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Borgo Dora.

Le bealere.

Grandi ruote idrauliche si stagliavano contro il cielo metallico, girando lentamente, cigolando e sferragliando, sollevando l’acqua e convogliandola negli impianti di produzione e nelle doire, i canali che correvano al centro delle principali contrade della città. Le doire portavano quasi ovunque l’acqua utile a lavare le strade, a smaltire la neve accumulata, a spegnere gli incendi e a irrigare gli orti esterni alla cinta urbana.

Nell’area dei mulini di Borgo Dora erano attivi frantoi, cartiere, fonderie, battitoi, segherie e falegnamerie, opifici per la tessitura di stoffe… Il frastuono prodotto dall’acqua e dalle fabbriche era assordante.

Conon diede una spinta al dottor Belmondo, invitandolo a fare strada in quell’intrico infernale di canali e di strani edifici dai quali probabilmente si comandavano le chiuse.

«Siete sicuro che Darch si nasconda in un posto simile?», domandò Caffarel guardandosi intorno, scettico.

«Ve lo assicuro», rispose il dottore.

«Signor Ramses II, vi conviene non fare scherzi», lo ammonì Conon. «Mi siete stato poco simpatico fin dal primo istante che vi ho visto, perciò…».

«Se volete tornare indietro, fatelo», ribatté Belmondo. «Cercatevelo da soli, il conte Darch».

«State zitto», disse Caffarel. «Avanti, su!».

Gli andarono dietro, con le armi cariche in mano, scambiandosi occhiate poco convinte. Addentrarsi in quel coacervo ignoto di canali e cose indefinibili e rumorose non era piacevole, e c’era il rischio di perdersi.

Belmondo li rassicurò. Raccontò di essere stato lì altre volte e giurò che Darch vi possedeva un opificio per la lavorazione della lana. «Siamo quasi arrivati», disse dopo un po’, indicando un candido parallelepipedo con porta e finestre.

Conon si voltò indietro e non vide più la carrozza. «Non mi piace», disse.

Ma Caffarel non lo sentì a causa del fracasso, e continuò a seguire Belmondo puntandogli le pistole alla schiena. «Siete sicuro di dove ci state portando?»

«Certo, abbiate fede».

«Fede? Mi sa che in questo scarseggiamo tutti, qui».

«Non va bene per niente», disse Conon, che camminava in retroguardia e continuava ad annusare l’aria elettrica, e a scrutare con sospetto gli innumerevoli nascondigli possibili, da cui sarebbe potuto saltare fuori qualcuno da un momento all’altro. «Professore?», chiamò.

Caffarel ordinò a Belmondo di fermarsi e si voltò. «Hai visto qualcosa?»

«No. Ma non è prudente addentrarci oltre in questo dedalo informe. Se Darch si trova davvero in quell’edificio, ci vedrà arrivare. Meglio avvicinarsi dal retro. Ma non tutti e tre insieme».

«Cosa pensi di fare?»

«Vado da solo a controllare, tu aspetta qui e coprimi le spalle».

«Facciamo il contrario», disse Caffarel. «Tu hai il fucile e puoi coprire una distanza maggiore. Il dottore mi farà da scudo».

Belmondo si irrigidì. «Cosa dite? Da scudo? Io sto cercando di aiutarvi».

«Camminate», disse Caffarel facendogli sentire il ferro fra le scapole. «Se Darch non è dove dite, vi ficco una pallottola in corpo».

Continuarono ad avanzare. Dopo un po’ il dottore si fermò e indicò un edificio dicendo che il posto era quello.

Aveva in effetti l’aspetto di un opificio per la tessitura della lana: per lo meno si scorgevano mucchi di materia bianca e, nonostante la distanza, si udiva abbastanza chiaramente il rumore ritmico e sordo prodotto dai filatoi. Però non si vedevano operai entrare e uscire.

A osservare con attenzione, non si vedeva anima viva da nessuna parte, il che era insolito per un luogo in cui si concentravano così tante attività produttive.

Conon si appostò dietro un muretto basso, preparò le pallottole da 0,75 pollici e lo scovolo di ferro per calcarle nella canna rigata, poi si distese per terra, un occhio strizzato e l’altro spalancato e attento dietro il mirino dello Jäger, l’indice pronto a tirare il grilletto.

Da quella distanza, all’incirca cento metri, era in grado di centrare un bersaglio con buona precisione, ma le probabilità di riuscirci a ogni colpo non erano molte, e inoltre bisognava augurarsi che non saltassero fuori più di tre persone, perché la ricarica del fucile e delle pistole richiedeva qualche secondo.

Guardò Caffarel e Belmondo che si allontanavano in quel paesaggio cupo e surreale, e scosse la testa. Non era una buona idea, si disse, quel che stavano facendo violava ogni regola militare.

Dopo un po’, Caffarel e il medico passarono accanto a una ruota e le loro sagome si confusero nella bruma causata dalla nebulizzazione dell’acqua.

Erano quasi arrivati all’edificio bianco.

Pochi metri dopo, Caffarel si accostò e sbirciò dentro da una delle finestre al piano terra, poi si voltò e agitò il braccio per far sapere che era tutto a posto.

Il cuore di Conon rallentò, i polmoni tornarono a saziarsi d’aria umida.

Forse, pensò, la stanchezza gli stava facendo immaginare pericoli inesistenti. Caffarel impugnava due pistole cariche e non era uno sprovveduto. E forse erano a due passi dal conte Darch e dalla mappa.

