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I russi e gli austriaci avevano strappato la città ai francesi a giugno. Poi i russi erano andati via, e adesso comandavano gli austriaci. E il palazzo dell’università era ancora chiuso, così come il Museo di antichità che ospitava: le centinaia di oggetti antichi, al momento, giacevano nelle casse, fatto salvo per due grandi statue in granito.
C’erano casse lungo i corridoi, negli angusti sottoscala, nei locali sotterranei.
Che cosa esattamente contenessero, comunque, non interessava al guardiano notturno, il signor Emanuele Savinio. Lui sapeva solo che gran parte degli oggetti egizi era stata inviata a Torino molti anni addietro, da un certo Vitaliano Donati, mandato in Egitto a quello scopo dai Savoia; altri oggetti, tra i quali statue e manufatti in bronzo, erano invece stati ritrovati poco fuori Torino, durante degli scavi archeologici che avevano portato alla luce un tempio della dea Iside. Per il resto, il signor Savinio considerava tutte quelle cose un’accozzaglia di oggetti maledetti e di segreti che sarebbe stato meglio non risvegliare.
Gli aliti polverosi emanati dai reperti archeologici, qualunque cosa fossero, sibilavano come sussurri nelle sue orecchie, gli sferzavano i nervi.
Gli era stato detto che nel Museo c’erano molti amuleti e talismani magici dal potere tremendo, e che valevano parecchio denaro, se immessi nel mercato dei collezionisti che volevano arricchire i loro gabinetti di curiosità.
Ma lui cercava di non pensare ai poteri magici, e ogni notte passeggiava con la candela in mano continuando a ripetersi che erano soltanto delle anticaglie dal grande valore.
Stava cominciando a detestarle profondamente.
Anche per questo aveva accettato di rubarne qualcuna. Solo qualcuna. Soltanto tre. Questo era l’accordo, lo aveva detto chiaro e tondo ai suoi amici della loggia.
Erano delle persone insistenti per natura. Avidi, fissati con l’occulto. Volevano oggetti antichi e offrivano molto denaro. Avevano perfino una lista delle cose che desideravano fossero prelevate dal Museo e sostenevano di conoscere l’ubicazione di ogni singolo oggetto.
«Sarà un gioco da ragazzi», gli avevano detto, riferendosi anche al diventare ricchi. «Un oggetto a settimana, tre in tutto».
Uno degli acquirenti era appena rientrato in città. Perciò, quella notte Savinio doveva, in base agli accordi, prelevare il secondo oggetto: un vaso con coperchio, fragile e impossibile da nascondere sotto la giacca, a differenza della statuetta presa la settimana prima.
Il cuore gli batteva rapido mentre percorreva le stanze e i corridoi del palazzo dell’università, e all’improvviso accelerò ulteriormente.
Gli era parso di sentire un rumore.
Si mise in ascolto, teso come un cacciatore e impaurito come la sua preda.
Ma non udì nulla.
Trasse una serie di respiri profondi finché il cuore tornò a battere calmo, poi riprese il giro, ma poggiando i tacchi con delicatezza, così da non essere sentito neanche dagli spiriti.
Sulla collezione del Museo sapeva poco ed era troppo: le specialità avevano a che fare con la morte e l’Aldilà. Anche il vaso che stava per rubare proveniva da una tomba e, secondo il tale che pagava bene, aveva contenuto le viscere del morto.
Scosso dai brividi, il guardiano si fece un rapido segno della croce e si fermò di nuovo ad ascoltare, con un fremito sulle labbra.
Forse aveva udito ancora quel rumore. Un fruscio. E un colpo secco. Sembrava provenire dall’ultima sala in fondo, proprio quella in cui si trovava il vaso che doveva prendere.
Magari era stato solo il frutto della suggestione, si disse, o una finestra che si era aperta per il vento.
Ma le aveva controllate tutte.
«Chi è là?», gridò.
Gli rispose il solito silenzio oscuro.
Poteva essere stata l’eco lontana di un tuono? A ogni modo, solo un fantasma non sarebbe scappato nell’udire la voce profonda e minacciosa di un uomo alto quasi due metri. «Chi c’è?». Ricordò a sé stesso che, prima di essere un ladro, era il guardiano di quel posto: lì comandava lui.
Impugnò la pistola.
Alzò il cane.
E andò a controllare, innalzando la lanterna che teneva con l’altra mano.
