32
Al mattino, Sofia rotolò sulle lenzuola mugolando, gli diede un bacio e scese dal letto.
Conon era sveglio, guardava il soffitto ripensando all’armadietto che aveva lasciato aperto, al manoscritto di Cagliostro e soprattutto alle missive che era riuscito a leggere e ai nomi dei loro mittenti: nientemeno che la moglie di Napoleone e poi un certo Marcantonio D. Menes. Questo gli risultava sconosciuto, ma era molto interessante, dato che stranamente aveva per cognome il nome del primo faraone d’Egitto.
Chi diavolo era quell’uomo?
E il ricevimento di cui parlava nella lettera?
“Giocheremo a Faraone ed evocheremo gli spiriti… Contrada Mascara 8… 18 settembre”.
«A cosa pensi?», gli chiese Sofia guardando fuori dalla finestra.
«A niente».
Lei lasciò ricadere la tenda, si voltò e con un sospiro di sollievo informò Conon che l’inseguitore del giorno prima non c’era più.
«Forse ha solo cambiato postazione».
«Io non vedo nessuno da nessuna parte».
«Vuol dire che è furbo».
Sofia alzò le spalle. «Chissà», disse, e andò davanti allo specchio per rivestirsi.
Conon la guardò, riflessa, in tutto il suo splendore naturale, incorniciata come un dipinto di Botticelli. «Sei bellissima», le disse.
«Grazie».
«Andervolti», le spiegò, «era ricercato dalla Polizia asburgica fino a qualche settimana fa; poi gli austriaci hanno saputo, non so come, che era ricercato anche dai francesi in quanto disertore. Non capisco come questa informazione di scarso o nullo rilievo militare possa essere giunta dall’Egitto fino agli austriaci a Torino».
«In effetti, è alquanto strano».
«A ogni modo: io ho dichiarato al sottoufficiale della Porta di Palazzo di essere Michele Andervolti e di avere disertato. Sono quindi risultato molto credibile».
«Forse stai correndo un rischio che non sei in grado di calcolare, perché non sai quali e quanti nemici avesse questo Andervolti».
«Sono stato costretto a usare i suoi documenti; non immaginavo che fosse famoso».
«Ci pensi?», ridacchiò Sofia, «magari il Cannibale non vedeva l’ora di poter uccidere anche Andervolti, e ora ucciderà te al suo posto».
Conon storse la bocca. «Io non sono Andervolti».
«Viva la sicurezza in sé stessi!».
«Cosa si sa di questo Cannibale?»
«Poco o nulla. La gente…». Sofia raccolse una spazzola e cominciò a pettinarsi. «La gente gli ha dato questo soprannome. Ma in verità bisognerebbe chiamarlo il Tagliateste: pare che le abbia staccate di netto e poi sistemate tra le gambe dei poveretti. Una pratica tanto macabra quanto insolita. Ma la faccenda ha i suoi risvolti positivi».
«E per chi?»
«La gente sta patendo la fame e, quindi, si immedesima nel Cannibale, finendo per parteggiare per lui. Finora ha ucciso solo dei massoni benestanti. A parte il guardiano del museo. So che sembra assurdo, ma… i torinesi accusano gli austriaci di aver ridotto la città in miseria, dicono che i poveri sono costretti a mangiarsi fra loro per sopravvivere. La gente considera il Cannibale un prodotto inevitabile del dominio straniero. Puoi immaginare come questo renda felici gli austriaci! Il generale Melas ha dato ordine alla Polizia e a tutti quanti di catturare l’assassino a qualunque costo e subito, e così noi amici dei repubblicani siamo un po’ più liberi di muoverci. Capisci cosa intendo?».
Conon capiva, ma a differenza di Sofia aveva addosso una sensazione sgradevole, come se avvertisse sulla schiena il fiato famelico del Cannibale; tutta quella Polizia in giro poteva rappresentare un intoppo alla sua missione, se non una vera e propria rogna.
«Bene», disse lei lasciando la spazzola e prendendo in mano una camicia di seta rosa, «se mi aspetti, vado a prepararmi». Gli rivolse un sorriso malizioso. «Poi andiamo a fare colazione? Conosco un posto che ti piacerà».
Quasi due ore dopo, Sofia riapparve vestita perfettamente e bella come una Poupée de la mode. Si fece guardare, come se volesse spiegare il motivo per cui si era fatta attendere così a lungo. «E ho anche dovuto mandare Marianna a comprare la cipria», disse. «Non posso rinunciarci. Ho abbandonato i nei finti, ma la cipria…».
Conon sorrise e la prese sottobraccio. «Allora, andiamo a fare colazione?».
La risposta era no.
Non fu Sofia a darla, ma un vetro della finestra, che esplose in una rosa di schegge e vomitò sul pavimento una palla fumante e sibilante.
