Gli arrivi
«Ecco i fiori per le camere da letto. Sono soprattutto bacche, ma i rametti di calicanto in ogni vaso dovrebbero dare un buon profumo. Se ci pensi tu a portarli di sopra, io comincio a ragionare su come assegnare le stanze».
Ma l’impresa si rivelò più complicata del previsto. Tanto per cominciare le camere non bastavano, ma i bambini sarebbero stati felici di stare tutti insieme. Il guaio era che non ricordava più bene quali dei bambini fossero ormai adulti. Si mise a compilare una lista.
Polly, che mancava da Home Place dai tempi del suo matrimonio, avrebbe preso la vecchia stanza di Hugh. E Spencer avrebbe dormito presumibilmente con loro, nella vecchia culla che era stata tenuta per i piccoli ospiti. Zoë e Rupert avrebbero avuto la loro solita stanza, quella coi pavoni stampati sulla carta da parati. Hugh e Jemima si sarebbero sistemati nella stanza che un tempo era di Edward. Archie e Clary in quella della Duchessa. Juliet e Louise potevano dormire nella cameretta che avevano già condiviso il Natale precedente. La stanza dei giochi, che pure era ampia, bastava appena ad alloggiare Teddy, Simon, Henry e Tom, che avrebbero usato tutti i lettini da campo disponibili. Harriet, Bertie, Andrew e le gemelle di Polly potevano occupare la vecchia camera dei bambini, mentre per la bambinaia di Polly c’era sempre lo spogliatoio del Generale. Restavano fuori Georgie e Laura. Quella mattina aveva ricevuto una cartolina sorprendente che recitava più o meno così: «Pe favore, zia Rachel, fami dormire con Georgie, percé io e lui andiamo daccordo e io li voglio tanto bene. Volio bene anche a Rivers. Con affeto, Laura».
Misericordia, si stava dimenticando di Villy! E di Roland! Be’, lui poteva sistemarsi con gli altri ragazzi, ma Villy doveva avere una bella stanza. La cosa migliore è farla dormire in camera mia, si disse, e io andrò in quella di Sid. Non era mai riuscita a farlo dopo la sua morte, ma era uno scoglio che andava affrontato, uno dei tanti.
Alle cinque del pomeriggio la casa era silenziosa e immobile, incastonata nel gelo che era sopraggiunto all’imbrunire. Da ore faceva su e giù tra le varie stanze, tirando tende e sistemando ceppi nei camini. A un certo punto sentì una macchina, si mise uno scialle sulle spalle e andò ad accogliere i primi arrivati. Erano Polly e la sua famiglia. I tre bambini uscirono precipitosamente dall’auto. «Eliza e Jane hanno sofferto entrambe il mal d’auto, io invece no», dichiarò il maschietto. «Nemmeno un po’ di nausea».
Polly abbracciò sua zia. «Oh, zia Rach, che bello vederti. Ecco Gerald». E Gerald inaspettatamente la baciò sulle guance.
«In persona», disse emozionato. «Eliza, Jane, Andrew, venite a salutare la vostra prozia».
«Ciao, zia Rachel», mormorarono in coro i tre.
Poi Gerald prese Spencer dalle braccia di Nan e la aiutò a scendere dalla macchina. Sembrava un uccellino nel suo nido di vestiti caldi e dignitosi. Arrivò Eileen e si mise subito a disposizione per dare una mano.
«Entrate, bambini!».
Il resto del pomeriggio trascorse in un flusso ininterrotto di arrivi. Laura salì le scale di corsa e le chiese, in una specie di mormorio gridato, se aveva ricevuto la sua cartolina. Rachel disse di sì, ma aggiunse che prima doveva parlare coi suoi genitori e con quelli di Georgie, al che Laura le lanciò un’occhiataccia. Rupert e Zoë si misero subito a srotolare i sacchi a pelo; Georgie tirò fuori le cose di Rivers e permise a Laura di dargli da mangiare.
Poi fu la volta di Clary, Archie e i loro due bambini. «È come tornare a casa», disse Archie abbracciandola.
Juliet, dopo aver estratto a viva forza la sua valigia incastrata fra le altre nel baule dell’auto, domandò subito: «Dove dormo?». Non una parola di saluto, e in più aveva sviluppato una pronuncia strascicata che l’anno prima non aveva.
«Ciao, Juliet. Sei nella solita stanza. La dividi con Louise». Portava un maglione pesante con ricamate sopra una pecora bianca e una nera. Era bellissima e scontenta.
«Forza, Jules! Aiutami a scaricare la macchina», le gridò dietro Rupert, ma lei non lo stette a sentire ed entrò in casa come se nessuno le avesse rivolto la parola.
Dopo un po’ arrivarono anche Simon, Louise e Teddy, stipati nella piccola automobile di quest’ultimo. Sembravano tutti felici di vedere Rachel.
* * *
Clary, entrando nella vecchia stanza da letto della Duchessa, si commosse. Era quella di sempre: le pareti bianche, il tavolo da toeletta coperto da una tovaglia di mussola, i due acquerelli di Brabazon raffiguranti paesaggi veneziani e due fotografie color seppia dei suoi genitori già quasi novantenni, seduti su una panchina nel loro giardino a Stanmore. Le tendine azzurre erano diventate sottili e sul letto c’era il vecchio copriletto patchwork fatto da Rachel con scampoli di seta bianca e azzurra, solo che adesso si aprivano dei grossi buchi soprattutto nelle parti azzurre. Clary osservò ogni cosa e sentì le lacrime salirle agli occhi. Si sentiva onorata di essere lì; fitte di dolore per l’assenza della Duchessa l’assalivano a ondate. Del resto sarebbe stato orribile per lei assistere a quel che stava accadendo, tutto il suo mondo che si andava sgretolando.
Arrivarono Villy e Roland. Tonbridge era andato a prenderli alla stazione. Villy reggeva una voluminosa scatola di latta e Roland portava due valigie e un sacco a pelo.
«Tu starai in camera mia, cara. Che bello che siate venuti! Ciao Roland. Non ti vedevo da una vita. Tu starai nella stanza dei giochi con gli altri ragazzi».
Roland la guardò smarrito. «Temo di non sapere dove sia».
«Lo accompagno io. Noi dormiamo insieme?», domandò Villy.
«No, no. Tu starai in camera mia. Io in quella di Sid». Le parve spaventoso che Roland non conoscesse i propri fratelli e cugini. Era molto più alto della madre e non somigliava per niente a Edward. Era in quell’età in cui si è sempre d’ingombro, ed era anche visibilmente ansioso di togliersi di mezzo.
Andò di sotto a controllare che in salotto ci fosse da bere e per le scale s’imbatté in Andrew.
«Ho esplorato la casa», disse. «Non c’è voluto molto. Non è un granché per giocare a nascondino, mi sa. Non ci sono molti nascondigli buoni».
«Andresti a dire alle ragazze che la cena sarà pronta fra poco, nell’ingresso?».
«Oh, bene! Vado subito». E corse contento al piano di sopra.
Nell’ingresso sarebbe stata servita la cena per Bertie e Harriet, Jane ed Eliza, Georgie, Laura e Andrew, e consisteva in uova strapazzate e pane fritto, più una fetta di pancetta a testa, il tutto seguito da pane e marmellata e Victoria sponge cake Eliza e Jane ottennero il succo d’arancia che avevano chiesto e lo vollero anche tutti gli altri, perciò finì. La cena era supervisionata da Nan, che riusciva a mantenere l’ordine con una facilità che aveva del miracoloso. Georgie chiese a tutti di mettere da parte la cotenna della pancetta per Rivers. Quando Andrew smembrò il suo sandwich, Nan gli fu addosso all’istante. «Non ci si comporta così, sua signoria! Per punizione niente sandwich per te. Aspetterai la torta come tutti gli altri».
«Perché ti chiama “sua signoria”?».
«Lo fa solo quando è arrabbiata. Io sono un Lord, non lo sai?».
«Ha un nome bruttissimo», disse Eliza e poi Jane aggiunse: «Lord Holt. Vorrebbe chiamarsi Lisle, come noi, ma papà dice che non si può. Si chiamerà Lord Holt finché papà non muore e allora erediterà il titolo di Lord Fakenham. Eliza e io invece siamo “Lady”», concluse altezzosa.
«Basta con questi discorsi. Siete uguali agli altri, né più né meno. Siamo tutti uguali», tagliò corto Nan con aria seria, anche se non la pensava affatto così.
* * *
Il fuoco ardeva in salotto dando a tutti la viva impressione che ci fosse del calore, impressione aiutata dal Martini bello forte che almeno gli adulti stavano sorseggiando. Il divario generazionale richiedeva una certa delicatezza. Villy si accorse che Roland era molto timido e il grosso pomo d’Adamo gli schizzava su e giù come la colonnina di mercurio in un termometro. Rachel aveva fatto un tentativo di conversare con lui, chiedendogli quali fossero i suoi interessi al momento, ma lui doveva aver detto qualcosa che chiaramente l’aveva ridotta al silenzio. E lei lo stava osservando preoccupata quando Archie le si avvicinò, l’abbracciò e le disse: «Non preoccuparti per lui, Villy. Andrà tutto bene, vedrai». E le riempì il bicchiere con la caraffa che stava portando in giro.
L’albero di Natale invasato da Mr McAlpine se ne stava maestoso e un po’ storto nel bovindo, circondato da vecchie scatole di cartone piene di decorazioni.
I bambini erano tutti a letto ma ben svegli, a giudicare dal chiasso. Rachel batté le mani e tutti fecero silenzio. «Volevo condividere con voi solo due cose. Una è questa: che ne direste di non parlare dei nostri... problemi fino a dopo Natale? Adesso pensiamo a divertirci». Vi furono mormorii di approvazione. «L’altra cosa è che questa stanza deve rimanere chiusa fino a domani mattina. Per i bambini, intendo».
«Bene», s’inserì bruscamente Archie. «L’albero lo abbiamo sempre fatto Rupert e io, e siccome siamo delle frane con le luci, Roland potrebbe darci una mano: sei un asso con le cose elettriche, no?».
«Posso sistemare le luci, certo», disse Roland arrossendo, cosicché l’acne gli s’infiammò come tante lampadine sullo sfondo di un tramonto infuocato.
Rupert disse che sarebbe stato un grande aiuto, e Villy sorrise raggiante.
Clary uscì dal salotto per andare a vedere se poteva dare una mano a Eileen.
La cucina sembrava un antro infernale. Persino il faccione bianchiccio della Tonbridge era soffuso di rosso sulle gote, e le sue forcine cadevano come birilli lillipuziani sul ripiano della stufa. Eileen stava scolando gli spinaci; solo Nan sedeva tranquilla a sferruzzare uno scialle. Lei e Mrs Tonbridge erano andate d’accordo fin da subito: Nan aveva trascorso una bella giornata, per quanto ricordava, e adesso stava parlando del suo lungo servizio presso la famiglia Fakenham, con la cuoca che s’inseriva di tanto in tanto con qualche ricordo dell’infanzia di Polly. Eileen era così estasiata da questi racconti che Mrs Tonbridge doveva incitarla continuamente a sbrigarsi con quelle verdure, intanto che estraeva dal forno una grossa teglia coi fagiani già a pezzi. «I pasticci dovrai portarli in tavola uno alla volta». Clary, venuta a dare manforte, si offrì di portarne uno. Indossava ancora i vestiti con cui era arrivata: un paio di jeans e un maglione di lana grossa blu scuro.
«Ai miei tempi si cambiavano tutti per cena. Anche quando era da solo, sua signoria scendeva sempre a cena con la sua giacca da sera».
«I tempi sono cambiati, Miss Smallcott», disse Mrs Tonbridge un po’ a disagio. In casa Cazalet ci si era sempre cambiati solo per le cene speciali, pasti di almeno quattro portate, anche se durante la guerra erano state ridotte a due.
In quel momento tornarono Clary ed Eileen a prendere le verdure. «Poi vieni a prendere la salsa, Eileen». Mrs Tonbridge la stava ancora mescolando nella pentola. Tutto quel movimento rendeva ancora più precarie le sue forcine.
* * *
«Servitevi, coraggio!», disse Rachel. Ma anche così ci volle molto tempo. Per il pranzo di Natale ci vorranno due stanze, pensò guardandosi intorno contenta. E bisognerà allungare ancora il tavolo nell’ingresso. Quanto sarebbe piaciuto tutto questo ai suoi genitori!
«Non mi piace molto il fagiano», fece Juliet quando Teddy disse qualcosa a proposito del minuscolo pezzetto di carne nel suo piatto. «E non mangio mai patate». Però si versò nel piatto una sconsiderata quantità di salsa.
