60

Si inoltrarono fra le cortine di lino.

L’odore di carne arrostita aumentava, così come il numero delle voci che rimbalzavano fra le mura. E cresceva anche lo stupore per la grande quantità di oggetti egizi che videro, in apparenza autenticamente antichi e preziosi, perfettamente conservati, tanto da sembrare nuovi.

Una collezione ricca, sontuosamente ricca.

Conon si fermò a guardare dentro una teca di cristallo contenente strane pietre gialle che sembravano di vetro, mentre Caffarel lasciava correre lo sguardo sulla moltitudine di lame appese alle pareti, alcune delle quali erano di uno strano metallo color fuoco e altre sembravano costruite proprio con il vetro giallo della teca.

Attraversarono quella che doveva essere una sorta di sala guardaroba, ma i vestiti erano indossati da statue di legno antropomorfe ad altezza naturale; ne notarono più d’una vestita da faraone, con una coda di toro appesa in vita.

Le effigi di Iside e Osiride, e delle altre divinità dell’enneade egizia, erano onnipresenti.

Dal magnifico andito, poi, accedettero a un secondo ambiente, una sala con colonne di dimensioni meno mastodontiche della precedente, non divisa da teli e del tutto disadorna. Era un punto di snodo: una rampa di scale portava in basso, un’altra saliva al piano superiore; oppure si poteva proseguire dritto, introducendosi in un vestibolo buio.

Si fermarono ad ascoltare.

La musica e le voci provenivano da su, e proprio in quel momento una donna cominciò a cantare una melodia che risultava nuova alle orecchie di entrambi, non solo perché non l’avevano mai sentita prima, ma perché seguiva regole armoniche sconosciute per loro.

Dal piano inferiore, invece, non saliva alcun rumore.

«Ci sono sicuramente altri uomini qui dentro, oltre a Khonsu», sussurrò Caffarel. «È meglio andar via da qui».

«Sì, va’ pure a chiamare rinforzi, professore, e torna subito con un esercito. Ma io da qui non mi muovo».

«Sei più testardo di un mulo».

Si addentrarono nel corridoio che avevano davanti, scoprendo che non era buio come sembrava: dopo pochi metri incontrarono coppie di piccoli bracieri montati sulle aste, identici a quelli dell’entrata. Spandevano un aroma insopportabile, un miscuglio nauseabondo di legna, incenso e… grasso animale. Il lezzo, seppure confuso con gli altri odori pungenti, restava inequivocabile.

A mano a mano che avanzavano, le pareti si restringevano e la volta si abbassava. Non poterono scoprire fino a che punto, perché si trovarono di fronte a una lastra di pietra.

Mentre Conon vi appoggiava contro l’orecchio, Caffarel si mise subito a cercare una fessura in cui introdurre la chiave ankh, sperando che questa funzionasse con tutti gli accessi della casa; tastò ogni centimetro di parete e del pavimento, ma non trovò niente, neppure una minima imperfezione della pietra che potesse farlo illudere.

«Ci sono delle persone oltre questa porta», disse Conon. «Sento dei rumori».

«Questo posto è pieno di gente. E non ci consegneranno mai l’assassino e neppure la mappa che stai cercando. Dobbiamo tornare con molti uomini, far circondare l’edificio, arrestare tutti, interrogarli. Ti sto parlando in qualità di direttore della Polizia, Conon. Con la tua ostinazione rischi di fare andare tutto a monte».

Conon invertì la marcia. «Se non fosse per me, professore, ora non saresti qui a porti questi problemi inutili».

Si fermarono all’inizio del vestibolo e sbirciarono dall’ombra le due gradinate, quella che saliva e quella che scendeva, poi Conon suggerì di lasciare per ultimo il piano superiore e di dare prima un’occhiata a quello inferiore. Caffarel, col cuore che gli picchiava nella gola mozzandogli il fiato, approvò. Quindi, raggiunsero in punta di piedi la scala che portava in basso e scesero, lentamente, le pistole in pugno e i muscoli tesi come corde di balestra.

Lì, l’odore di grasso bruciato diminuiva.

Non erano ancora arrivati agli ultimi gradini, quando udirono distintamente la voce di Khonsu.

«Io sarò salvato da ogni tipo di morte e da ogni malattia, da ogni accusa, da ogni male…».

«Stai sragionando, Teodoro», disse una seconda voce.

«Da ogni disordine, da ogni ansia, da ogni malocchio, da ogni discorso ostile…».

«Devi stare fermo, così non riesco a lavorare».

Conon e Caffarel incrociarono gli sguardi scambiandosi un ghigno soddisfatto.

Lo avevano trovato, dunque.

E il suo nome era Teodoro.

«Io sono Khonsu, sarò salvato da ogni malattia, da ogni febbre…».

«Sì, Teodoro, ma ora sta’ calmo. Mi ci vorrà solo qualche minuto».

Alla fine della scala, Conon e Caffarel si fermarono e sporsero le teste oltre il muro. Videro una serie di colonne, che si perdeva nell’oscurità e, più vicino a loro, uno spazio delimitato da teli di lino e illuminato da una luce intensa.

Le voci provenivano da lì.

Si vedeva chiaramente l’ombra di un uomo in piedi, che maneggiava degli strumenti e poi si chinava su un corpo disteso, come un chirurgo impegnato in un’operazione.

«Fermo, adesso».

Teodoro gemette, poi lanciò un urlo soffocato.

«Ti ho fatto male?»

«Sono immune da ogni dolore».

«Che cosa ti è successo, vuoi dirmelo?»

«La Polizia mi ha sparato», rispose Teodoro. «Saranno puniti».

«Tuo padre lo scoprirà, vedrai, e sarà lui a punire te».

«Tu non glielo dirai».

«Sei sicuro che la Polizia non ti abbia seguito fin qui?»

«Non sarebbe dovuto accadere».

«Che cosa?»

«Sono entrato nella casa in cui si trovava il traditore. C’era silenzio. Ho aperto una porta e ho trovato una sala piena di persone. Non doveva accadere. Ma ora è tardi per rimediare».

«Ti hanno visto tutti, dunque?»

«Sono scappati».

«Tranne l’uomo della Polizia».

«E anche un altro».

«Sai chi era?»

«No», rispose Teodoro ringhiando per il dolore. «Risolverò ogni cosa».

«Ora sta’ fermo. Devo estrarre la pallottola».

Conon e Caffarel si consultarono con gesti e occhiate. Valutarono la possibilità di esplorare l’ambiente sotterraneo, ma era troppo vasto e buio, perciò decisero di approfittare della momentanea assenza di Teodoro e di tornare sopra a verificare quante persone c’erano.

Quanti uomini in grado di opporre resistenza, soprattutto.

Se fosse stato possibile, li avrebbero resi inoffensivi e poi sarebbero tornati di sotto ad arrestare Teodoro, per portarlo via.

A Caffarel l’idea piaceva, anche perché implicava la fuga immediata da quel luogo, nel caso il piano si fosse rivelato inattuabile. Sempre che qualcuno non li avesse sorpresi e sopraffatti prima.

«Ah!», gridò Teodoro, muggendo a denti stretti per il dolore. «Se ci si avvicina a chi soffre, ci si avvicina come l’Occhio di Horo che lacrima».

«Manca poco. Guarirai, vedrai». Il medico lasciò cadere un oggetto di metallo su un altro oggetto di metallo e sospirando disse: «Purtroppo non posso fare lo stesso con la tua mente».

Il tempo a loro disposizione stava scadendo.