«Sta’ giù!», urlò Conon. Afferrò Sofia e la spinse fuori dalla stanza, facendola cadere a terra. «Giù!», disse a Marianna.
Poi il boato esplose.
L’edificio sussultò e dai muri caddero frammenti e polvere.
Pochi istanti dopo, si sprigionò una seconda esplosione, ancora più forte della precedente.
Conon provò a rialzarsi, ma barcollò e ricadde. Ci riuscì al secondo tentativo. Era stordito, gli fischiavano le orecchie. «State bene?».
Sofia e Marianna annuirono.
Il fumo strozzava i polmoni, c’era un odore intenso di polvere da sparo.
In quella nebbia, Conon scorse dei bagliori inequivocabili che si riflettevano sul pavimento, davanti alla porta della camera da letto: fiamme.
Non molte, per fortuna. Uno dei due ordigni esplosivi era caduto proprio sul letto, e il materasso stava andando a fuoco con gioia, come se non avesse atteso altro da quando era stato creato. Conon lo colpì con la coperta e in breve riuscì a scongiurare che andassero a fuoco le tende di seta.
Andò a controllare la finestra. Era pienamente consapevole dei rischi che avrebbe corso tornando a Torino ed era ben disposto a mettere a repentaglio la propria vita, visto che l’alternativa sarebbe stata restare a rosolare per sempre sulla sabbia egiziana.
La finestra da cui erano entrati gli ordigni esplosivi era rimasta chiusa e il dio Ra stava facendo brillare quei pochi triangoli di vetro ancora attaccati al telaio.
Conon si affacciò con cautela per guardare in strada. Molta cautela. Ma non abbastanza: due uomini, facce annerite di fuliggine, occhi eburnei sopra i moschetti puntati contro la finestra.
Appena lo videro fecero fuoco all’istante.
Conon scorse le scintille schizzare dalle armi e si tuffò a terra. Un proiettile gli sibilò sulla testa, l’altro, però, gli bruciò la carne.
Sofia gli sfilò subito la giacca per controllargli la spalla sinistra, sotto la camicia lacerata dalla pallottola.
«Non è niente», disse lui ritraendo il braccio e facendo per rialzarsi da terra.
Ma lei insistette: «Do solo uno sguardo».
La lasciò fare, serrando i denti per il dolore. «Ti intendi di ferite da arma da fuoco?»
«Un pochino». Sofia era seria come un medico militare. «Sono una sarta e, in un paio di occasioni, mi è capitato di ricucire anche la pelle umana. Ma in questo caso potrò risparmiarmi il disturbo: il proiettile ti ha colpito di striscio».
La buona notizia alleviò un po’ il dolore atroce di Conon. Rinfilò la giacca e si rimise in piedi. «Neppure in guerra mi ero mai trovato così vicino a un proiettile», disse, e subito si precipitò fuori dall’appartamento e giù per le scale, e poi in strada.
La mano premuta sulla ferita, lanciò tutt’intorno sguardi famelici, ma sapeva che gli assalitori dalle facce nere si erano dileguati all’istante.
Aspettò che gli sfrecciassero davanti un paio di carrozze, poi attraversò la strada e andò a controllare il punto in cui la sera prima si era appostato l’uomo che lo aveva seguito per tutto il giorno. Si rendeva conto che era assurdo: un uomo della Polizia non poteva aver assistito alla scena senza intervenire; e se non fosse stato della Polizia, sarebbe di sicuro scappato.
E invece lo trovò.
Esterrefatto, Conon si avvicinò all’uomo che giaceva per terra, un individuo di media statura, capelli castani, età fra i trentacinque e i quarant’anni, dolorante, frastornato, la faccia insanguinata. «Cosa vi è successo?», gli chiese correndo a prestargli aiuto.
«Faccio il mestiere sbagliato», gemette Caffarel tastandosi la fronte.
Anche Sofia si affrettò a soccorrerlo. «Siete voi che seguivate il mio amico?»
«Sì», rispose Caffarel. Si mise in piedi, ma riuscì a rimanervi solo grazie al sostegno di Sofia. «Siete molto gentile».
«Cosa vi è successo?», gli domandò lei.
«I tizi che hanno attaccato il vostro appartamento… Ho provato a fermarli, ma sono stato sopraffatto: uno di quei balordi mi ha colpito in pieno volto con il calcio del moschetto».
«Chi erano?», volle sapere Conon.
«Speravo che poteste dirmelo voi, signore».
Sofia prese un fazzoletto, vi fece cadere sopra un po’ di saliva e glielo diede. «Pulitevi», gli disse, «siete sporco di sangue. Ma state tranquillo: è solo un taglietto, vi verrà un livido».
«Grazie». Caffarel accettò il fazzoletto. «Voi, signore…». Scoccò un’occhiata alla spalla sinistra di Conon. «Siete ferito?»