Gerald si divertiva immensamente. All’inizio era stato restio ad andare, ma si era accorto che Polly ci teneva molto e a lui piaceva accontentarla tutte le volte che poteva. La guardò adesso che parlava con Archie Lestrange, il marito della sua migliore amica, per cui aveva avuto una cotta da giovanissima. «Era così buono con noi. Ci trattava come delle adulte anche se non lo eravamo affatto. Gli volevamo molto bene perché ci ascoltava, ci prendeva sul serio e poi ci faceva ridere. Era divertente quasi quanto zio Rupe», gli aveva raccontato.
Erano tutte belle donne, ma nessuna come Poll. I suoi capelli ramati non erano più brillanti come un tempo e anche la sua figura non era più così sottile, ma la maturità le donava e qualsiasi cosa facesse, dar da mangiare a un neonato, pulire la casa, occuparsi della vecchia Nan, la sua bellezza era sempre in primo piano. Intercettò il suo sguardo e lei gli mandò un bacio. Tutti i vestiti diventavano eleganti addosso a lei: stasera era toccato a una lunga gonna di lana e a una camicetta di seta rossa. Gerald si sentiva grato per la sua semplice presenza. La gratitudine gli era sempre riuscita bene.
* * *
«Che ne direbbe, Miss Smallcott, di venire a cena nel mio salottino? Tonbridge ha già mangiato, perché ha l’ulcera, saremmo solo lei e io».
E andarono nella saletta riservata dove Tonbridge aveva acceso un bel fuoco. Mangiarono del pasticcio di pesce, e la cena fu un tale successo che al momento del dessert, accompagnato da una tazza di tè forte, si rivolgevano l’una all’altra col nome di battesimo, Mabel e Edith. Mabel si era spinta a spiegare all’amica che in condizioni normali non si sarebbe mai sognata di lavorare in pantofole, ma che era in attesa di sottoporsi a un’operazione e nel frattempo proprio non riusciva a stare in piedi tutte quelle ore con le scarpe. Quanto a Edith, aveva confidato alla cuoca che ultimamente aveva dei vuoti di memoria e che Milady le aveva detto di non farsene un cruccio, che era solo l’età. «Non che io le abbia detto quanto anni ho! È una cosa che non dico a nessuno». Evitò di aggiungere che, se non lo faceva, era anche perché non ne aveva la più vaga idea. La serata ebbe fine perché Edith doveva andare a controllare se Spencer si era svegliato. Chiese a Eileen di accompagnarla negli appartamenti di Milady, perché non ricordava dove fossero. Eileen, che aveva cenato da sola in cucina e stava lavando i piatti da un’ora buona, l’accompagnò. Spencer era sveglio e urlante e Lord Fakenham lo teneva in braccio camminando su e giù per la stanza. «Prendilo tu, Nan, intanto che vado a chiamare sua madre».
Nan prese il piccolo, che le sorrise brevemente prima di tornare a dedicarsi con tutto se stesso a una vibrante richiesta di cibo.
L’apparizione di Polly diede nuovo slancio alle sue grida, ma quando lei si sedette in poltrona e lo prese in braccio, il pianto cessò istantaneamente. Aveva quello che voleva.
«Nan cara, va’ a letto. È molto tardi». E siccome la tata esitava, Polly aggiunse: «Gerald, accompagnala tu. È la quarta porta a sinistra... mostrale anche dov’è il bagno!», aggiunse mentre uscivano.
Rimasta sola col suo bambino, si lasciò andare al sentimento di adorazione che era convinta di non dare a vedere agli altri. Gli occhi del piccolo, che erano passati da un azzurro ardesia al marrone come quelli di suo padre, si allacciarono ai suoi pieni di fiducia; i pochi capelli d’oro ramato erano umidi per l’agitazione e glieli scostò dolcemente dal viso. «Sei il bambino più bello, più perfetto che esista... ti voglio tanto, tanto bene».
Si rendeva conto che stava tardando a svezzarlo, ma faticava a rinunciare a quella speciale forma d’intimità: era il suo ultimo figlio, perciò non avrebbe avuto altre occasioni.
* * *
«Ma se lo vogliamo tutti, è più probabile che nevichi!», fece Harriet. «Che bello sarebbe se dicessimo “Fa’ che nevichi” e subito nevicasse... come con Dio, no?». Bisognava sempre tenere duro con le gemelle, perché erano in due ed erano d’accordo su tutto.
Eliza e Jane avevano le trecce e se ne stavano rannicchiate nei sacchi a pelo. Lo spazio destinato a Laura era vuoto perché, avevano scoperto, lei aveva voluto dormire con Georgie. Era una vera ingiustizia e tutte convennero che Laura era una bambina molto viziata. «Del resto è troppo piccola per stare con noi», disse Eliza. «Io per esempio spesso a letto leggo, lei invece non è capace di leggere senza l’aiuto di un adulto. Anche Andrew è insopportabile. Secondo me i bambini piccoli sono un vero strazio. Io quando mi sposerò non ne avrò. Aspetterò che abbiano almeno sette anni prima di prenderli con me».
Harriet era sbigottita. «Eliza, non puoi tenerti nella pancia un bimbo di sette anni! Esploderesti come un pallone». Non riuscì a reprimere una risatina lievemente isterica.
«Gesù, Harriet, certo che no! Lo avrò nei tempi giusti e lo darò in custodia a qualcuno finché non avrà un’età accettabile».
Restarono in silenzio per un po’, mentre Harriet mandava giù il rospo di essere stata trattata con tanta spocchia dalle cugine. «Restiamo sveglie ad aspettare Babbo Natale?», domandò timidamente.
Vide le gemelle scambiarsi un’occhiata. «Credo sia meglio se ci mettiamo a dormire», disse Jane, e poi aggiunse gentile: «E non stare a preoccuparti per il parto. Capisco che, non vivendo in campagna, tu non sappia molto di queste cose. Vuoi leggere ancora, Lizzie?».
«Direi di no». Chiuse il libro di scatto. Aveva solo fatto finta di leggerlo. Erano stanche: poiché si erano sentite male in macchina, Nan le aveva fatte mangiare poco a cena e poi avevano fatto il bagno.
Eliza spense la luce e disse: «Io mi sciolgo la treccia. Nan me l’ha fatta troppo stretta».
«Io pure. Sei fortunata ad avere capelli così belli folti, Harriet. Noi invece li abbiamo troppo sottili».
Harriet assaporò nel buio il complimento. Nessuno gliene aveva mai fatto uno così grande. Decise di non dimenticarlo per tutta la vita.
* * *
Roland, dopo aver finito di sistemare le lucine natalizie con soddisfazione di tutti, prese la sua cassetta degli attrezzi e disse che se ne andava a letto. Nella stanza dei giochi trovò Teddy, Simon, Tom e Henry che cercavano di mettere dischi su un apparecchio che doveva risalire all’anteguerra. Uno di loro armeggiava poi con una radio da cui uscivano suoni gracchianti alternati a frammenti isolati di musica jazz. «Non facciamo troppo chiasso», disse uno dei quattro.
«Roland saprà di certo cosa fare», disse Simon guardando impotente il grammofono.
Roland pensò che era meraviglioso sentirsi così utile e aggiornato.
Juliet e Louise si erano annoiate ed erano andate a letto presto e ora si stavano scambiando importanti confidenze: Louise su Joseph e Juliet sul suo nuovo grande amore. Molto dignitosamente, dividevano in modo equo il tempo da dedicare a Joseph e quello da dedicare a Tarquin, il tutto mentre compivano con cura le complesse operazioni necessarie a pulire e nutrire la pelle in vista dei rigori della notte. «Tarquin frequenta una scuola di recitazione. Ha una borsa di studio, perciò deve essere bravissimo! La mia migliore amica della vecchia scuola mi ha portato a vedere una loro commedia, a metà semestre, dove lui interpretava un uomo vecchissimo. Io credevo che fosse vecchio davvero, ma poi siamo andate a salutarlo mentre si levava il cerone e non era vecchio affatto! Ha vent’anni. L’età perfetta per me. Così ci siamo innamorati. Lui dice che dovrei fare l’attrice anch’io. Mi piacerebbe molto di più che andare in Francia... lui dice che fare la modella è una perdita di tempo... oh, scusami! Tu fai la modella... ma per te non vale perché tu lavori a livelli alti, no?». Adesso che erano sole aveva smesso di sforzarsi di pronunciare strascicato, e il lieve rossore esaltava la sua bellezza.
«Oh, sta’ tranquilla! Non mi offendo. E poi è vero che è una perdita di tempo. Dovrei trovare qualcosa di più interessante da fare».
* * *
In salotto, gli adulti erano intenti a riempire capienti calze da golf e a sistemare gli altri regali sotto l’albero. Gerald era tornato per dire che Polly aveva messo a letto Spencer e si sarebbe coricata presto anche lei. «Manca qualcuno?», domandò Rachel.
«Manca Lydia perché aveva uno spettacolo della sua compagnia di repertorio», rispose Villy. «L’ho sentita al telefono prima di partire. Vi saluta tutti».
«Wills è andato a stare dalla famiglia della sua fidanzata. Del resto è giusto», disse Hugh, però sembrava rattristato.
«Be’», s’inserì Rupert. «Credo che la scusa di Neville le batta tutte. Sentite qua». Si cavò di tasca un biglietto e lo lesse. «“Mi dispiace ma non potrò partecipare. Vado a Cuba per lavoro e probabilmente per sposarmi”».
«Oddio!».
«Il “probabilmente” è proprio nel suo stile. Non ne ho parlato a cena perché non sapevo che effetto avrebbe fatto a Juliet. Si è presa una cotta per lui».
«Le è passata», si affrettò a precisare Zoë. «Adesso ha trovato un attore di cui essere innamorata».
«Bene. Finiamo queste calze e andiamocene a dormire».
Così poco dopo si avviarono in fila per le scale reggendo mucchi di calze crepitanti. Furono Gerald, Archie e Rupert a distribuirle nelle varie stanze.
* * *
Clary ricordava bene i tempi in cui fingeva di dormire tendendo l’orecchio ai rumori in corridoio mentre gli adulti depositavano le calze nelle camere. Louise e Polly finivano per addormentarsi, ma lei – soprattutto negli anni della guerra, quando papà era disperso – apriva appena gli occhi per vedere chi era a consegnare la sua. A quei tempi il salotto era territorio proibito anche per lei: quella sera invece lo aveva osservato con attenzione e con occhio adulto. Le vecchie tende che zia Rachel aveva voluto con forza, di chintz verde scuro stampato a rose bianco panna, erano ormai lacere: quando le si tirava bisognava fare attenzione a non allungare gli strappi. I divani e le imbottiture delle sedie erano lustri e consumati. Il tempo inoltre aveva annerito i paralumi che erano ormai quasi color caffè, mentre il vasto tappeto che ricopriva la stanza era costellato di strappi pericolosi anche se ormai familiari a tutti.
Sperava tanto che la sua commedia tornasse nei teatri londinesi nel nuovo anno. Finora non aveva guadagnato molto, ma di recente era stata contattata da un agente che si era proposto di rappresentarla. A preoccuparla di più era il fatto di non sapere cosa scrivere adesso. Diverse volte si era messa a comporre una nuova commedia, ma era riuscita a produrre solo frammenti sconnessi che non si erano mai evoluti in un progetto completo. Non vedeva l’ora di trasferirsi da Rupert e Zoë e aveva deciso di rimandare il problema della scrittura a dopo il trasloco. Adesso la cosa importante era dire addio a Home Place. Lei e Archie erano i membri più fortunati della famiglia: ad avere avuto la peggio erano Hugh, Edward e Rachel, e quest’ultima era quella che aveva di fronte a sé le prospettive più buie. Il pensiero di Rachel sollecitava la parte cupa della sua immaginazione. Fantasticava di perdere Archie, come Rachel aveva perso Sid, e di non avere Bertie e Harriet e di non possedere nessuna qualifica che le garantisse un impiego decente, e poi di vedersi togliere ogni fonte di reddito ed essere costretta a...
«Perché stai piangendo?».
Glielo disse.
«Mia cara, devi essere una donna incredibilmente felice se ti devi inventare le cose per piangere. Io sto benissimo e i bambini pure. Adesso inoltre sei un’autrice di teatro. Certo, dobbiamo pensare anche agli altri, ma ora, come ha detto Rachel, godiamoci il Natale. Adesso ti prenderò tra le mie braccia sanissime e tu ti farai una bella dormita».
* * *
Rivers, che stava sonnecchiando nell’incavo del collo di Georgie, si svegliò immediatamente quando Hugh entrò con le calze. Aveva imparato a stare giù se appariva qualcuno che non fosse Georgie, e rimase buono buono sotto la coperta finché l’intruso non fu uscito. Non aveva intenzione di passare la notte in quella fredda gabbietta, e dato che Hugh non aveva acceso la luce non si accorse che era vuota. Ormai sveglio, sentì un rumorino invitante e scoprì con gioia un biscotto secco sotto il cuscino, a pochi centimetri dai capelli di Georgie. Lo rosicchiò pian piano, perché non voleva svegliare il suo amico.
