25

Il disertore, Michele Andervolti, abitava in contrada Cappel Verde, in una palazzina antica e bisognosa di restauri, come poté constatare Conon quando vi arrivò davanti.

Bussò.

Venne alla porta una donna, ma non aprì. «Sì?», chiese.

«Cerco la signora Antonietta Andervolti».

«Chi la desidera?»

«Aprite, per favore». Conon scrutò in fondo alla contrada in entrambe le direzioni. Sospettava di essere seguito. La notte prima aveva notato due uomini, appostati dietro gli angoli sotto casa sua. Forse volevano soltanto tenere d’occhio Andervolti e non sapevano di avere a che fare, invece, con un ufficiale di Bonaparte che si era spinto oltre le linee nemiche, tra gli austriaci: un lupo infiltrato nel gregge. In realtà, al momento si sentiva più come una pecora in mezzo al branco affamato.

Non vide nessuno, ma la sensazione di essere spiato gli restò attaccata addosso come un lenzuolo bagnato.

Se stavano seguendo Andervolti, pensò, di sicuro si erano domandati come mai non avesse trascorso la notte a casa sua, con sua moglie, e vi si stesse recando soltanto adesso, senza neppure un bagaglio.

Come mai non gli aprivano la porta?

Bussò ancora. «Aprite, per favore». Si udiva del trambusto in casa. Conon ebbe l’impressione che ci fosse qualcun altro insieme alla donna. La porta restò chiusa.

«Aprite!».

«Un attimo!».

Poggiò l’orecchio contro la porta per ascoltare. Udì chiaramente la voce di un bambino e un trapestio nervoso di stivali, troppo pesanti per essere femminili.

Quando l’uscio si aprì, sulla soglia apparve una donna giovane e in carne, i capelli arruffati come se si fosse appena svegliata.

«Siete la signora Antonietta Andervolti?»

«Sono io», disse la donna, iridi color cioccolata, scollatura liscia e rosa che si alzava e si abbassava rapidamente, seno che traboccava dalla veste. Secondo le informazioni in possesso di Conon, aveva diciannove anni. «Cosa volete?»

«Vorrei entrare, signora».

«Perché?»

«Devo parlarvi di una cosa molto importante che riguarda vostro marito».

Lo fece entrare e, mentre lui richiudeva la porta, corse a scostare le tende della finestra. Ma la stanza restò in penombra. «È morto?», chiese fingendo di temere una risposta affermativa.

«No signora».

Lei si premette la mano aperta sul collo e sospirò. «Grazie a Dio. Accomodatevi». Indicò il tavolo con le sedie infilate sotto. «Dite quel che avete da dire e poi andatevene, perché ho da fare».

«Siete da sola?»

«No, di là ci sono i miei due figli».

Il marito disertore aveva parlato di un figlio soltanto, ricordò Conon. Probabilmente, al momento della partenza non immaginava che lei fosse incinta. O forse il figlio era di qualcun altro.

«Davvero non c’è nessuno in casa con voi, signora?».

Antonietta incrociò le braccia e gli rivolse un’espressione avvilita. «Ma insomma chi diavolo siete? Perché dovrebbe essere affar vostro chi c’è in casa con me?».

Conon decise di andare a controllare personalmente, e allora lei lo afferrò per la giacca. «Non potete».

«Do solo uno sguardo».

«E va bene. C’è un uomo», ammise. «È…». Abbassò lo sguardo per nascondere che arrossiva. «In camera da letto».

«Un vostro amico?»

«No».

«Allora fatelo uscire».

«Ho bisogno di denaro», si giustificò la donna rialzando timidamente la testa. «Mio marito non mi fa avere sue notizie da tanto tempo. Non manda soldi. Noi dobbiamo sopravvivere».

«Vi capisco, signora, non è affar mio». In effetti, Conon sapeva meglio di chiunque altro quanto fosse vero che le truppe di Napoleone in Egitto non ricevevano la paga da un bel po’ di tempo. «Giuro che non dirò niente a nessuno. Però fatelo andare via, per favore». Sfilò una sedia da sotto il tavolo e si accomodò. «Nessuno deve ascoltare quel che diciamo».

«Ma lui non può sentirci».

«Credetemi, è sempre meglio non fidarsi di nessuno. Fa bene alla salute».

L’uomo che si trovava in casa con lei, infatti, era perfettamente in grado di ascoltarli, e si presentò spontaneamente, preceduto dal tonfare degli stivali. Era un soldato alto, biondo, in divisa bianca e blu, con l’elmo argento e oro sottobraccio, la sciabola da fuciliere al fianco sinistro. Non aveva un’aria amichevole, né imbarazzata. Esaminò Conon freddamente, come se stesse valutando il peso e le dimensioni di un oggetto da caricare su un carro. «Qualche problema?», domandò alla donna.

«Devo parlare in privato con la signora», rispose Conon. «Tolgo subito il disturbo».

«È un mio amico», disse Antonietta.

«Davvero?». Si avvicinò a Conon con la mano tesa. «Io sono Alexander».

«Giuseppe», disse lui stringendogliela. Immaginò che in quella situazione bastasse un nome qualunque, e così fu. Il milite austriaco si tirò su i pantaloni afferrandoli dalla cintura. Annuì. Si cavò un astuccio di tasca, lo aprì, pizzicò un po’ del tabacco da fiuto che conteneva e lo inalò con un sibilo, sempre tenendo un occhio torvo fisso su Conon. Gli offrì la scatola. «Favorite?»

«No, grazie».

Se la rimise in tasca. «Ci vediamo presto», disse strizzando un occhio alla padrona di casa. «Io vado».

Conon si alzò in piedi. «Arrivederci, signor Alexander».