«Ci è mancato poco», annuì lui, serrando i denti, un po’ per il dolore e un po’ per la rabbia. «Perché mi stavate seguendo? Chi diavolo siete?».
Caffarel si presentò: nome, cognome, mansione.
«Cosa vuole da me la Polizia austriaca, commissario Caffarel?»
«Soltanto parlarvi».
«E perché mai?»
«Se voi siete il signor Michele Andervolti…». Caffarel si tamponò la fronte e guardò il fazzoletto sporco di sangue. «Devo parlarvi dei vostri amici che sono stati uccisi».
«Non sono Andervolti», tagliò corto Conon.
Caffarel fece un’espressione simile a quella che doveva aver fatto un istante prima di ricevere la botta in faccia. «Lo sapevo». Afferrò Conon per la giacca. «E allora chi siete?»
«Uno che fareste meglio a lasciar perdere».
«Devo arrestarvi».
Conon rise. «Vi conviene dimenticarvi di me».
«Neanche per sogno!». Caffarel lasciò andare la presa, fece due passi indietro, sfilò le pistole dalle fondine e gliele puntò contro.
Conon restò impassibile e ammirò le armi: erano identiche fra loro, quasi quaranta centimetri di lunghezza, acciarino a pietra, legno scuro e magnifiche decorazioni d’oro e corallo.
«Il vostro nome?», chiese Caffarel, che a sua volta osservava da vicino l’uomo che aveva seguito per ore, senza poterlo vedere bene in volto: pelle liscia e senza rughe, mascelle arrotondate e prive di barba, occhi enormi, come gemme su vassoi di porcellana; giovanissimo, il ritratto di un ufficiale seduttore, sguardo che ribolliva energia. «Nome!».
«Perché non vi calmate, commissario?», intervenne Sofia. «Dovreste preoccuparvi di me, piuttosto: hanno appena fatto saltare per aria il mio appartamento. Per fortuna, sono in affitto! Andiamo a parlare con calma da qualche altra parte», propose. «Facciamo colazione insieme. Forse voi due potreste trarre reciproco beneficio da uno scambio pacato».
Conon alzò gli occhi al cielo color piombo e trasse un profondo respiro. Doveva stare calmo, si disse. Doveva pensare. Ma la situazione era completamente indecifrabile.
Forse, il commissario Caffarel aveva informazioni utili a fare un po’ di chiarezza.
Anche Sofia la pensava allo stesso modo, perché il suo sguardo diceva chiaramente: “Ti conviene parlare con quest’uomo”.
«Va bene», disse Conon tendendo una mano sporca di sangue a Caffarel, «parliamo, signor commissario, ma facciamolo qui, adesso».
«È Amedeo!», gridò Sofia. «Amedeo!», chiamò muovendo le mani.
Una carrozza stava sopraggiungendo.
«Madamin Sofia!». Il cocchiere tirò le briglie e lanciò versi ai cavalli per farli fermare.
Conon riconobbe l’uomo seduto a cassetta: era la stessa persona che lo aveva condotto da Cuneo a Torino.
«Che succede, madamin?», chiese Amedeo.
«Ho bisogno di te».
«Ora non posso, madamin. Ho dei clienti a bordo. Mi avevate detto di venire questa sera al tramonto».
«Ne ho bisogno ora». Sofia gli indicò Conon e Caffarel. «Si tratta di un’emergenza».
Senza esitare, Amedeo bussò contro il tetto del veicolo e invitò i passeggeri a scendere immediatamente.
I clienti protestarono e restarono al loro posto.
«Scendete, ho detto».
Conon si avvicinò alla carrozza e aprì lo sportellone. Si trovò di fronte le facce perplesse di un uomo e di una donna, molto giovani, sì e no potevano avere trentacinque anni in due. I pochi vestiti che avevano ancora addosso erano di buona qualità. «Per favore, abbiamo bisogno della carrozza, vi ripagheremo le spese del noleggio».
«Come vi permettete?», si oppose il passeggero sputando sguardi velenosi. «Voi non sapete chi sono io!».
Conon gli afferrò il polso e lo estrasse a forza dal veicolo.
«Che modi da villano!», protestò il ragazzo. «Ve la farò pagare!».
L’avvenente ragazza raccolse rapidamente gli accessori e i capi d’abbigliamento sparsi per l’abitacolo e scese a propria volta, ma sembrava più preoccupata che indignata dalla situazione.
«Perdonateci», disse Caffarel rivolgendosi ai due ragazzi. Mettendo un piede sul predellino, provò a spiegare che era un commissario di Polizia e giurò che il veicolo veniva requisito per una questione della massima gravità.
Il ragazzo continuò a imprecare e maledire, mentre la carrozza si allontanava.