* * *
Rachel si spogliò in fretta. Era intirizzita: aveva le mani violacee e i piedi ridotti a due blocchi di ghiaccio. Continuava a pensare a come tutto stesse andando nel migliore dei modi, a quanto era buffa Laura e adorabile il piccolo di Polly (i neonati l’avevano sempre incantata); pensava a che lavoro magnifico aveva fatto Mrs Tonbridge per sfamare tutta quella gente, all’aiuto e alla disponibilità dei suoi fratelli e di Archie, alla calorosa accoglienza che avevano riservato a Villy, e poi a com’era stato bravo Roland con le lucine per l’albero e alla ferma determinazione di Zoë, Jemima, Clary e Polly nel dare una mano alla servitù... a come tutti si volessero bene. Allora le venne in mente Edward, del quale non aveva notizie, e si ritrovò a sperare che Diana decidesse di non venire con lui al pranzo di Santo Stefano. Per Villy sarebbe stato un po’ più facile.
Si coricò con due borse di acqua calda e ben presto le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance. Si concesse solo un breve singhiozzo prima di imporsi il controllo: era passato un anno esatto dalla morte di Sid.
* * *
«Io non credo che dicesse sul serio, caro. Conosci Neville, gli piace scandalizzare la gente».
«Non è che mi dispiace se si sposa. Non mi piace il modo in cui ce lo ha detto. Si diverte a lanciare le bombe. E comunque, poteva usare un po’ di tatto nei confronti di Jules».
«Jules adesso è innamorata di un altro. Crede che non lo sappia e io ben volentieri glielo lascio credere».
«Di chi?».
«Uno studente di recitazione. Ma tu non lo sai, bada bene».
«D’accordo». Si era infilato a letto. «Sbrigati, cara. Fa un freddo...». Quanto ci metteva! Per ingannare l’attesa, Rupert aveva preso l’abitudine di leggere, così s’immerse rassegnato nei racconti di ˇCechov in edizione economica.
* * *
Jemima si svestì in pochi secondi. Hugh invece tendeva sempre a prendersela comoda. Stasera però tardava più del solito: era sparito nel corridoio che portava in bagno, erano passati quasi dieci minuti e non era ancora tornato. Lei uscì dal letto e andò a vedere.
Lo trovò seduto sullo sgabello, e si voltò subito al suo ingresso. Tremava. «Ho avuto un problema», le disse con la voce malferma. «Mi è caduto lo spazzolino e quando mi sono chinato per prenderlo era troppo lontano. Ho avuto un giramento di testa... non ci sono arrivato... non sono ubriaco», le disse guardandola con occhi colmi di spavento.
Gli circondò le spalle con le braccia. «Sei solo stanco. Chi se ne importa dello spazzolino. Vieni con me». Gli parlava in tono tranquillo, ma non si sentiva tranquilla affatto.
* * *
La notte nevicò: fiocchi grossi come piume che poco dopo iniziarono a depositarsi. Gli alberi spogli ne furono presto gravidi, e sul terreno si formò uno strato sottile come glassa che col passare delle ore diventò uno spesso tappeto abbagliante. Le ragnatele si riempirono di cristalli, il cielo era del colore delle perle sporche e c’era odore di neve.
Simon decise di pulire i camini e accendere i fuochi e dovette spazzare via la neve accumulatasi sui ceppi prima di portarli in casa con la carriola. Oltre a lui, era in piedi solo Eileen, che gli era grata oltre ogni dire per essersi sobbarcato quel compito al suo posto. Gli mostrò dove trovare giornali e legna minuta e poi gli offrì una tazza di tè. Con quella scusa ne bevve una tazza anche lei, che ne aveva un gran bisogno con quel gelo. Lo presero in cucina, senza sedersi, poi Simon rastrellò l’interno della stufa ed Eileen si mise a contare le posate prima di apparecchiare le due tavole in sala da pranzo e nell’atrio.
A Simon piaceva governare il fuoco. Ne aveva sentito la mancanza la sera prima, con Teddy che voleva parlare sempre di ragazze e in particolare della sua. «Tu non ce l’hai, una ragazza?», gli aveva domandato, e Simon aveva detto di no, che non l’aveva. Poi però era arrossito perché si era ritrovato a pensare al ragazzo che faceva da garzone al giardiniere di una tenuta vicina, del quale si era follemente innamorato. Lui e Roy si erano conosciuti in un vivaio alcuni mesi prima, e in quell’occasione avevano parlato soltanto di alberi. Roy doveva caricare sul camion delle piante da frutto, mentre Simon faceva acquisti per il viale d’ingresso. Roy era di Glasgow, ma suo padre era un italiano, un prigioniero di guerra che aveva preso moglie in Inghilterra. Finita la guerra, il padre di Roy non era voluto tornare in Italia e la fattoria dove aveva lavorato come prigioniero gli aveva offerto la possibilità di restare. Poi aveva fatto la corte a Maggie, una giovane cuoca, ed era così che era nato Roy. Era un ragazzo bellissimo, con folti riccioli scuri, occhi marroni dallo sguardo intenso e una pelle olivastra, liscia, che sembrava immune a qualunque agente esterno, compreso il tempo. Decisero di andare al cinema insieme nel loro giorno libero. Si sedettero vicini nella sala buia, e Simon non faceva che occhieggiare Roy, il suo profilo irresistibile. Dopo un’ora circa, Roy posò una mano sull’erezione di Simon e la tenne lì.
Poi, emesso un piccolo grugnito di soddisfazione si chinò a baciarlo sulla bocca; Simon non seppe controllarsi e avvampò di vergogna. Per tutta risposta Roy gli prese la mano e lo condusse fuori dal cinema, al suo camion. Il retro era ricoperto da un telone di plastica. Roy sollevò il lembo dell’ingresso e saltò dentro. Tese una mano a Simon per aiutarlo a salire. Dentro era buio e questo, chissà perché, li spingeva entrambi a bisbigliare.
«Non l’hai mai fatto prima?».
No, non l’aveva mai fatto.
Roy aprì uno spiraglio nel telone per far entrare un po’ di luce. Simon allora si accorse che il vano di carico del camion era pulito e attrezzato con un sacco a pelo. Gli venne il sospetto che Roy avesse pianificato tutto quanto e la cosa aumentò la sua eccitazione. Roy intanto si stava spogliando in fretta, e presto fu nudo davanti a Simon. Sorrideva malizioso, invitante. Poi, con un movimento agile ed elegante, s’inginocchiò di fronte a lui e prese a spogliarlo. «Bene», disse quando anche Simon fu nudo. «Hai un bel corpo».
«Non come il tuo».
«No. Il mio è il più bello. Ma tu hai un bell’uccello. Lasciami fare...».
Quelli che seguirono furono i minuti più belli della vita di Simon. Dopo un primo convulso rapporto, a tratti estatico e a tratti doloroso, Roy si allontanò. «Ho bisogno di una sigaretta. Pausa». Nel dirlo prese un pacchetto di sigarette e se ne accese una. La offrì anche a Simon, che non fumava ma disse di sì perché voleva fare tutto quello che faceva Roy.
«Ti amo», gli disse mentre stavano supini uno accanto all’altro sul sacco a pelo; la sigaretta lo faceva tossire e ci rinunciò. «Ti amo», ripeté sperando che Roy gli dicesse che l’amava anche lui. Ma non lo disse. Spense la sigaretta.
«Ci divertiamo insieme. Non ci serve nient’altro. Del buon sesso. E vedrai che per te migliorerà ancora... Ma adesso vieni qua».
S’incontrarono altre volte, poi Roy disse che andava in Scozia per il Natale e, cosa più importante, il Capodanno. E Simon era lì, nella casa della sua infanzia che adesso gli toccava salutare per sempre. Amava Roy con tutto se stesso. Fantasticava che al ritorno Roy gli dichiarasse il suo amore. Poi avrebbero vissuto insieme e messo su un vivaio. Un sogno che lo riempiva di beatitudine, perché per Simon era ancora impossibile che un tale grado di intimità fisica con una persona potesse esistere senza amore.
* * *
«Secondo me i libri non dovrebbero essere considerati dei veri regali». Georgie e Laura si erano avventati appena svegli sulle loro calze e adesso stavano gustando i mandarini che vi avevano trovato. «Io dico che va bene tutto, ma i libri proprio no». Poi ci pensò un attimo e aggiunse: «Be’, in effetti nemmeno la sabbia. O la terra». Dentro di sé era felicissima dei suoi regali. «Era impossibile che ci trovassi un animale vero. Sarebbe morto nella notte. Ci sono un sacco di cose utili per il tuo zoo. Certo, è un peccato che non c’è un libro su come prendersi cura di un pesce rosso», osservò con intenzione. Aveva l’impressione che Georgie non fosse adeguatamente riconoscente per il suo splendido regalo.
«So benissimo come prendermene cura. Le ciotole per i conigli e i topolini sono molto utili».
«E anche il coltello e la torcia. E quel quaderno con la scritta: “Diario del mio zoo”. Quello è proprio un bel regalo!».
«Attenta, Laura! Cominci a parlare come un’adulta».
«Davvero? Ma che dici, Georgie! Non ci pensavo proprio». Stava gongolando segretamente.
Rivers, poco interessato ai mandarini, si era rifugiato nel pigiama di Georgie per stare al calduccio.
Laura si alzò per vedere se fuori nevicava e, passando davanti alla gabbietta vuota di Rivers, notò una cosa. «Ma guarda! Una calza piccola piccola, tutta per Rivers!».
«Dammela!». Georgie era al colmo della gioia.
Si trattava di un calzino appartenente a Laura, che si mise seduta sul bordo del letto mentre Georgie l’apriva. C’erano un sacchetto di confetti al cioccolato, un osso di pollo, una bellissima, minuscola spazzola con un pettinino per la sua pelliccia, una scatoletta con biscotti misti, un sacchetto con dei ritagli di prosciutto. «Quante belle cose!», disse Georgie. Quasi rideva dalla contentezza. «Guarda, Rivers!».
Rivers era emerso dalle profondità del pigiama coi baffi vibranti per l’odore del prosciutto e del pollo.
«Gli do il pollo per prima cosa, così noi possiamo mangiarci i confetti. A lui non piacciono molto».
Zoë e Jemima, entrando nella loro camera per svegliarli, li trovarono così.
* * *
«Allora, ecco come si svolgerà la giornata», disse Polly. «Ora vi vestite e andate a fare colazione. Poi papà vi porterà a fare una passeggiata...».
La interruppe Andrew. «Io non voglio essere portato. Io passeggio benissimo da solo».
«Be’, oggi papà verrà con te. Lui non è mai stato qui e tu gli farai da guida».
«Ma nemmeno lui conosce questo posto», puntualizzò Eliza.
«Be’, lo esplorerò oggi. Ah, quanto vorrei avere un cane come regalo di Natale! Sarebbe il mio cane e voi non c’entrereste niente». Lui e Bertie si erano scambiati molte delle cose che avevano trovato nelle calze, e l’irruzione delle bambine li aveva disturbati.
Polly entrò nella stanza con le braccia cariche di vestiti e li mise sul letto di Andrew. «E dopo la passeggiata ci sarà lo scambio dei regali in salotto. E poi il pranzo di Natale. Dopo pranzo faremo una gara per il più bel pupazzo di neve».
In quel momento arrivò Clary, con la vestaglia di Archie perché aveva dimenticato di mettere in valigia la sua. «Devi indossare esattamente quello che ti ho portato», stava dicendo Polly ad Andrew, «altrimenti vado a chiamare Nan».
La minaccia si rivelò efficace, perché Andrew fece esattamente quello che gli era stato detto.
* * *
Rachel si svegliò in tempo per la funzione delle otto e, mentre percorreva il sentiero innevato diretta alla chiesa, vide Villy che camminava nella stessa direzione, alcuni metri più avanti. In chiesa s’inginocchiarono una accanto all’altra e fecero la comunione insieme. Terminata la messa, Rachel le disse che aveva raccolto dell’elleboro per Sid. Non sarebbe durato ma era meglio di niente. Almeno sulla tomba della Duchessa c’erano ancora dei rametti di bacche. Rachel piantò i gambi dei fiori nella neve compatta e spazzò col taglio della mano quella posatasi sulla lapide. S’inginocchiò e chiuse gli occhi per dire una preghiera, che Villy non sentì. Quando si alzò, scosse un poco la gonna per liberarla dalla neve e prese il braccio di Villy. Era bello avere vicino qualcuno con cui non c’era bisogno di parlare. Mentre percorrevano a ritroso il sentiero, ricominciò a nevicare: grossi fiocchi che scendevano agili coprendo in fretta le loro impronte.