Non dovette cercare a lungo per scoprire cosa stava succedendo. Lo vide nell’ultima sala.
C’era un maledetto e inconcepibile intruso, curvo come un avvoltoio su una cassa dalla quale aveva schiodato il coperchio. Ma era poco più di un’ombra nera.
La cassa che aveva aperto era proprio quella che…?
Savinio fu attraversato da una scarica di terrore. Alzò di più la lanterna, serrò la mascella, strizzò gli occhi e puntò la pistola nell’oscurità. «Chi è?». Avanzò a piccoli passi, il cuore che gli picchiava nel torace a un ritmo forsennato, la gola improvvisamente secca e la fronte madida di sudore freddo. La mano gli tremava. «Chi sei?», urlò. E si rese subito conto di quanto fosse sciocco fare una domanda simile. Voleva forse che l’intruso si presentasse come un galantuomo? Era un maledetto ladro, perdio! «Tu!».
L’ombra restò immobile nello stesso punto e nella medesima posizione di prima, ma adesso era udibile il suo respiro, lento, con lunghe inspirazioni sibilanti.
Nella mente del guardiano scorsero le immagini dell’avvenire possibile: lasciare che il ladro prendesse tutto quel che voleva e se ne andasse, essere quindi arrestato dagli austriaci e poi licenziato, finire a dormire sotto i portici ed essere arrestato di nuovo per accattonaggio.
L’altro avvenire possibile sarebbe stato intervenire con decisione, neutralizzare il ladro e ricevere una promozione e i complimenti in tedesco dei nuovi padroni di Torino, nonché dei concittadini, che andavano orgogliosi del loro Museo. Così nessuno avrebbe mai potuto sospettare che anche il guardiano era un furfante.
Il futuro dipendeva da lui.
Solo da lui.
Il ladro non si muoveva, non scappava, sembrava un essere dell’oltretomba immune alla paura. Paura che, invece, stava invadendo ogni angolo del grosso corpo del guardiano.
«Non muoverti. Sono armato e non esiterò a sparare. Mi hai capito?».
Forse lo aveva capito, ma non confermò in nessun modo.
Ora il guardiano era abbastanza vicino da scorgere due puntini bianchi, il riflesso della lanterna nelle sue pupille.
«Lascia tutto dov’è e vattene. Io non ti inseguirò», promise, sperando con tutto il cuore che l’offerta risultasse interessante. «Mi hai sentito?».
Ma l’ombra lo fissava come fosse un essere privo di orecchie e di ogni altro senso, una vera e propria ombra senza corpo, qualcosa di meno di una cosa. Uno spirito, forse.
Speranza delusa.
L’ombra aveva una voce. Disse: «Volevi portare via da Torino anche questo?», e si mise in posizione eretta. Aveva in mano un oggetto, un vaso, lo stesso che il guardiano intendeva rubare al Museo proprio quella notte. «Hai commesso due volte lo stesso vile sbaglio: qui, come a casa mia, sei pagato per custodire e, invece, rubi».
«Casa tua?». Savinio deglutì l’orrore. Ascoltò la notte silenziosa, alla ricerca di un rumore che tradisse la presenza di un eventuale complice, ma non udì altro che il proprio cuore martellante. «Tu sei…?»
«Sì, tu mi conosci».
Savinio strizzò le palpebre, ma non riuscì a vederlo abbastanza da riconoscerlo. Era alto, grosso, la luce brillava sulle lame che aveva addosso.
«Io sono Khonsu», disse, «il messaggero che Unas manda per punire».
Quasi senza accorgersene, Savinio premette il grilletto. Seguì un sibilo, e dopo qualche istante arrivò lo scoppio.
Però si accorse subito di non averlo atterrato; del resto non era mai stato un buon tiratore. E con tutto quel silenzio, il tempo intercorso fra l’accensione della polvere e lo sparo del proiettile doveva essere bastato al bersaglio per spostarsi e schivare il colpo.
Adesso non lo vedeva più, a causa del fumo prodotto dall’arma, ma sentiva lo scricchiolio delle sue strane calzature. Non era scappato. Era ancora lì, nell’oscurità.
Quando finalmente il guardiano si accorse che stava commettendo l’errore di tenere in mano la lanterna, quando capì che la fiamma lo rendeva perfettamente localizzabile nel buio, era troppo tardi. Fu colpito da un oggetto freddo, che gli attraversò il collo, rapido come una ghigliottina.