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Dal lanificio erano scappati tutti, le filatrici e gli operai. Era rimasto solo il padrone.
E non aveva mai sentito nominare il conte Darch.
Tremava e pareva che gli fossero sparite le palpebre. Era un uomo molto magro, occhi grandi e attaccati alle tempie, un circolo di capelli attorno alla calotta calva. Si presentò come Federico Santi e giurò di essere stato sequestrato dai criminali con le facce nere, insieme a tutti gli altri, dentro la fabbrica.
«Quelli lì», disse toccandosi sul cuore, «stavano aspettando da ore il vostro arrivo. Volevano tendervi un’imboscata».
«Ce ne siamo accorti», disse Conon.
«Parlavano fra loro?», domandò Caffarel al signor Santi. «Cosa dicevano?».
L’uomo non rispose e li invitò a entrare nell’opificio, per vedere con i loro occhi. C’erano due lavoratrici, giovani, seminude, a terra, che si abbracciavano a vicenda, con i visi striati dalle lacrime e macchiati da lividi, i capelli disfatti.
Caffarel si inginocchiò davanti a loro e cominciò a consolarle, ma avvertiva una rabbia sorda che gli montava dentro, insopprimibile.
«Quei farabutti ne hanno abusato», disse Santi. «Io non ho potuto far niente per impedirlo».
Caffarel riuscì a stento a non piangere a propria volta e a trattenere in gola il desiderio di urlare.
«Non dovete sentirvi in colpa», disse Conon al padrone della fabbrica. «Quelli la pagheranno». E tornò fuori per controllare i morti; voleva verificare se avessero un tatuaggio che li identificava come appartenenti a una coca. E lo trovò, su tutti quanti: un toro bianco dalle corna lunghe, visto di profilo; esattamente come quello di el Cit e di suo zio, l’uomo che si era fatto saltare le cervella con la pistola di Caffarel.
Conon si guardò attorno.
Erano scappati tutti.
Probabilmente, vedendo sopraggiungere Nicolas, in divisa e armato, avevano pensato che stesse arrivando una pattuglia austriaca a dare manforte.
“Maledetti bastardi vigliacchi”, pensò lasciandosi cadere seduto per terra.
Un minuto dopo, Caffarel si sedette accanto a lui, mentre Nicolas portava via le due giovani donne, verso la carrozza.
«Che si fa adesso?», domandò Conon fissando la ruota che girava pescando acqua. «Non abbiamo niente in mano. Quel figlio di puttana è morto». Scoccò un’occhiata pietosa al cadavere del dottor Belmondo. «Il conte Darch sapeva di noi due, ha usato il mesmerista per farci arrivare qui e ucciderci».
«Chi può averlo informato? Forse Belmondo, oppure lo speziale».
«Non sono stati loro».
Caffarel annuì. «In effetti, dallo speziale Bozzanti ci siamo recati insieme, ma non ci siamo presentati. E poi, in tutta onestà, Bozzanti non mi è sembrato il genere di persona che osa mettersi contro la Polizia. È uno che preferisce schivare le rogne».
«E ha collaborato», aggiunse Conon. «Ci ha rivelato cose interessanti sulla loggia».
Tacquero per un po’ con gli sguardi persi nel vuoto.
Riattaccò a piovere, e lentamente cominciò a scrosciare. Ma loro restarono seduti per terra dov’erano, incantati dalle gocce che schizzavano sull’acqua dei canali come innumerevoli, piccole palle di cannone, sparate da un esercito lillipuziano.
«Tutti quelli che abbiamo interrogato», rifletté Caffarel, «hanno detto che il conte Darch aveva dei capi, all’interno della loggia. I fantomatici Superiori Sconosciuti. Se davvero esistessero dei gradi più alti, quali nomi iniziatici sceglierebbero?»
«Che vuoi dire?».
Caffarel si voltò a guardarlo. «Lo speziale ci ha detto che i membri della Fratellanza di Heliopolis assumevano i nomi dei faraoni, seguendo una logica, vale a dire: più alto in grado, più antico il faraone. Infatti Darch era Menes, il primo faraone».
«E con questo?»
«Be’, pensavo… Se ci fossero dei gradi superiori, dovrebbero ispirarsi a chi regnò in Egitto prima dei faraoni, prima del primo faraone. Mi spiego? Più in alto di Darch-Menes, dovrebbe esserci un semidio o…».
Conon lo fermò. «Darch era Menes!», esclamò schioccando le dita. Come aveva fatto a non pensarci prima? Ricordò la lettera inviata a Sofia da Marcantonio D. Menes. «Ma certo!», disse guardando la pioggia. «Penso di aver capito chi è stato a parlare di noi due al conte Darch, professore. È stata Sofia. L’altra mattina si è assentata per un po’, ha detto di aver mandato la sua domestica a comprare la cipria. Ma credo che, invece, l’abbia mandata a consegnare un messaggio a Darch, per informarlo che ero a casa sua e stavo per uscire. Mi ha venduto. Spero di sbagliarmi, perché lei era il contatto datomi da Bonaparte in persona. Significherebbe che tradisce anche il mio generale e tutti coloro che ripongono in lui le speranze di cambiamento e libertà. Devo metterlo in guardia, devo scrivergli una lettera, subito». Balzò in piedi e offrì una mano a Caffarel per aiutarlo a tirarsi su. «Dobbiamo muoverci», lo spronò.
«Ma», obiettò Caffarel restando seduto sotto la pioggia battente, «perché Darch avrebbe fatto assaltare in quel modo l’appartamento di Sofia, con la polvere da sparo? Non ha senso. Potevano uccidere anche lei».
«Fra le tante stranezze a cui ho assistito nelle ultime settimane, questa mi sembra decisamente la meno clamorosa. Come abbiamo potuto appurare a casa di Vogel e poc’anzi, i delinquenti del Moschino non sono dei sicari affidabili».
«Al posto tuo non regalerei a Napoleone Bonaparte un’informazione come quella su Sofia. Pensaci bene, Conon, potresti ottenere un mucchio di cose in cambio».
«Ci penserò. Ora, però, dimmi che giorno è oggi».
«Il 18 settembre. Perché?»
«So dove trovare il conte Darch». Conon partì a passo spedito. «Adesso mi è tutto chiaro».
«Cos’hai detto?». Caffarel si affrettò a raggiungerlo. «Come mai, all’improvviso, hai capito tutto?»
«Perché ora so che il nome iniziatico di Darch all’interno della loggia era Menes. E so che Sofia lo conosce. L’altra notte ho frugato nella sua corrispondenza e ho trovato una lettera inviatale da un certo Marcantonio D. Menes, il quale la invitava a un ricevimento, che si terrà proprio questa sera, in contrada Mascara numero 8».
Caffarel accelerò il passo. «Marcantonio D. Menes. La D. sta per Darch, il Gran Maestro!», disse, all’apice della meraviglia.
«Ci servono abiti eleganti, professore».