«I bambini saranno felici», disse Rachel.
* * *
«Va bene sulle cartoline di Natale, sì», borbottò Mrs Tonbridge. Stava friggendo otto uova in un’enorme padella, per la colazione degli adulti. Gli altri avevano avuto fiocchi di cereali o porridge e pane con burro e marmellata. «Ma se vuoi la mia opinione è solo una gran seccatura».
«Però è così bello», fece Eileen sognante.
«Tira fuori quel piatto dal forno, Eileen. Tu non c’entri niente con la neve». Fece scivolare le uova sul piatto che l’altra le porse e poi le separò con la spatola. I piedi avevano già cominciato a dolerle, ma presto avrebbe potuto mettersi a sedere con una bella tazza di tè, dato che i tacchini erano già farciti e stavano cuocendo in forno a fuoco basso. Chissà se Edith aveva voglia di raggiungerla in cucina per colazione... Ma Eileen tornò a informarla che la vecchia tata stava mantenendo l’ordine alla tavola dei bambini. Spencer era stato sistemato nel seggiolone e Nan gli porgeva la crema di cereali col cucchiaino, un lavoro per gente esperta, perché l’attenzione del piccolo era rapita dai molti giovani commensali. Se una particolare cucchiaiata non gli andava, si girava all’ultimo momento, tuffava le manine nella ciotola e poi le passava ben bene sul ripiano, spargendo la pappa in ogni dove. Si passò anche le dita sporche e appiccicose tra i capelli. Non aveva più fame, la crema di cereali non gli piaceva molto e in ogni caso, dato che era lì, era deciso a mangiare da solo come stavano facendo tutti gli altri. Alla fine, dopo aver insistito un po’, Nan gli pulì la faccia e gli diede un biscotto.
* * *
Roland si svegliò alla solita ora, quando tutti gli altri dormivano ancora sodo. Si erano messi a giocare a poker a notte inoltrata e gli avevano chiesto se voleva partecipare, ma lui era stanco e poi non era un gioco che conosceva bene. Cominciava a piacergli quel posto e si domandava come mai la mamma non avesse voluto trascorrervi i Natali precedenti. Il cibo era eccellente e tutti gli zii erano stati molto gentili con lui. L’unico piccolo neo era che, se fossero rimasti a casa, avrebbe ricevuto una calza, ma d’altra parte era felice di essere considerato troppo grande per queste cose. Si mise i suoi pantaloni di flanella e il maglione di lana che gli aveva fatto la madre ai ferri, e poi scivolò giù lungo la balaustra per andare a fare colazione.
* * *
«Scambiamoci un po’ d’amore natalizio», propose Archie. E così fecero, concludendo un attimo prima che Bertie facesse irruzione nella stanza per annunciare che Andrew era stato cattivissimo con lui. «Voleva la mia torcia per le sue esplorazioni, e quando gli ho detto che ci tenevo troppo per dargliela, me l’ha tolta di mano. È cattivo! Mi è antipatico».
«Vedrai che te la restituirà. E se ricordi bene, anche tu hai fatto una cosa del genere a Harriet. Perciò ora sai come ci si sente». Ma nel fargli questa severa morale, Clary lo abbracciava stretto. «Buon Natale, tesoro», e subito l’umore di Bertie migliorò. Poi lei disse che andava a vedere cosa stesse combinando Harriet ed esortò marito e figlio ad alzarsi.
* * *
Jemima aveva passato una gran brutta nottata; Hugh era crollato quasi subito dopo che l’aveva accompagnato a letto, mentre lei era rimasta sveglia, al buio, tra mille preoccupazioni. Aveva avuto un infarto? Se sì, era stato di lieve entità, ma poteva averne un altro, più forte, in qualunque momento. Era il caso di chiamare un dottore? Era possibile reperirne uno il giorno di Natale? Senza contare che Hugh si sarebbe infuriato se Jemima lo avesse chiamato a sua insaputa. Fu questo pensiero a farla desistere: tutti ne sarebbero venuti a conoscenza e Hugh si sarebbe arrabbiato perché detestava fare la figura dello smidollato, come diceva lui. E inoltre un gesto del genere avrebbe rovinato la festa non solo a lui ma a tutta la famiglia.
Perciò fu per lei un sollievo indicibile vederlo aprire gli occhi e mettersi su un fianco per baciarla: era il solito Hugh, che le sorrideva e le chiedeva cosa ne fosse del mostriciattolo.
«Non s’è ancora palesata. Credo che tu abbia un degno rivale, mio caro: Georgie».
«Be’, ecco, non so se sono disposto a contendermi il suo affetto con un topo».
In quel momento la porta si aprì di schianto e Laura si precipitò con un solo balzo su di lui.
«Oh, papà! Buon Natale! Ho portato i vostri regali, così potete scartarli subito».
«Com’era la calza?», le domandò Hugh mentre lei estraeva a fatica due pacchetti dalle tasche della vestaglia.
«C’era un libro, ma per il resto era perfetta. Pensa che anche Rivers ha avuto una piccola calza tutta per lui! Georgie era al settimo cielo!».
«Che libro c’era?», le domandò Jemima per accertarsi che almeno avesse letto il titolo in copertina.
«Si chiama Il leone, la strega e l’armadio. Ma a che mi serve, dico io? Non ho mai voluto essere una strega».
«Potrebbe tornarti utile se decidessi di volare a cavallo di una scopa».
Laura alzò gli occhi al cielo. «Ora, papà, siediti e scarta il tuo regalo». Si spostò in fondo al letto, dove si mise a gambe incrociate per godersi lo spettacolo.
Era una minuscola agendina di pelle rosa. «Ci puoi scrivere le tue cose di lavoro. Entra in una tasca e ha pure una matitina per prendere appunti. Dovrai rifarle la punta ogni tanto, ma ti presto volentieri il mio temperino, quando ti serve. Ti piace, vero, papà?». Era raggiante di generosità.
«È proprio quello che mi serviva. Non poteva esserci regalo migliore». L’abbracciò stretta, ma lei si divincolò perché doveva ancora dare a Jemima il suo pacchettino stropicciato. Il fazzoletto, ben lavato e stirato.
«Purtroppo è rimasta l’ombra di una macchiolina di sangue, perché mi sono punta mentre lo ricamavo, e non è andata via del tutto quando l’ho lavato».
«Tesoro, l’hai ricamato tutto da sola? È bellissimo!».
«È bello, eh? Ci ho fatto una J, così lo distinguerai facilmente dai fazzoletti di papà, o di Henry, o di Tom».
Jemima lisciò con le dita l’orlo di pizzo un po’ spiegazzato. «Non lo confonderò con nessun altro. Grazie per questo splendido regalo, piccola».
Seguì un silenzio, poi Laura disse: «E io?».
«Tu aspetterai l’apertura dei regali, prima di pranzo».
«Ma mamma! Manca ancora un sacco di tempo! Non puoi darmi almeno un piccolo indizio?».
«Sì», replicò prontamente Hugh. «È una cosa lunga e sottile, ottima per volarci sopra e fare i dispetti alla gente».
«Una scopa? No, papà, ti prego. Io non voglio andare a fare i dispetti alla gente».
«È una gioia sentirtelo dire. Papà ti prende in giro. Adesso vatti a vestire, tesoro. Diamo inizio alla giornata».
* * *
La giornata – quella giornata – procedette secondo l’ordine che Polly aveva comunicato ai suoi bambini. Per pranzo, un tavolino allungabile fu sistemato in fondo alla sala per i ragazzi e per Nan, la quale non faceva che augurare a tutti «cento di questi giorni». Come da tradizione, ci fu la febbrile attesa dei regali e la lieve segreta delusione per quelli non riusciti. Simon si offrì di portare i bambini a passeggio: desiderava tornare in quel punto vicino al torrente dove lui e Christopher avevano allestito il campo tanti anni prima. Non ne restava che qualche mattone annerito, e Simon rivolse un pensiero a Christopher nel suo monastero: chissà com’era il suo, di Natale.
Nel bosco, in un punto fitto di alberi in cui il manto nevoso era meno spesso, Harriet trovò dei bucaneve. Prima di tornare a casa fecero una battaglia a palle di neve. Georgie trovò una rondine morta sulla via di casa, una visione che lo turbò profondamente, e decise di preparare un sontuoso pranzo di Natale per gli uccelli.
«Che importanza ha?», interloquì Andrew. «Nelle spedizioni degli adulti muoiono congelate un sacco di persone». Le sue uscite non riscuotevano mai molta popolarità.
«E che cosa gli darai per pranzo?», volle sapere Laura.
«Prenderò qualcosa dai piatti degli adulti e chiederò qualche avanzo a Mrs Tonbridge. Puoi aiutarmi, se vuoi».
E lei, che aveva smesso da poco di piangere perché le avevano tirato una palla di neve in piena faccia, recuperò all’istante il buonumore.
* * *
Alla fine, quando il salotto fu ridotto a una distesa di carta lacera dove i regali rischiavano di perdersi, i bambini furono spediti a lavarsi le mani prima di mettersi a tavola. Una regola stupida, borbottò qualcuno, e gli altri si dichiararono d’accordo.
Jemima chiese a Villy di tagliare il tacchino. Era famosa per la sua bravura. «Ma non vorrà farlo Hugh?».
«Sì. Però è molto stanco e io preferirei evitarlo». Villy le lanciò una rapida occhiata e disse che per lei era un piacere.
Harriet donò a Rachel il mazzetto di bucaneve mezzi appassiti che aveva raccolto nel bosco (mentre infuriava la battaglia, se li era messi sotto il cappotto). «Ho pensato che potresti portarli a quella tua amica che è morta», disse, e Rachel, commossa, rispose che glieli avrebbe portati senz’altro.
«So che era spesso Villy a tagliare il tacchino a Natale, no?», disse Jemima a Hugh. «Ho pensato che sarebbe stato bello chiederle di farlo anche oggi». Hugh lo trovò un pensiero squisito e disse che Jemima era di una sensibilità straordinaria.
Furono Rupert e Archie a portare i tacchini in sala: erano troppo pesanti per Eileen, la quale li seguì a ruota reggendo i piatti con le verdure. Zoë e Jemima si occuparono di servire i cavolini di Bruxelles e il purè di patate insieme alla salsa per la carne, e Clary fece le porzioni al tavolo dei bambini, dove Spencer, dopo aver ingurgitato una quantità di carta velina superiore a quella che era in grado di sopportare, aveva vomitato una ragguardevole pozza variopinta e ora sedeva contrito ma signorile, osservando Nan che mischiava un uovo con del purè, il suo pranzo.
Ognuno si era messo qualcosa di elegante, e molti sfoggiavano i capi ricevuti in regalo dai propri cari, ma Louise e Juliet battevano proprio tutti, la prima con un abito scollato di velluto verde oliva, la collana di pietre dure appena avuta in dono e i capelli raccolti sulla nuca, la seconda con un vestito di raso giallo pallido che si era fatta comprare da Zoë per Natale e una collana di perle false che le descriveva ben cinque giri intorno al collo. Erano praticamente in abito da sera, ma avevano ragionato che, essendo il pranzo il culmine della festa, era anche il momento giusto per mettersi in tiro. Villy aveva indosso un vestito di velluto nero con la gonna lunga e un bolero di lustrini, scelto per l’occasione con l’aiuto di Louise. Non faceva acquisti da anni e per lei era stata una novità eccitante. Si era messa anche la collana di granati che le aveva regalato Edward quando aveva avuto Roly. Edward del resto sarebbe venuto l’indomani, con o senza Diana. La prospettiva non la gettava più in un inferno di angoscia e rancore come sarebbe successo tempo prima: era piuttosto curiosa di conoscere la donna che era riuscita a impalmare Edward e che aveva fatto di lei una martire. Anche se ormai sapeva che il suo martirio dipendeva solo da lei... i martiri non sono un bella compagnia per nessuno, le aveva detto una volta Miss Milliment. Aveva aggiunto che quello che conta è come uno reagisce a ciò che la vita gli mette davanti. Perché è su questo che si ha un po’ di libertà. Lei cominciava a capirlo solo adesso.
Hugh aveva regalato a Jemima un twin set giallo canarino, una collana di perle e un cappello di pelliccia. «E se non ti piacciono», aveva detto, «puoi sempre cantare quella canzone di A.P. Herbert: “Riprenditi il tuo visone e le tue perle. Io non sono quel tipo di ragazza”».
Per Jemima era stato un sollievo vederlo così allegro, e rispose: «Non ci penso neanche. Io sono proprio quel tipo di ragazza, invece».
