel giorno stesso: anche quello era un luogo frequentato dalle prime due vittime del Cannibale e dall’Andervolti.
Non era un posto qualunque nemmeno la casa di quella prostituta a cui aveva fatto visita, perché la donna era la moglie di Michele Andervolti.
Dunque, lo sconosciuto apparso all’improvviso, che fosse o meno il vero Andervolti, si era inserito nelle indagini di Caffarel suscitando la legittima curiosità del più curioso dei commissari torinesi.
Caffarel non sarebbe più riuscito a dormire finché non avesse scoperto come si chiamava e per quale motivo stava andando a trovare uno per uno tutti coloro che avevano un legame con gli omicidi. Mancava solo che si recasse a casa della vedova del guardiano notturno del Museo. E, chissà, magari lo avrebbe fatto.
E l’uomo apparve, come evocato dai pensieri. Uscì dall’albergo e si incamminò lungo la strada, in direzione opposta alla Porta di Palazzo.
«Chi sei, Signor Mistero?», sussurrò Caffarel nell’aria oscura. «Sei davvero chi dici di essere?».
Era un individuo abituato a camminare con la schiena dritta, di sicuro uno che si allenava, a giudicare dalla forma fisica perfetta, le spalle larghe, le braccia che premevano contro le maniche. L’uomo aveva il portamento di un gran signore, di uno altamente istruito, ma il corpo di un lavoratore, e si muoveva con una circospezione sospetta.
Non poteva essere Andervolti, quanto era vero che lui si chiamava Eugenio Caffarel.
Gli andò dietro, tenendo una distanza di cinquanta metri, all’incirca, un buon compromesso fra il rischio di perderlo di vista e quello di farsi scoprire.
Caffarel giocò a indovinare quale fosse il posto di quell’uomo nella società. E la sua mente si concentrò subito sulla parola militare. Aveva una discreta esperienza in materia, maturata a furia di rapinare ufficiali francesi: camminavano tutti allo stesso modo, con spavalderia, sempre come se stessero andando incontro al migliore dei destini possibili.
La signora Andervolti aveva affermato che quell’individuo era suo marito, tornato a casa dall’Egitto dopo tanto tempo, e che non intendevano vivere più insieme per diverse ragioni. Però un cliente della donna, un soldato austriaco di nome Alexander, che si trovava in casa con lei quando era arrivato l’uomo misterioso, aveva dichiarato di avergli domandato il nome e di aver ricevuto Giuseppe come risposta.
Ciò nonostante, Caffarel sapeva con certezza che l’uomo non si chiamava Giuseppe: all’ospedale magnetico del dottor Belmondo, infatti, si era presentato come Antonio Ludovico de’ Paoli.
Di certo, pensò, osservando da lontano la sagoma che procedeva a passo spedito, non era neppure questo il suo vero nome.
«Cosa stai cercando?», bisbigliò Caffarel espirando aria calda e umida che andava ad aggiungersi ad altra aria calda e umida, in quell’estate piovosa e lugubre.
L’uomo stava davvero per recarsi dalla moglie del guardiano notturno?
Caffarel era più che intenzionato a scoprirlo.
Gli sarebbe anche piaciuto entrare nell’albergo Rosa Bianca per fare qualche altra domanda al professor Ridolfi, ma preferì restare attaccato alle costole dell’individuo misterioso.
Dove si stava recando? Dove avrebbe passato la sua seconda notte in città, e con chi?
Solo l’idea che potesse essere lui l’assassino decapitatore, soprannominato dalla gente il Cannibale, gli faceva scalpitare il cuore nella gabbia toracica.
Caffarel si disse di andarci piano con le elucubrazioni: quel tizio aveva la prestanza fisica per decapitare chiunque, era vero, forse era perfino un maestro di scherma, e aveva un losco atteggiamento da ladro, ma non sembrava una bestia assassina.
E comunque era sempre possibile che fosse implicato negli omicidi.
Continuò a seguirlo.
L’uomo non aveva una cavalcatura e non si diresse verso le carrozze a nolo. Era solo, e sembrava diretto in un luogo non troppo distante; di sicuro non stava andando dalla moglie del guardiano. Caffarel lo aveva preso al lazo con una fune invisibile e alla fine fu trascinato fino al Duomo.
L’uomo non entrò nella chiesa, ma voltò a destra e, dopo aver strappato e gettato via un pezzo di carta, si fermò davanti a una palazzina a tre piani.
Quando entrò, Caffarel andò a raccogliere quel che aveva buttato per terra. Era una carta da gioco, una donna di cuori, sulla quale era scritto l’indirizzo in cui l’uomo si era appena recato.
Neppure quello era un posto qualunque: vi abitava una donna, una certa Sofia Onfray, conosciuta da molti per la sua bellezza, da altri per essere una modista sopraffina, e sospettata dalla Polizia asburgica di essere una collaboratrice dei francesi; finora, però, non se n’erano mai trovate le prove.
Caffarel fu attraversato da un brivido. In poche ore, quell’uomo aveva toccato punti della città che lui aveva collegato a fatica in settimane di duro lavoro, e poi, come se non bastasse, si era introdotto in casa di un’affascinante spia francese.
Chi diavolo era?
Cosa stava facendo?