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La pioggia battente creava una tenda di cristalli nello specchio della porta. Oltre, l’oscurità era abitata da ombre animate dal vento.

Prima di appostarsi dietro i muri, Caffarel e Conon avevano coperto le lanterne accese con un panno scuro, in modo da far luce all’istante, in caso fosse servito, ma l’unica fonte luminosa che avevano lasciato dentro casa era una candela posta tra l’uscio ed el Cit: i suoi complici dovevano vederlo, legato alla sedia, e capire subito qual era la situazione: non entrare, ma restare fuori; non sparare, ma trattare.

El Cit fungeva da scudo e da esca allo stesso tempo.

Era solo un ragazzo, Caffarel lanciava occhiate impietosite a Conon, per supplicarlo di essere più morbido con lui, ma entrambi sapevano bene che i bambini delle coche torinesi all’età di otto anni erano già criminali fatti e finiti, spesso i più spietati del gruppo; e Giovanni, el Cit, doveva essersi già sporcato le mani di sangue, forse anche più di una volta.

«Ragazzo», gli disse Caffarel, che gli stava alle spalle, «tu sai perché la tua banda ha assaltato l’appartamento di una certa Sofia Onfray, sparato contro il mio amico e tramortito me con il calcio di un moschetto?»

«Non ne so nulla».

«Perché la tua coca si chiama coca del Tor

«Che domande fate?»

«Da quanto tempo esiste questo nome?»

«Non lo so, signore».

«Il vostro simbolo è il toro di Torino, immagino».

El Cit annuì. «Mi fu disegnato sulla spalla sinistra all’età di due anni».

Caffarel si avvicinò per controllare e constatò che era vero: il disegno era un tatuaggio eseguito con inchiostro bianco, e raffigurava un toro alquanto allungato e visto di profilo, con le corna ravvicinate, lunghe e appuntite. «Non mi sembra il solito toro della città di Torino».

«Neppure a me», disse Conon. «Questa è una raffigurazione del dio egizio Api. Di solito ha un disco fra le corna, che rappresenterebbe il sole».

«Dici sul serio?». Nella mente di Caffarel, la religione dell’Antico Egitto e le coche del Moschino non riuscivano proprio a stare insieme. «E tu lo sai perché lo hai visto in Egitto?»

«Non proprio».

«Abbi pietà di un povero professore ignorante».

«In Egitto ho visto molti bassorilievi e affreschi raffiguranti il dio Api, ma il fatto che il toro debba essere di colore bianco lo so dallo storico greco Erodoto: il toro sacro veniva scelto in tutto il territorio egiziano dai sacerdoti secondo regole precise: doveva essere bianco e avere sul manto certe macchie particolari. Andervolti, a Giza, mi parlò di un toro che viene adorato qui a Torino dai membri della Fratellanza di Heliopolis».

Caffarel abbassò lo sguardo e mormorò incredulo parole che non si aspettava di incontrare in una notte di omicidi, ladri e bande criminali della feccia torinese: «Erodoto, Api…».

«Stai pensando quello che penso io?», gli chiese Conon.

«Credo di sì. Devono essere poche al mondo le persone che conoscono il dio Api e la sua raffigurazione».

«Infatti è così».

«Ma a quanto pare abbiamo un toro Api sulla spalla di un ragazzo del Borgo del Moschino».

Ammutoliti, ripresero a scrutare l’uscio con le armi in mano.

A tratti la pioggia diminuiva d’intensità, ma non accennava a smettere.

Ancora nessuno in vista.

Continuarono ad aspettare.

«Che cos’è l’Antico Egitto?», chiese el Cit.

«Glielo spieghi tu, professore?», ridacchiò Conon.

«Ci potrei provare».

«Siete davvero un professore?»

«Lo sono stato».

«Be’, non c’è motivo di ridere: io non sono stupido, capisco tutto».

«Allora», gli disse Caffarel, «immagina di imbarcarti su una fregata al porto di Genova – sai dov’è Genova?»

«Molti giorni di cammino verso sud, dove c’è il mare», rispose el Cit.

«Giusto. Be’, navighi verso sud per, diciamo…».

«Sedici giorni», lo aiutò Conon, «se non c’è bonaccia».

«E dopo sedici giorni di traversata in mare», proseguì Caffarel, «arriverai in Egitto. Lì, migliaia di anni fa, c’era una civiltà molto ricca e sapiente, che venerava, fin dalle sue origini, il toro che hai sulla spalla».

Conon mimò un applauso col fucile fra le mani. «Ben detto, professore. Il culto di Api è davvero antichissimo».

«Caspita!», fischiò el Cit. «Migliaia di anni, avete detto?»

«Sì, molto prima che nascesse Gesù».

El Cit si perse in un conto impossibile. «C’erano già i Savoia?»

«No, ragazzo».

«E cosa c’era? Qui a Torino, voglio dire. Se non c’erano i Savoia, chi comandava?»

«Non lo so. Nessuno».

«Nessuno? È impossibile: c’è sempre qualcuno che comanda».

«Qui, a quel tempo, non c’era un bel niente, credo».

«Come, “niente”? Qualcosa doveva pur esserci».

«Non so rispondere alla tua domanda, ragazzo, mi dispiace».

«Che razza di professore siete?»

«Basta così», li zittì Conon. «Ho sentito un rumore». Indicò l’esterno con la canna dello Jäger. «Arriva qualcuno».