Tutti i regali di Rachel avevano invece lo scopo di tenerla al caldo. Un bellissimo cardigan, due sciarpe, un cappello e delle pantofole di montone, un paio di mezziguanti e una giacca da notte imbottita (che però le era sembrata troppo grande). Per il pranzo si era messa il cardigan nuovo sopra il suo miglior abito di lana blu, e aveva già caldo.
Avevano appena finito di mangiare il dolce che i bambini già scalpitavano per andare fuori a costruire i pupazzi di neve. Teddy e Simon si offrirono come capisquadra e scelsero a turno gli altri. Entrambe le coppie di gemelli furono divise, e Andrew fu scelto per ultimo. «Stavo pensando di non giocare», disse a un certo punto, ma nessuno gli diede retta.
I due capitani spiegarono che lo scopo non era realizzare dei semplici pupazzi, ma dei personaggi, magari con una professione. Fioccarono le proposte. Un ladro, un pirata, un sultano cattivo, un pagliaccio, un esploratore. «Chi farà da giudice?», domandò Henry. Furono scelti Rupert, Archie e Gerald. «Nessuno della mia famiglia!», si lamentò Laura. «Non è giusto!».
«Ora basta protestare», disse Simon con fermezza. «Ogni pupazzo può avere al massimo tre sostegni, chiaro? Adesso è meglio cominciare. Fra mezz’ora non ci sarà più luce».
Ognuno fece del proprio meglio e in poco tempo presero forma un pirata con la benda nera su un occhio e la bandana in testa e un esploratore con gli occhialoni e la pipa in bocca. I giudici si riunirono in consiglio e con sofferta decisione, così dissero, dichiararono vincitore il pirata. Non mancarono le discussioni.
* * *
Hugh e Rivers trascorsero un pomeriggio di relax nelle rispettive stanze.
Dopo il tè ognuno si dilettò coi propri regali. Harriet aveva ricevuto dai suoi genitori un grosso puzzle, una riproduzione di When Did You Last See Your Father? Ad Harriet piacevano molto i puzzle e questo, oltre a essere enorme, aveva le tessere di legno vero.
Roland aveva costruito un impianto di filodiffusione per Tom e Henry, che ne erano stati debitamente impressionati.
Louise e Juliet passarono il pomeriggio di fronte al televisore di Mrs Tonbridge, la quale dopo pranzo si era ritirata nel suo appartamento per mettere i piedi a mollo nell’acqua calda.
I pokeristi ripresero da dove si erano interrotti la notte prima e andarono avanti fino all’ora di cena.
Gli adulti sprofondarono sulle poltrone coi libri ricevuti in dono oppure ascoltarono il disco che Roland aveva regalato a Villy: Horowitz che suonava il terzo concerto per piano di Rachmaninov. «Ah, che apertura magnifica!», aveva esclamato Rupe. «Quasi come le sonate postume di Schubert».
Le quattro mogli misero in ordine il salotto e Simon portò dentro della legna prima di unirsi al tavolo del poker. Laura e Georgie andarono di sopra a dar da mangiare a Rivers, che si mostrò felice di vederli ma anche indispettito che ci avessero messo tanto. «Non ti sarebbe piaciuto fare i pupazzi di neve», gli disse Georgie a mo’ di scusa, al che Rivers, dopo avergli morso l’orecchio con più forza del solito, si mise a fare un gioco in cui lui correva come un matto per la stanza e Georgie doveva acchiapparlo: siccome non c’era gara, il topo ritrovò in fretta il suo buonumore. Laura stava un po’ in disparte: era talmente orgogliosa dell’orologio da grandi che la mamma e il papà le avevano regalato che non riusciva a smettere di guardarlo estasiata. «Dai, chiedimi che ore sono», continuava a dire a Georgie, il quale a un certo punto ne ebbe abbastanza e se ne andò con Rivers.
Poi si sparse la voce che zio Rupert faceva delle scenette divertentissime. «Chiediamogli di farcene qualcuna!», suggerì Harriet.
«Per esempio?», domandarono Eliza e Jane.
«Oh be’, un cane che vomita, un leone marino che mangia... potremmo tirargli dei vecchi calzini... e poi un piccione che si posa su un ramo troppo sottile... Cose così».
«Dai, andiamo!». E si misero in marcia verso il salotto.
Sulle prime Rupert non volle saperne, ma i bambini insistettero tanto che alla fine l’ebbero vinta. Disse che avrebbe fatto solo due scenette, e furono scelti il cane che vomita e il leone marino. Clary e Polly si scambiarono un’occhiata: da piccole amavano quelle esibizioni e risero anche adesso.
Finito lo spettacolo, le madri decretarono la ritirata. «Non c’è molta acqua calda. Farete il bagno a gruppi. I piccoli per primi». I bambini si levarono compatti con aria di sfida, cercando di sembrare il più alti possibile.
«Laura, Georgie, Harriet, Bertie e Andrew. Andiamo». Se ne incaricarono Zoë e Jemima.
«E la cena?», domandò Andrew esaurite le altre obiezioni.
«Avrete una mela ciascuno, a letto. Per oggi avete mangiato a sufficienza».
Una volta che ebbero lavato e messo a letto i piccoli e che i padri ebbero letto loro qualche pagina, finalmente gli adulti poterono rilassarsi un poco in salotto. Edward telefonò per far sapere che l’indomani non avrebbe potuto fermarsi a pranzo, ma che sarebbe venuto volentieri verso mezzogiorno per un aperitivo. Fu Rachel a rispondere al telefono e, quando tornò ad annunciare la novità agli altri, guardò Villy preoccupata. Ne ricevette in cambio un sorriso tranquillo. «Diana ci sarà?», domandò. Rachel disse che Edward non glielo aveva detto. «Sembrava di fretta», aggiunse.
Per il resto fu una serata tranquilla. Gerald annunciò di aver portato dello champagne e di averlo messo nella neve per ogni evenienza, e propose di berlo quella sera. La proposta riscosse immediato successo. Rachel annunciò che per la cena si sarebbero arrangiati con degli avanzi, visto che per Mrs Tonbridge era stata una giornata faticosa.
Clary si offrì di andare in cucina a dare una mano e trovò Mrs T, come la chiamava lei, seduta nella sua saletta coi piedi su una sedia, a guardare la televisione sgranocchiando cioccolatini Black Magic. Quando Clary le disse che quella sera avrebbero mangiato dei sandwich in salotto e che lei poteva considerarsi libera, la cuoca si rese conto di quanto era stanca. Alcuni minuti dopo, quando Miss Clary fu uscita coi vassoi, lei si preparò un sandwich con del tacchino, mise su l’acqua per il tè, ficcò in una sporta tutti i suoi regali, se ne andò a casa e salì direttamente al piano di sopra. Aveva in programma di mangiare a letto e cominciare uno dei romanzi di Barbara Cartland che le aveva regalato Miss Rachel per Natale. Quale modo migliore di passare la serata?
Simon, Tom e Henry lasciarono il tavolo da gioco per scendere a fare rifornimento. «Quanti sandwich a testa?», s’informò Henry. Tre, rispose Jemima. «Intendi tre di questi triangolini o tutta la fetta?».
Hugh intervenne per dire che potevano prendere tre triangoli a testa e qualche tortina di mele, e che doveva bastargli. Siccome era Hugh a parlare, non fecero obiezioni. Quando Jemima osservò che ne stavano facendo incetta, Tom disse che ne prendevano per cinque persone, perché Louise e Juliet si erano unite al gruppo dei giocatori. «Non state in piedi tutta la notte», disse poi Jemima con poche speranze di essere ascoltata: sapeva che sarebbero rimasti in piedi per tutto il tempo che volevano.
Rimasti soli, senza i giovani intorno, gli adulti si dissero che era stata proprio una bella giornata e che Rachel aveva organizzato tutto in modo magnifico. Si aggrappavano al momento presente, ma per alcuni di loro diventava ogni minuto più difficile respingere il pensiero, oscuro e pressante, di un futuro incerto. Stavano per lasciare il luogo che avevano considerato casa per tanti anni. Ancora pochi giorni e tutto sarebbe finito. Niente sarebbe mai stato più lo stesso.
* * *
Per Polly fu un sollievo dover andare di sopra a mettere a letto Spencer. Trovò il piccolo in camera sua con Nan, la quale tratteneva a fatica un pianto disperato. «Non so dove sono, Milady! È tutto il giorno che non mangio e c’è una donna che non conosco in cucina. Non credo che questa sia casa mia, perché il letto è messo al contrario. Non riesco nemmeno a lavorare all’uncinetto!».
Polly la fece sedere sul letto e le spiegò con calma che sarebbero tornati a casa tra pochi giorni. Nan si agitava molto quando dimenticava come si lavora all’uncinetto, cosa che ormai le accadeva sempre più frequentemente.
«Dopo che avremo messo a letto Spencer, ti preparerò un bel caffè d’orzo. E quando sarai pronta per andare a dormire, faremo un po’ di uncinetto insieme. Ma guardalo, Nan? Non è adorabile?».
La vecchia tata si rasserenò un poco e si asciugò il viso con un fazzoletto di stoffa.
«Abbiamo mangiato tutti insieme in sala da pranzo. Hai dato a Spencer un ossicino da rosicchiare e lui era così contento! Sei tanto cara con lui, Nan. Non so cosa farei senza di te».
Le frasi affettuose sortirono il loro effetto, e Polly vide la memoria tornarle a poco a poco.
* * *
Quando fu finalmente a letto con Gerald (non era tornata in salotto con gli altri perché le ci era voluta una vita a preparare il caffè d’orzo e mostrare a Nan come usare l’uncinetto), Polly disse che la famiglia stava reagendo con molta dignità ai propri rovesci. «Sono persone meravigliose», replicò lui. «Li ammiro molto. Soprattutto tua zia. Hugh mi ha spiegato la sua difficile situazione».
«Lo so. E nessuno ha i mezzi per aiutarla».
«Stavo pensando... a te piacerebbe se venisse a stare da noi?».
«Oh, caro! Sei talmente buono e generoso! Oh, Gerald!». Si voltò verso di lui e gli bagnò il viso di calde lacrime.
«Però sono noioso. È un rischio che si corre, con i benintenzionati. Un pericolo reale».
Lo baciò.
«Lo vedi?», commentò lui subito dopo. «Mi hai baciato e non mi sono trasformato in un principe. Sono rimasto il vecchio ranocchio di sempre».
«Il mio ranocchio preferito», disse lei. «Attento al seno... mi fa un po’ male».
* * *
Di sicuro l’indomani sarebbe andata a caccia e non le sarebbe passato altro per la testa, pensò Teddy. Il commiato con Sabrina non era stato dei migliori ed era quasi contento di non averla intorno per qualche giorno. A poker aveva vinto Roland. Avevano giocato con le fiches, ma le avrebbero convertite in denaro vero una volta terminata l’ultima mano. A Teddy era piaciuta l’atmosfera cameratesca fra cugini. Adesso fantasticava di ottenere il brevetto di pilota e procurarsi qualche impiego interessante, magari in Africa. L’idea lo elettrizzava.
* * *
«Adesso sarà già a letto, nello spogliatoio. Non dorme più con lei. Mi ha raccontato che lei gli ha chiesto di fare l’amore due volte negli ultimi quattro anni e tutt’e due le volte è rimasta incinta. Lui le avrà fatto regali costosi, e pure lei a lui. Hanno come ospite sua sorella e sarà di certo un bel Natale in famiglia. Senza di me». Louise chiuse la collana nel suo cofanetto e la mise sotto il cuscino. Juliet si era già addormentata.
* * *
Simon stava pensando al suo ragazzo intento a far baldoria a Glasgow. Di certo stava passando da un locale all’altro, ubriacandosi e finendo anche nel letto di questo o di quello, se gliene veniva voglia. Era un pensiero doloroso: non voleva soffermarcisi. Preferiva raccontare a se stesso di essersi innamorato, lui che era più grande di due anni, di una persona che stava ancora imparando cos’è l’amore. Sarebbe tornato di lì a una settimana. Nel frattempo era bello trovarsi nella vecchia casa per renderle un ultimo saluto. L’altro aspetto meraviglioso di quel Natale era stato il regalo di zia Rachel: il pianoforte della Duchessa. All’inizio aveva creduto che lo invitasse solamente a suonare qualcosa per lei, e Simon si era seduto allo strumento per accompagnare la famiglia che intonava inni natalizi: The Twelve Days of Christmas, I Saw Three Ships, The Holly and the Ivy. Dopo, Laura era andata da lui a chiedergli come fosse fatto l’orso dell’agrifoglio. «Sai, nel caso in cui dovessi incontrarne uno nel bosco». Lui le aveva spiegato che non esisteva nessun orso dell’agrifoglio, e Laura era parsa molto sollevata. «Mi sembrava importante saperlo, ecco».