«Auf Wiedersehen, Giuseppe!», e si avviò verso la porta con passo baldanzoso, la sciabola che gli sbatteva sul fianco.

Quando se ne fu andato, Antonietta tirò un lungo sospiro. «Adesso potete parlare», disse. «Mio marito è morto, sì o no?»

«Ad agosto, quando l’ho lasciato, era vivo».

«Dio santo!».

«Vi porto notizie anche di vostro fratello Luca».

«Erano insieme?»

«Sì, signora».

«E dove si erano cacciati?»

«In Egitto. Volontari nell’esercito di Napoleone».

Antonietta si portò una mano alla bocca e sgranò gli occhi. «Io… lo immaginavo. Meno male che avete fatto uscire Alexander!».

«Sono stato incaricato di portarvi i loro saluti. Vostro marito vi ama molto e non vede l’ora di riabbracciarvi».

«Tornerà?»

«Non saprei, signora. L’esercito è bloccato laggiù. La flotta è stata distrutta dagli inglesi».

«Sì, ne ho sentito parlare. Be’, se Michele non torna è meglio per lui. È da più di un anno che non ricevo un soldo. Sono costretta a vendermi per dare da mangiare ai miei figli e a me stessa. Credevo fosse morto».

«Posso farvi qualche domanda? Poi, prometto, me ne vado e non mi vedrete più».

«Vi chiamate davvero Giuseppe?»

«Preferirei non dirvelo, signora. A questo proposito: se qualcuno dovesse venire a farvi delle domande su di me, ditegli che sono vostro marito».

«Perché dovrei farlo? Non mi crederebbero. Voi non vivete qui».

«Dite che siamo separati, che io ero sempre lontano, che ho un’altra donna, e voi vi siete fatta un’altra vita e non volete più saperne di me».

Lei annuì. «Cosa siete venuto a chiedermi?»

«Vostro marito vi metteva al corrente delle sue frequentazioni?»

«No».

«Vi ha mai detto di avere incontrato delle strane persone che gli hanno fatto strane richieste?».

Ci pensò e scosse la testa.

Conon si alzò e le andò di fronte. Le afferrò le spalle cercando i suoi occhi. «Ascoltatemi bene, signora. Michele potrebbe essersi immischiato con individui potenti e senza scrupoli. Lui mi ha detto che queste persone potrebbero fare del male a voi e ai vostri figli. Per cui, è meglio che rispondiate alle mie domande».

Lei rifletté in silenzio, poi andò in un’altra stanza e tornò subito con un sacchetto in mano, che posò sul tavolo. Si sedette e fissò Conon, accennando un sorriso. «Mi sembrate una brava persona», disse.

«Vi ringrazio».

«Cosicché Michele ha pestato i piedi a qualcuno?»

«Vostro marito sostiene di essere stato ricattato da persone cattive, signora. Io sono venuto a Torino per cercare la verità».

«Ma lui e mio fratello stanno bene, sono vivi?»

«Ve l’ho detto, non posso saperlo».

Antonietta si toccò la fronte, chiuse gli occhi e restando in quella posizione fece un cenno di assenso. «Va bene. Domandate pure. Spero di potervi aiutare».

«Avete mai sentito parlare di una loggia massonica chiamata Fratellanza di Heliopolis?»

«No, mi spiace. Michele era di poche parole». Il dito indice di Antonietta cominciò a oscillare come l’ago di una bilancia. «Ora che mi ci fate pensare… Michele aveva cominciato a frequentare un posto prima di sparire. Un ospedale».

«Sapete dirmi quale?»

«No. Ma non era un vero e proprio ospedale. Lui lo chiamava “magnetico”».

«Ospedale magnetico? Sapete almeno dirmi dove si trova?»

«No».

«E per caso ricordate se vostro marito vi ha parlato dell’Antico Egitto, qualche volta?»

«Come?». Sbottò in una risata sarcastica. «L’Egitto era la sua mania», disse afferrando il sacchetto e rovesciandone il contenuto, «qui ci sono le sue cose. Tutto quello che ha lasciato, per lo meno».

Gli oggetti che atterrarono sul tavolo erano pochi e insoliti: le dita di Conon sfiorarono una calamita, un piccolo quaderno nero, un mazzo di cartoncini legati insieme con filo da cucire, un flacone contenente una polvere scura e la statuetta di un toro bianco con le corna dorate. «Posso tenerli?».

Antonietta indicò il quaderno. «Prima volete dirmi cosa c’è scritto?».

Conon lo aprì e non riuscì a impedirsi di sobbalzare sulla sedia vedendo pagine ingombre di geroglifici e di appunti. «Mi pare che non ci sia niente di interessante per voi», disse richiudendolo. «Non dovete dire niente a nessuno. Questi oggetti non li avete mai visti. Nessuno vi ha mai portato notizie su vostro marito o vi ha fatto domande. Intesi, signora? Se qualcuno vi chiede di me…».

«Sì, intesi, voi eravate Michele e non viviamo più insieme». Mentre lo guardava rinsaccare tutto, Antonietta precisò che quelle cose non erano state lasciate intenzionalmente a casa da suo marito: le aveva trovate lei e messe da parte, nel tempo. Il quaderno nero era nascosto dietro un armadio; non aveva potuto dirlo a suo marito, perché, quando lo aveva trovato, lui era già andato via, all’improvviso e senza avvertire. «Spero di esservi stata utile».

«Sì, signora».

«Michele tornerà, secondo voi?».

Conon si alzò e le baciò la mano. «Non lo so. Perdonate se vi ho disturbato. Vi farò recapitare dei soldi».

«Quelli non guastano mai», disse lei con un’alzata di spalle.

«Buona fortuna, signora».