Caffarel spinse lo sguardo oltre la tenda di pioggia, che adesso era meno fitta, e scorse nel buio i bagliori oscillanti di un paio di lanterne.

El Cit si mise a strillare: «Non vi avvicinate! Sono armati e vi stanno aspettando!».

I riflessi delle lanterne sparirono.

Dopo un minuto buono, una voce domandò: «Chi siete?»

«Vogliamo soltanto parlare», rispose Caffarel.

El Cit si riempì i polmoni e provò a urlare ancora: «Sono solo in…». Ma la parola due andò a sbattere contro il fazzoletto che prontamente Conon gli mise in bocca e gli legò stretto dietro la nuca, costringendolo a mugolare.

«Chi siete?», domandarono ancora da fuori, sempre la stessa voce roca e sospettosa. «Che volete?»

«Vi ridiamo el Cit vivo e senza un graffio, in cambio di una chiacchierata», propose Caffarel. «Ma vogliamo parlare con il capo della coca del Tor».

«Parlare di cosa?».

Caffarel non si scompose. «Fate venire qui il vostro capo».

Dopo un lungo silenzio, la voce rispose: «Non è possibile».

«O così o niente», ribatté Caffarel, ma era scettico: quelli non avrebbero accettato, sapevano che era la casa del direttore della Polizia e naturalmente temevano fosse una trappola. Pensò che sarebbe stato saggio liberare il ragazzo e recarsi il giorno dopo al Borgo del Moschino per cercare il capobanda della sua coca; che questi fosse o meno lo zio Antonio Bertoglio, non aveva importanza: la coca con quel nome esisteva, e lo dimostrava il tatuaggio sulla spalla di el Cit.

L’importante, adesso, era riuscire a parlare con chi aveva incaricato il ragazzo di rubare le carte di Vogel, non cominciare una sparatoria nel cuore della notte.

Che fare?

In quanti erano là fuori?

La situazione stava prendendo una brutta piega. Caffarel si voltò per intercettare lo sguardo di Conon, ma non lo trovò. Era sparito. «Porca vacca!», ringhiò.

«Mm mm», vocalizzò el Cit agitandosi sulla sedia.

«Liberate il ragazzo!», urlarono da fuori.

«Voi diteci chi vi ha incaricato del furto in questa casa e noi lo lasceremo andare, promesso!». Caffarel aspettò il responso domandandosi dove fosse finito Conon. Immaginò che fosse uscito da una finestra del piano superiore, per provare ad aggirare il nemico e coglierlo di sorpresa alle spalle; o forse stava semplicemente cercando di contare quanti uomini c’erano all’esterno della casa.

O magari era scappato?

“Non avresti dovuto fidarti”, si disse Caffarel battendosi il calcio di una pistola sulla fronte. «Allora?», urlò. «Cos’avete deciso?».

Non ci fu risposta.

Un minuto dopo, Caffarel ripeté la domanda.

Niente.

Con cautela si avvicinò all’uscio, sbirciò fuori, non vide nulla; l’unico rumore era prodotto dall’acqua piovana che sgocciolava dagli alberi e dalle grondaie. “Se ne sono andati”, pensò. E uscì per verificare. Attraversò la terrazza, acquattato, e arrivato alla fine guardò il giardino, che era immerso nel buio e palesemente deserto.

Erano andati via.

Scuotendo la testa batté un piede per terra e imprecò contro la propria stupidità: i criminali della coca e la spia mandata da Napoleone erano stati più furbi e saggi del professore di Filosofia, che a quanto sembrava era stato l’unico ad aver preso in seria considerazione la possibilità che qualcuno aprisse il fuoco e succedesse una carneficina.

Poi l’aria umida fu attraversata da un suono inequivocabile.

Uno sparo.

Nel silenzio della notte sembrò una cannonata.

Subito ci fu una scarica di colpi più deboli, sicuramente esplosi da armi più leggere della prima: moschetti e pistole.

“Lo Jäger di Conon”, pensò.

Prese la lanterna e si precipitò sulla contrada delle Fragole con una pistola in pugno, e corse nella direzione da cui gli era parso fossero giunti gli spari. Cominciò a sudare e gli sembrò di annaspare in un lago nero.

Quando arrivò alla fine della contrada, dove uno slargo informe dava origine ad altre due strade, si fermò a pensare e a rifiatare.

Mentre esplorava il deserto bagnato udì la voce di Conon cadergli addosso dal cielo: «A destra!».

Senza farsi domande, Caffarel riprese a correre e imboccò la contrada di destra. Ansava sentendo i polmoni strozzati e maledicendo ogni pipa che aveva acceso. Con la coda dell’occhio vide Conon appeso alla base di un balcone con il fucile in spalla, e lo sentì gridare: «Va’, va’!». Un attimo dopo udì i suoi passi rapidi che gli si avvicinavano alle spalle. Ancora pochi secondi e se lo ritrovò accanto. E poi lo vide scattare in avanti e sparire nel buio.

Lo rivide subito, per fortuna: si era fermato al centro della strada, vicino a una lanterna rovesciata per terra e rimasta accesa. Poco più avanti c’era un uomo che strisciava contro il muro cercando disperatamente di non cadere.

Avvicinandosi, curvo e con le mani premute sul fianco sinistro per soffocare il forte dolore alla milza, Caffarel capì che doveva essere stato colpito da Conon con una fucilata e sentì gli angoli della bocca inarcarsi in un sorriso. «Quel figlio di buona donna», disse fra sé.

«Vieni, professore! Ne ho preso uno».