«Le hai detto proprio le cose giuste», fu il commento di Rachel, dopo che Laura si fu allontanata.
Adesso invece era chiaro che la zia gli stava regalando questo splendido pianoforte antico: un Blüthner a coda. Era vecchio e questo significava che aveva la meccanica Schwander, costruita in Francia prima della chiusura dell’azienda durante la prima guerra mondiale. I feltri andavano punzonati, ma per il resto era uno strumento in perfette condizioni. Tentò di esprimere la propria gratitudine, ma era di gran lunga il più bel regalo che avesse mai ricevuto in vita sua, e poté solo strizzare gli occhi per trattenere le lacrime mentre abbracciava sua zia. «Sono molto felice che ti piaccia», gli disse. «E lo sarebbe anche tua nonna se fosse qui».
* * *
Rachel andò a letto molto più serena di quanto lo fosse stata la sera prima. Aveva una famiglia unita, e di questo era grata. Pensò che anche Zoë all’inizio aveva faticato a farsi accettare e che poi pian piano, durante i lunghi anni di guerra, era diventata un membro a pieno titolo della famiglia, soprattutto grazie alla Duchessa che l’aveva sempre sostenuta. Forse col tempo sarebbe successo anche a Diana, si disse. Rachel era sempre ottimista sulla potenziale bontà della gente.
Domani, sul presto, avrebbe portato alla tomba di Sid i bucaneve raccolti dalla cara, piccola Harriet. Il pensiero che presto sarebbe stata costretta a vivere chissà dove, lontana da lei, le spezzava il cuore, ma cacciò il dolore in un angolo riposto della coscienza.
* * *
Villy, sveglia sotto le coperte, pensava che era stato davvero bello tornare in famiglia. Roland aveva legato molto bene con fratelli e cugini. Sembrava felice e le sembrava anche che quella brutta acne – tormento della sua adolescenza – stesse migliorando visibilmente. Il medico da cui lo aveva portato aveva detto che sarebbe guarita da sola a tempo debito. Villy non riusciva a immaginare come si sentisse Roland all’idea di vedere il padre insieme alla sua nuova moglie, ma non c’era nulla che potesse fare al riguardo se non mostrarsi calma e completamente scevra da qualunque emozione. Ed era determinata a farlo.
* * *
«Hugh, tesoro, non devi preoccuparti per Rachel. Può restare da noi tutto il tempo che vuole».
«Sarebbe bellissimo, ma non abbiamo spazio. Come facciamo?».
«Sì che ce l’abbiamo. Ci ho pensato. Laura può trasferirsi nel tuo spogliatoio, i ragazzi nella camera di Laura e Rachel può usare l’attuale camera dei ragazzi. Vuol dire che dovrai vestirti e svestirti di fronte a me, ma io credo che supereremo in fretta l’imbarazzo».
«Il problema sarebbe semmai che non uscirei mai dalla camera, se capisci cosa intendo... Jem, mi toglieresti un grande peso dal cuore! Magari le si potrebbe trovare un piccolo impiego in qualche ente di carità, in modo che non stia sempre in casa con te. Ma ne sei sicura, cara? Ci hai pensato bene?».
«Ma sì che ci ho pensato», tornò a rassicurarlo con pazienza. «Rachel è sempre stata molto buona con noi. Ci ha accolti come membri della famiglia fin da subito, e io ora voglio fare lo stesso per lei. Andiamo a dormire».
«Non ancora».
* * *
Roland aveva avuto una giornata piena di emozioni, ma attese lo stesso che tutti si fossero ritirati e avessero spento le luci prima di spalmarsi sul viso la lozione alla camomilla. Secondo la mamma faceva bene alla pelle, e in effetti i foruncoli erano meno infiammati. Era stata magnifica, la mamma! Prima di Natale gli aveva dato un assegno sufficiente ad acquistare gli strumenti e l’attrezzatura che gli servivano per l’esperimento che stava conducendo col suo amico. Dagli altri aveva ricevuto buoni da spendere in libreria, una racchetta da squash, una torcia di prim’ordine e altre cose che ora era troppo assonnato per ricordare. E l’indomani li avrebbe raggiunti anche papà insieme a Quella Donna, come la chiamava mamma fino a qualche tempo prima. Odiava suo padre: certe volte se lo ripeteva mentalmente in modo da tenere vivo il risentimento. Aveva rovinato la vita di sua madre. Inoltre, nelle poche occasioni in cui si vedevano, non sapevano cosa dirsi. Tutte quelle domande inutili! «Come va a scuola?», «Manca poco alle vacanze, eh?», «Ti sei fatto dei buoni amici?». Dio, il solo pensiero gli dava la nausea. Il suo rapporto con lui si riduceva al farsi venire in mente qualcosa da dire così da lasciarsi finalmente alle spalle quei penosi pranzi che gli toccava sorbirsi a ogni fine semestre. Una volta c’era andata anche Louise, la sorella maggiore che conosceva a malapena, e lei aveva ravvivato un poco il pranzo, ma era successo solo quella volta. Be’, adesso lo aspettava Cambridge! Dall’autunno a venire avrebbe usufruito della borsa di studio del Trinity e nei mesi estivi si sarebbe trovato un lavoro per aiutare la madre con le spese. La borsa di studio ne copriva solo una parte, e quel disgraziato di suo padre aveva detto chiaramente che non sarebbe stato in grado di contribuire. Quanto lo odio, pensò Roland prima di addormentarsi. Non era affatto un padre.
* * *
«Ci ho pensato e ho deciso di venire con te domani. Non mi sembra giusto che tu debba sorbirti il raduno di famiglia tutto da solo».
«Magnifico!». Si sforzò di sembrare entusiasta all’idea.
Anziché la sperata via di fuga, l’aperitivo a Home Place si annunciava ora come un’ordalia. Aveva venduto le pistole e i gemelli, ricavandone almeno il necessario per i regali di Natale. Al resto aveva pensato Diana. Aveva una piccola rendita come vedova di guerra e l’affitto di un appartamento ereditato dai suoi genitori. Dato che un Natale dimesso non era assolutamente nelle sue corde, aveva comprato un sontuoso albero e la sera della vigilia avevano dato un aperitivo invitando una ventina di vicini, che si erano bevuti fino all’ultimo goccio di alcol che avevano in casa. Edward non conosceva quasi nessuno dei presenti e per un tempo che gli era parso interminabile aveva girovagato riempiendo bicchieri. Una volta amava le feste e gli piaceva conoscere gente nuova, ma adesso non ne aveva più le energie. Aveva combinato un disastro, questa era la verità, e non sapeva come uscirne. Aveva sparso nel suo club la voce che era disoccupato e disponibile per praticamente qualunque genere d’impiego, ma nonostante molti amici gli avessero garantito che lo avrebbero tenuto in considerazione, non si era ancora concretizzato nulla. È solo l’inizio, si diceva, ma la sua iscrizione scadeva a marzo e non avrebbe avuto i mezzi per rinnovarla.
Diana sembrava decisa a rimuovere in blocco il pensiero del futuro; l’aveva turbata di più la notizia che Jamie avrebbe trascorso le vacanze in Scozia coi fratelli maggiori e i nonni. Confortarla per quella piccola delusione gli era riuscito bene, fin troppo bene dal suo punto di vista, perché quella sera, dopo la festa, si era data un gran da fare per sedurlo a letto. Lui l’aveva accontentata finché aveva potuto e lei gli aveva sussurrato all’orecchio che, finché si amavano tanto, sarebbe andato tutto bene.
Perciò non si era stupito più di tanto quando il giorno dopo, la mattina di Santo Stefano, Diana si era offerta di venire con lui. L’avvertì comunque che a Home Place faceva molto più freddo che nella loro casa. «Perciò vestiti bene, cara». In verità lo atterriva l’idea che decidesse di mettersi qualcosa di troppo succinto, ma invece scelse un abito di lana blu scuro a collo alto e un paio di orecchini di zaffiri e diamanti che Edward le aveva regalato molto tempo prima che si sposassero. Indossò anche una vecchia giacca di pelliccia di scoiattolo.
«Come sto?».
«Perfetta, come sempre».
* * *
Fu Hugh ad aprire loro la porta, e Diana gli offrì la guancia da baciare. «Non ci si vede da così tanto tempo. Buon Natale!».
Hugh toccò la spalla del fratello in segno di saluto, poi aspettò che Diana si togliesse la giacca. La famiglia era quasi tutta radunata in soggiorno e Villy sedeva su un divano con Roland in piedi alle sue spalle. Rachel era seduta su una sedia a braccioli vicino al fuoco, ma si alzò per baciare Edward e salutare Diana. Rupert e Teddy stavano servendo da bere; Clary era in ginocchio e aiutava Harriet a trasferire su un vassoio un puzzle assemblato per metà. «Così potrai farlo dove vuoi. Ma non qui», le stava dicendo. Simon si occupava del fuoco e Gerald parlava con Rachel. Quando Polly entrò con un vassoio di stuzzichini, Edward le presentò Diana con orgoglio: «Ti presento mia moglie, Poll».
«Sì», intervenne Harriet con sdegno. «Loro invece hanno un ragazzino che si chiama Lord Holt. Ma non è molto simpatico».
Clary la sgridò. «Sta’ zitta, Harriet! Hai detto una cosa molto cattiva, sai?».
«Volevo dire solo che non è simpatico a noi. Poi magari ci sarà pure al mondo qualcuno che gli vorrà bene. Ma ne dubito».
«Io gli voglio bene», disse Gerald.
«È diverso. I padri vogliono bene ai figli».
«Non è sempre detto».
Tutti rivolsero lo sguardo a Roland, che arrossì violentemente senza smettere di fissare Edward. Villy gli toccò il gomito e lui allontanò con delicatezza la sua mano.
Adesso Edward e Diana avanzavano verso Villy, bicchieri alla mano. Edward le presentò nella studiata indifferenza generale. Diana si trovò di fronte una donnina un po’ spenta, inaspettatamente ben vestita, con folte sopracciglia scure in contrasto con i capelli quasi tutti bianchi, tirati severamente indietro da un largo nastro nero.
«Ciao, Villy. Ti trovo bene. Lei è Diana».
Villy vide una donna alta molto truccata con un abito di una taglia inferiore alla sua. Aveva grosse mani sgraziate piene di anelli. «Come stai? Ci siamo già incontrate una volta, mi sembra, durante la guerra».
«Oh, sì. È stato tanto tempo fa. Me ne ero quasi scordata. E lui è tuo figlio? Mi pare abbia l’età del mio... del nostro Jamie».
Questa precisazione era intesa a far male, pensò Villy, e decise che la replica più consona, e irritante, era l’indifferenza. Perciò sorrise. «In quel periodo si facevano tanti bambini», osservò. «Con tutti i giovani che morivano al fronte...».
«Ciao, ragazzo!». Edward cominciava a trovare inquietante lo sguardo fisso di Roland.
«Prima che tu mi faccia qualche stupida domanda riguardo alla scuola, ti dico subito che era un posto orrendo. Per tutto il primo anno una banda di ragazzini più grandi non ha fatto che darmi il tormento: mi legavano nella vasca, aprivano l’acqua e mi lasciavano lì. Tutte le volte non sapevo se sarebbero tornati in tempo per non farmi annegare. Questo solo per darti un esempio di come ci si diverte laggiù», disse tagliente.
«Ma che orrore!», esclamò Diana. «Non credo si facciano cose del genere a Eton. Jamie è andato a Eton, come i suoi fratelli maggiori».
Archie venne prontamente in loro soccorso. «Hai il bicchiere quasi vuoto, Diana. E anche tu, Edward. Roland, prendi qualcosa da bere a tua madre».
Roland prese il bicchiere dalle mani ora tremanti di Villy (la storia della vasca da bagno l’aveva sentita per la prima volta) e si trovò fianco a fianco con Archie davanti al carrello dei liquori. «Adesso basta», gli disse Archie in tono severo. «Stai spaventando tua madre. Sono qui solo per l’aperitivo, se ne andranno prima di pranzo. Perciò non essere troppo ostile. Potresti provare a sentire un po’ di compassione per tuo padre, sai?», aggiunse in tono più pacato.
«Tu dici?». Gli sembrava un’idea lunare.
Con abile diplomazia, Gerald aveva dirottato Diana dall’altra parte della stanza per mostrarle i pupazzi di neve e parlare di giardinaggio.
Louise e Juliet, che avevano deciso di provare i drink, lanciavano a Diana occhiate di vago disprezzo. «L’ho incontrata una volta al club di papà. Non credevo volesse sposarla».
«Non capisce proprio niente di cosmesi!», disse Juliet. «Ha la faccia che sembra un biscotto per cani. E guarda quel rossetto orrendo».