Caffarel era ancora intento a guardare oltre la finestra, dentro l’edificio; poi sospinse il dottore, chiaramente intenzionato a portarsi sul retro.

Forse aveva individuato un’entrata dall’altra parte e voleva dare un’occhiata.

Conon stava per alzarsi e raggiungerlo, quando al baccano delle bealere e delle fabbriche si aggiunsero delle voci concitate.

Come urla di battaglia.

Fu questo il primo pensiero che affiorò nella sua mente, e subito riportò l’occhio destro dietro al mirino, ancora prima di capire cosa stava succedendo.

Lo vide subito.

Dall’edificio erano sbucati degli uomini. Armati. Avevano le facce nere di fuliggine. Sbraitavano come pirati all’arrembaggio di un bastimento carico d’oro.

Conon ne contò cinque, ma un attimo dopo si aggiunsero delle donne, spaventate, urlanti, probabilmente lavoratrici che approfittavano del momento per scappare dall’opificio. Sicuramente erano state trattenute dentro dai balordi, sotto minaccia.

Di nuovo la coca del Tor?

Non bastavano le facce annerite per averne la certezza.

Ma chi altri potevano essere?

Mentre i pensieri scorrevano nella mente, remoti e freddi come ricordi di sogni altrui, Conon teneva le mani ferme. Solo il dito indice si mosse, con delicatezza, e fece fuoco.

Il rinculo sulla spalla fu meno impetuoso dei fucili ordinari, grazie al calcio diritto, a tutto vantaggio della precisione; quindi la pallottola percorse roteando gli ottanta centimetri della canna rigata del fucile, a velocità inconcepibili, e pochi attimi dopo si conficcò nel corpo designato.

L’uomo cadde con un tonfo che Conon non poté udire.

A stento il rumore del colpo esploso subito dopo da Caffarel gli lambì le orecchie.

Non perse tempo e ricaricò. Nel mentre i suoi pensieri correvano, la rabbia montava annebbiandogli la mente: il conte Darch, chiunque si celasse dietro quel nome, aveva usato il dottor Belmondo come esca, chiedendogli di farsi notare nei punti sorvegliati, e arrestare, in modo da condurre la Polizia ai mulini di Borgo Dora, dove sarebbe stato facile tendere un’imboscata.

Conon non vedeva l’ora di mettere le mani su quell’infame.

Con tutta la calma possibile in una situazione così frenetica, estrasse lo scovolo dalla canna e, restando in piedi, riprese la mira.

Intanto, Caffarel, arretrando, si era portato dietro un riparo usando il dottor Belmondo come scudo. Gli restava solo un altro colpo a disposizione, poi avrebbe dovuto ricaricare le pistole, e in quel momento sarebbe stato vulnerabile.

Per fortuna le tre facce nere rimaste in piedi stavano esitando, forse perché spaventate dal vedere due dei loro a terra. Poi, però, fu chiaro il motivo di quella titubanza: ce n’erano altri appostati alle finestre dell’opificio. Spararono.

Anche Conon fece fuoco, ma fallì il colpo. Nel mentre, vide il dottor Belmondo che stramazzava al suolo, colpito intenzionalmente dai suoi stessi complici.

Caffarel esplose il secondo colpo e fece centro, poi sgusciò via accucciandosi in cerca di un altro riparo. Quindi, Conon decise di raggiungerlo per dargli manforte e si mise a correre.

Due proiettili gli rasentarono le orecchie, ma lui si fermò soltanto quando ebbe raggiunto una distanza buona per il tiro. Ricaricò l’arma, indifferente al pericolo, esponendosi del tutto al fuoco, poi prese la mira.

“Respira”, si disse, “calma”. E un’altra palla di piombo incandescente gli fischiò accanto.

Fece fuoco, e stavolta centrò in pieno uno dei tiratori appostati alle finestre.

Riprese a correre e, dopo una cinquantina di passi, scavalcò il corpo esanime di Belmondo e si tuffò accanto a Caffarel, mentre proiettili tutt’intorno rimbalzavano scintillando. «Sei ferito?», chiese lasciando cadere una pallottola nella canna e spingendola in fondo.

«Non ancora», rispose Caffarel, «e tu?»

«Ricarica, ti copro». Conon stava per mirare, ma non ne ebbe il tempo; fu travolto da un uomo robusto con la faccia sporca di fuliggine. Cadde all’indietro e lasciò andare il fucile. Cercò il pugnale che in guerra portava sempre allacciato alla gamba, ma non lo aveva. Rotolò per alcuni metri, la faccia attaccata a quella dell’uomo, che urlava, sbavava e ringhiava, e cercava in ogni modo di conficcargli un vecchio coltello storto da qualche parte; non c’era ancora riuscito, perché Conon gli aveva afferrato il polso con la mano sinistra. Ma l’uomo era forte e aveva la pelle unta e scivolosa.

Non ce l’avrebbe fatta.

Ormai era finita.

Conon era in procinto di arrendersi, quando udì uno sparo e vide la faccia sporca di fuliggine disgregarsi e la testa andare in frantumi.

Non era stato Caffarel a sparare: lui non aveva fatto in tempo a ricaricare entrambe le pistole. Conon lo capì appena si sfilò da sotto il corpo di colui che stava per ucciderlo e vide Nicolas con in mano un moschetto ancora fumante.

A terra c’erano diversi morti, fra i quali il dottor Belmondo.

Adesso era tutto finito e fermo.

Solo la grande ruota della bealera continuava a girare cigolando, lenta, incurante di tutto.