«Le donne di una certa età tendono a truccarsi troppo. Dovremo stare attente, quando verrà il nostro turno», l’avvertì Louise. A Juliet però sembrava altamente improbabile l’idea di diventare così vecchia, un giorno. E comunque lei avrebbe saputo cosa fare.
I rumori sempre più concitati che venivano dall’esterno indicavano che i bambini cominciavano a essere agitati e famelici; a un certo punto apparve sull’uscio Nan, chiaramente smarrita.
«Oh, Milord! Il signorino ne ha combinata una delle sue. Pare abbia rotto un giocattolo delle gemelle, loro lo hanno preso di petto e adesso non se ne esce più»
Polly smise di parlare con Clary e corse a confortarla. «Gerald, credo sia meglio se ti occupi tu di Andrew».
E Gerald, a cui i discorsi di Diana erano parsi la solita manfrina di chi vuole vantarsi e basta, fu grato di avere la scusa per svignarsela.
L’aveva lasciata lì ad assaporare un vivo senso di trionfo: non solo il suo giardino era più grande, ma ospitava anche piante che lui non era riuscito a coltivare o di cui non conosceva l’esistenza. Ormai era al terzo cocktail e stava osservando il deplorevole stato dell’ambiente che la circondava: quella stanza non veniva riammodernata da anni e anni. Si guardò intorno cercando Edward e lo individuò che parlava con Villy (di nuovo!), in piedi accanto a due belle ragazze: una era Louise, che Edward continuava ostinatamente a descrivere come “una delle sue due ragazze preferite”, e l’altra era una ragazza più giovane di singolare bellezza, che somigliava a Vivien Leigh.
Cominciò a camminare verso di loro, il tacco le restò impigliato in uno dei buchi del tappeto e, se Rupert non fosse scattato in avanti per sostenerla, sarebbe caduta ignominiosamente. Rachel si alzò per scusarsi.
«Non preoccuparti. Sono certa che è stata colpa mia». Ribolliva di umiliazione. Quando Diana li raggiunse, Villy stava dicendo: «Ti ricordi quel Natale in cui Edward scambiò le calze di Teddy e Lydia? Una tragedia!».
«Ma tu fosti lesta a capire l’inghippo e a rimettere le cose a posto». Edward sorrideva alla rievocazione. «Era una forza della natura, tua madre».
«Edward, forse è ora di andare. Susan sarà ansiosa di mettersi a tavola».
«Hai ragione». Baciò la mano a Louise e anche a Juliet. Intercettò lo sguardo di Villy e le sorrise con calore.
«A presto, ragazzo», disse a Roland, che non gli rispose. Diana si fermò sull’uscio del salotto dove Hugh e Jemima li aspettavano per accompagnarli alla porta. «È stato bello vedervi, tutti quanti».
In macchina però emise una specie di fischio. «Fiùù... meno male che è finita! Che peccato che Roland sia stato così sgarbato con te. Deve essere un ragazzo molto viziato».
«Povero figliolo. Non sono stato un granché come padre».
«Io non ti ho certo impedito di passare del tempo con lui».
Sì, invece, pensò Edward. Aveva detto più di una volta che era meglio lasciare Roland a sua madre e i primi tempi, dopo che l’aveva lasciata e prima che lei acconsentisse al divorzio, Villy gli aveva proibito di fare incontrare Roland e Diana. E Edward, che in quel periodo era disposto a tutto per un po’ di quieto vivere, si era adeguato a ogni cosa che Diana e Villy volevano...
«Edward, svegliati! Ti sto parlando! Dicevo, che impressione hai avuto di Villy?».
«E che impressione dovrei aver avuto secondo te?».
«Oh, be’... ti è parsa invecchiata? Ti sembra che pensi ancora a te? Cose del genere».
Edward ci rifletté qualche istante e poi disse di proposito: «No, non mi è parsa affatto invecchiata. Addirittura il contrario, forse. Stava meglio di come l’abbia mai vista, in effetti. E no, non credo che gliene importi più nulla di me».
«E che avevate da ridere tanto, tu, lei e le ragazze?».
«Ricordi di Natali di tanti anni fa. Tutto qui».
E adesso ci stava ripensando di nuovo: in particolare agli anni Venti, quando la casa era nuova di zecca, dipinta e tappezzata di fresco, con la Duchessa che cuciva tende dalla mattina alla sera. Non era cambiato quasi nulla da allora. Perfino le impronte dei denti di Bruce, il vecchio labrador del Generale, erano ancora lì. Quello era stato l’ultimo Natale e di certo l’ultima volta che metteva piede in quella casa: non avrebbe mai più rivisto Home Place.
«Immagino che Rachel venderà la casa. È troppo grande per lei sola».
«Sarà venduta. Ma dato che è di proprietà dell’azienda, Rachel non vedrà un soldo».
«Uh, poveretta». La sua indifferenza lo faceva ammattire e risvegliava in lui un sentimento nuovo e inquietante.
«E se smettessimo di parlare della mia famiglia? So che a te non piacciono molto, ma io sono molto, molto affezionato a ognuno di loro».
«Anche a Villy? Sei molto affezionato anche a Villy?».
«Perdio, Diana, vuoi smetterla? Certo che provo affetto per Villy! Ha messo al mondo quattro dei miei figli. Stamattina è stato bello rivederla. E inoltre mi sento molto in colpa per ciò che ho fatto a lei e Roland. Perciò fammi il favore di stare zitta».
Diana era talmente stupita e scioccata da quello sfogo che se ne restò buona e muta per il resto del tragitto.
* * *
Dopo pranzo si giocò agli orchi, e il vecchio canile venne usato come prigione per quelli che venivano catturati e che restavano lì in attesa che qualcuno li liberasse. Il guaio era che i piccoli venivano sempre acchiappati per primi e i grandi si stufavano presto di andare a liberarli. Jemima, preoccupata per Laura, uscì a cercarla e la trovò in lacrime nel tugurio gelido. «Mamma! Fammi uscire. Lo odio questo gioco, non voglio farlo mai più».
Jemima la portò in casa. Era paonazza dal freddo. «Ho gli stivali pieni di neve!».
«Adesso ti faccio un bel bagno caldo e poi prenderai il tè in accappatoio. Trattamento speciale!».
«Così io l’avrò già fatto quando toccherà agli altri!». L’idea la rallegrò enormemente.
Diverse ore dopo, consumata una cena leggera e pronti per andare a letto, i bambini manifestarono il desiderio di sentire gli sviluppi della storia che zio Rupert aveva cominciato a raccontare loro, a proposito di un orso e di una tigre che all’inizio litigano, poi diventano amici e decidono di rubare un piccolo aeroplano per raggiungere l’Inghilterra. Quella sera Rupert narrò loro l’arrivo dei due eroi a Buckingham Palace: orso e tigre vengono accolti con tutti gli onori dalla regina, che offre loro tè, canapè con la salsiccia – la tigre se ne mangia ventiquattro – e Mars – l’orso ne trangugia una sessantina e finisce per sentirsi male...
«Per stasera basta così», disse Rupert con fermezza. «E adesso tutti a letto, o domani non ci saranno altre avventure». Obbedirono all’istante.
* * *
«Però, stavo pensando...», disse Georgie a Laura. «È una storia molto improbabile. Orsi e tigri non andrebbero mai d’accordo se s’incontrassero nella vita reale. Si eviterebbero a vicenda».
«Non deve essere come nella vita reale. È una storia. E le storie sono meglio della vita reale. Secondo me».
«Io invece preferisco la vita reale».
Ci fu un momento di tensione, finché Laura non disse: «Ho un’idea. Scommetto che a Rivers piacerebbe un sacco un bel Mars».
«Sì! Lo credo anch’io. Bella idea, Laura... solo un pezzetto però, non vorrei che si sentisse male...».
* * *
«Fatto!», disse Rupert non senza un certo compiacimento. «Mi merito un drink bello forte».
Rachel, che da un po’ di tempo teneva in mano un bicchierino di sherry di cui non aveva nessuna voglia, drizzò di colpo la schiena. «Ascoltatemi bene, tutti quanti. Stasera ho intenzione di essere pratica. Questa casa è piena di oggetti di famiglia. A me non serve molta roba, perciò voglio che ognuno di voi scelga ciò che più gli piace. Vi prego di mettere un’etichetta col vostro nome e indirizzo sulle cose che v’interessano, così i traslocatori non avranno problemi a recapitare il tutto. Immagino sappiate che il piano della Duchessa l’ho già assegnato a Simon, dato che è lui l’unico musicista in famiglia, e Gerald ha generosamente messo a disposizione la sua casa per ospitarlo. Io ho selezionato della biancheria e degli oggetti da cucina che mi serviranno, ma per il resto è tutto a vostra disposizione. Ve lo dico da adesso perché immagino vi servirà un po’ di tempo per pensare a cosa scegliere. A me piacerebbe tenere qualcuno dei tuoi dipinti, Rupert, e anche il tuo ritratto della Duchessa mentre suona il piano, Archie. Infatti ci ho già messo le mie etichette. Infine, per favore, evitate di ringraziarmi, perché non voglio mettermi a piangere. Le etichette sono sul tavolo». Bevve un sorso di sherry, troppo, e le andò di traverso.
Hugh le diede qualche pacca sulla schiena e Clary disse: «Solo tu potevi avere un pensiero così bello».
Poi prese la parola Juliet. «Posso farlo anch’io, zia Rachel? Se sì, potrei avere quella bellissima teierina d’argento?».
«Certo che puoi».
* * *
Era cominciata un’altra partita a poker e, appena ebbero finito di cenare, Louise, Teddy, Simon, Roland, Henry, Tom e Juliet se ne andarono in camera dei ragazzi per riprenderla.
Fino a quel momento tutti si erano astenuti dal commentare la visita di Edward e della temuta Diana. Ma adesso che ognuno desiderava lasciarsi alle spalle almeno per un po’ gli argomenti seri, si concessero qualche pettegolezzo. Cominciò Archie, dicendo che Edward gli aveva fatto una bruttissima impressione, così smunto e ingrigito.
Zoë disse che secondo lei Edward non amava Diana, ma la temeva soltanto; al che Rupert osservò, come c’era da aspettarsi, che bisognava considerare anche il punto di vista dell’altra persona. Clary disse a Villy che aveva tenuto un contegno magnifico, così calma e piena di dignità. Villy si scusò per la piccola scenata di Roland, e Hugh disse di aver ammirato il coraggio del ragazzo e che in ogni caso Edward se l’era meritata. Rachel allora fece notare che Diana era la moglie di Edward e che questo fatto andava accettato. «Diciamocelo», intervenne Jemima. «Non le piacciono le donne. Tirano fuori il peggio di lei».
Il che voleva dire, osservò senza tanti complimenti Polly, che il suo peggio era praticamente sempre in bella vista. Gerald disse che secondo lui non era una donna felice.
«Ah, questo puoi ben dirlo!», esclamò Hugh. «Pensava di aver sposato un uomo ricco e adesso eccolo lì, disoccupato e senza il becco di un quattrino, perché da quanto mi ha detto ha speso tutti i suoi risparmi per assecondare i capricci di lei. Ha perfino venduto le pistole e dei gemelli per potersi permettere i regali di Natale».
«Oh, povero zio Edward! Ecco perché aveva quell’aspetto orribile». Gli occhi di Clary si stavano già riempiendo di lacrime e Archie le cinse le spalle. «Abbiamo la lacrima facile».
Zoë cominciò a dire che Diana le era parsa proprio ridicola con quel vestito che la strizzava da tutte le parti... ma intervenne Rupert: «Credo che per stasera abbiamo detto una dose sufficiente di cattiverie. Io, per quanto mi riguarda, non vedo l’ora di andarmene a letto con quella pettegola di mia moglie».
* * *
Finì così il giorno di Santo Stefano. Rachel era contenta. Era stata una lunga giornata, la sua: si era svegliata alle sette per portare i bucaneve sulla tomba di Sid. Si era stupita dell’intensità della propria avversione per Diana. E non aveva idea che la situazione di Edward fosse così grave. Se solo gliel’avesse detto quella mattina che era andato a trovarla, avrebbe potuto dargli qualcosa... anche se era cosciente di non poterlo aiutare molto. Lei aveva i domestici a cui pensare. Dato che non avrebbero avuto una somma decente a titolo di liquidazione, doveva almeno trovare loro una sistemazione. E poi c’era l’operazione di Mrs Tonbridge. Ancora poche settimane e dovrò andarmene, ammise a se stessa. Non potrò più prendermi cura della tomba di Sid. Le sembrò di doversi separare di nuovo da lei. Dovrò accettarlo. E dovrò pure trovarmi un lavoro remunerato. Però sono contenta che tutti prendano qualcosa. Almeno questo è fatto.
Una magra consolazione, ma se la fece bastare.
* * *
I due giorni successivi, gli ultimi, furono dedicati alla scelta degli oggetti che ognuno si sarebbe portato a casa. La biancheria, per esempio: tutte le donne ne volevano un po’. Si trattava per lo più di capi vecchi e logorati dall’uso, con scritte in inchiostro indiano che ne ricordavano, per così dire, la data di nascita. Alla fine se li spartirono Clary e Zoë, perché Jemima disse di non averne bisogno. Polly, dopo averne parlato con Gerald, volle per sé il tavolo dell’atrio, quattro letti singoli e due cassettoni. Erano cose che nessun altro desiderava. Teddy disse che gli sarebbe piaciuto tenere la scrivania del Generale. Per il momento non aveva dove metterla, ma di colpo gli era venuto il desiderio di possedere un oggetto appartenuto al nonno. Georgie voleva lo schedario con dentro la collezione di coleotteri. (Glielo aveva suggerito Rupert, temendo che si mettesse in testa di portarsi a casa le mangiatoie della stalla e di chiedergli un cavallo). Louise scelse un bel servizio di tazze da caffè di Wedgwood, e Rachel disse a Simon di prendere, oltre al piano, anche tutti gli spartiti. Clary si fece consigliare da Mrs Tonbridge su quali utensili da cucina portarsi a Mortlake. A casa aveva una piccola batterie de cuisine, ma non era in buono stato.
Hugh, Rupert e Archie furono invitati a dividersi l’argenteria; quando Archie si schermì dicendo che lui non era un membro della famiglia, gli altri due dissero che invece lo era eccome. Laura sgattaiolò non vista nella stanza dei giochi, con un’etichetta tutta appiccicosa che appose sul vecchio, stremato cavalluccio a dondolo. «Potrei ridipingergli il muso e le macchie sulla schiena e usarlo per delle scorribande notturne». Le gemelle di Polly chiesero di portare via il baule dei travestimenti, che era pieno di stole di boa e vestiti coi lustrini, mentre Tom e Henry vollero le racchette da tennis e da squash. Bertie trovò, chissà come, un cappello a cilindro e chiese di poterlo avere, nell’eventualità in cui da grande avesse deciso di fare il mago.
«E io che posso prendere?», si lamentò Andrew. «Questo posto è pieno di cose che non mi interessano!».
Rachel gli propose un Atlante delle civiltà antiche e un binocolo. «Cose essenziali per un esploratore».
Con Bertie fu più facile. L’unica cosa che desiderava, a parte il cappello a cilindro, era l’enorme luccio imbalsamato custodito in una teca di vetro nello studio del Generale.
Alla fine del secondo giorno tutti avevano fatto le loro scelte a eccezione di Villy, Roland e Harriet.
Rachel propose a Villy di prendersi il set di attrezzi da giardino appartenuti alla Duchessa. «Mi piacerebbe pensare che li usi tu». Harriet ammise alla fine che le piaceva una trapunta patchwork fatta con pezze di cotone di diverse sfumature di azzurro, ormai piuttosto scolorita dall’esposizione al sole. «Perché non l’hai detto subito, tesoro?».
«Credevo fosse troppo. Che volessi tenerla».
«No. Sarei felice se l’avessi tu. Ecco l’etichetta. Scrivici su il tuo nome e l’indirizzo. Sono felice che ti piaccia. L’ha cucita la tua bisnonna durante la guerra, sai?».
«Oh, perciò è molto, molto vecchia, vero?». Rachel disse che sì, in effetti lo era, perché questo pareva accrescerne il fascino.
E così l’unico a non aver scelto niente era Roland.
«Ci sarà pure qualcosa che ti piace», disse Villy. Roland ammise che in effetti qualcosa c’era, ma che per Rachel sarebbe stato gravoso privarsene. «È quel bellissimo vecchio telefono nello studio del nonno. Non ne avevo mai visto uno di quel tipo, se non nei film».
Rachel, interpellata al riguardo, disse che di certo non voleva tenerlo ma che ne avrebbe avuto bisogno fino al momento di lasciare la casa.
«Oh, bene! E la macchina da scrivere Remington? Quella vuoi tenerla?». Rachel sapeva scrivere a macchina con un dito soltanto e non le serviva. «C’è anche una vecchia macchina fotografica che mi piace molto. È troppo?».
«No, Roland. Va benissimo. Metti un’etichetta su ogni cosa».
* * *
Quando si sparse la voce che Roland aveva preso per sé diversi oggetti, anche qualcun altro decise di volerne di più. «Non si possono lasciare tutti quei poveri orsacchiotti e quelle scimmiette al loro destino, mamma! Io saprei come prendermene cura», disse Harriet tutta suadente.
Invece le gemelle di Polly volevano i giochi da tavolo. «Zia Rachel è troppo vecchia per giocarci».
«Ne avete già tanti a casa», obiettò Polly.
«Non tutti quelli che ci sono qui. E poi metti che quattro persone vogliano fare un gioco che ne prevede solo due? Due di loro dovrebbero aspettare ore!».
Georgie disse: «Mi domandavo se posso avere anche quei fagiani imbalsamati. Potrei metterli nel museo del mio zoo, insieme ai coleotteri».
I genitori chiesero scusa per l’improvvisa avidità dei loro figli, ma Rachel invece ne fu entusiasta e suggerì loro altre cose ancora.
Il “Gioco delle Etichette”, come fu battezzato, fu un successo strabiliante. Erano tutti indaffaratissimi. «Oh mio Dio!», strillavano i bambini. «Gli ultimi due giorni!». Georgie però era ansioso di tornare a casa dove lo attendeva di certo il suo miglior regalo, mentre Bertie e Harriet erano molto eccitati alla prospettiva del trasloco. Anche Laura era ragionevolmente sicura che al suo ritorno a casa avrebbe trovato una bicicletta oppure un gatto, due cose di cui aveva davvero un gran bisogno.
Erano gli adulti a subire il contraccolpo peggiore: troppo inclini alle reminiscenze, inevitabilmente foriere di ansia e malinconia.
Rachel raccontava aneddoti sul Generale, che una risata la strappavano sempre. «Ricordate il modo in cui ti veniva vicino e ti chiedeva se conoscevi la storia di quell’elefante che gli avevano regalato in India, e tu magari avevi il fegato di dirgli che sì, la conoscevi già... e lui diceva non importa, te la racconto lo stesso?».
«E quando usciva del pelo di coniglio dai rubinetti e lui ci diceva che non era niente di grave e che non dovevamo affaticare le nostre graziose testoline?» (Questo fu Villy a ricordarlo).
«E quel suo vizio di guidare sulla destra! Quando lo fermò la polizia, disse che lui a cavallo era andato sempre sulla destra e che ormai era troppo vecchio per certi cambiamenti».
Quando si esaurì il filone degli aneddoti sul Generale, vi fu un rispettoso silenzio e tutti tornarono ai loro ricordi privati. Hugh pensò a Sybil, a quando era nato Wills, alla malattia di lei, a quanto era stato buono Edward con lui dopo che era rimasto vedovo. Hugh aveva avuto paura di non riprendersi mai più, ma era arrivata la sua cara Jemima a restituirgli la vita. Villy pensava ai momenti gioiosi che aveva vissuto in quella casa, ai giorni in cui Edward era ancora un marito felice e devoto...
Era tutto finito ormai. Che impressione le aveva fatto vederlo il giorno di Santo Stefano! In qualche modo l’evidente disagio di Diana le aveva fatto apprezzare il buono che c’era stato nel loro matrimonio. Perché era stato un matrimonio felice, sì. Adesso sapeva che il problema era stato uno solo: il sesso. Alla fine aveva capito che la finzione non poteva bastare. Era un po’ quello che Miss Milliment le aveva detto a proposito dei martiri: gente non facile da amare. Edward doveva aver avuto sentore della sua repulsione per il sesso e si era convinto che tutte le donne “perbene” fossero come lei, e la cosa lo aveva spinto a cercare soddisfazione altrove. Era evidente che aveva sposato Diana per motivi sessuali. Sembrava proprio il tipo di donna a cui piacevano quelle cose. Se solo Miss Milliment non fosse morta, pensò Villy ancora una volta, e se non fosse morta riversandole addosso tutto quel rancore...
Clary si guardò intorno. L’ansia e la paura s’addensavano come nebbia in quella stanza e stavano pian piano avvolgendo tutti i presenti. «Voglio dire una cosa. Credo che sarebbe meglio se tutti noi esprimessimo i nostri sentimenti. Lo so, zia Rachel, hai detto di non parlarne durante il Natale. Ma il Natale è finito. Questa è la nostra ultima notte qui e siamo tutti molto tristi. Ma alcuni di noi lo sono di più perché non sanno cosa ne sarà di loro, dopo che avranno lasciato questa casa. Io credo che dovremmo parlarne. E siccome sono io che ho cominciato, lo farò per prima».
Nel breve silenzio che seguì, un ceppo cadde nel focolare e Rupert si allungò a sistemarlo. Nessuno ci fece caso: l’attenzione era puntata su Clary.
«Questa casa...», esordì con coraggio. «Io ricorderò e amerò per sempre questo luogo perché è stato la mia prima casa. È qui che ho conosciuto davvero Polly. E anche tu, cara Zoë, che volevo per forza odiare per via della morte di mia madre e perché avevi sposato mio padre. E poi ci sei stato tu, caro Archie. Per tutti gli anni terribili in cui papà risultava disperso e io ero l’unica a crederlo vivo, tu mi sei stato accanto. Sei diventato la mia famiglia. La casa però è rimasta la stessa da allora. Se chiudo gli occhi vedo ancora i dettagli di ogni singola stanza, del giardino, del frutteto, dei campi, del bosco col suo torrente. Potrei andarmene in giro bendata e dirvi esattamente dove mi trovo. Ed è così per tutti noi, è questo che sto cercando di dire. Questa casa è dentro di noi e non ce ne dimenticheremo mai. Io credo che siamo fortunati ad aver avuto nella vita un luogo che ci è così caro e che ci porteremo sempre nel cuore».
Dalla stanza si sollevò un mormorio di approvazione. Ma quella era stata la parte facile. Clary fece un gran respiro e riprese a parlare. «L’altra cosa di cui non stiamo parlando è cosa ne sarà di noi dopo che la Cazalet avrà cessato di esistere. Immagino pensiate che a me, Archie, papà e Zoë è andata bene, perché vivremo insieme e Archie e papà terranno lezioni d’arte. Noi due affitteremo la nostra casa in modo che, se il progetto Mortlake non dovesse funzionare, avremmo almeno un posto dove tornare a stare. Io, poi, spero di cominciare a guadagnare qualcosa dai miei lavori. Perciò, in un certo senso, credo che noi qui siamo i più fortunati. Gerald e Polly hanno i loro problemi, ma per fortuna la bancarotta della Cazalet non li tocca direttamente. Ma tocca da vicino zio Hugh e zia Rachel e anche, immagino, il povero zio Edward, anche se non è presente». Guardava Hugh con aria incoraggiante, e lui si schiarì la gola.
«Non dovete preoccuparvi per noi, davvero. Ho dei soldi da parte per vivere dignitosamente fino a quando non avrò trovato un altro lavoro. Jemima inoltre ha ricevuto una piccola eredità dai suoi genitori, che garantirà gli studi ai ragazzi. La casa è intestata a lei. Davvero, non dovete preoccuparvi per noi», ripeté ancora, con un tono quasi infastidito.
Poi gli occhi di tutti furono addosso a Rachel, che si fece piccola ma non poté sottrarsi. Era rimasta seduta con le mani intrecciate a un piccolo fazzoletto bianco. Era incapace di mentire o anche solo di dissimulare, ma era decisa a non palesare il suo terrore di fronte alle incertezze che l’attendevano.
«Come tutti saprete, venderò la casa di Sid, ma mi hanno detto che il ricavato non sarà tale da garantirmi una rendita che mi consenta di vivere serenamente. Perciò dovrò trovarmi un lavoro di qualche genere, anche se Dio solo sa chi mai vorrebbe assumere una persona come me... ma qualcosa troverò, ne sono certa». Rachel alzò gli occhi sui suoi cari prima di continuare. «Ho avuto quattro inviti straordinariamente generosi. Da te, Hugh, da Rupert e Zoë, da Villy e anche da Gerald e Polly». La voce le tremò e le nocche le si fecero bianche mentre stringeva con forza il fazzoletto. «Vi sono davvero molto grata, ma so quanto avete da fare. Una vecchia zitella come me in casa vi sarebbe solo d’impaccio». Tentò un sorriso che non le riuscì perché aveva gli occhi già pieni di lacrime e poi mormorò con voce appena udibile: «Non servo più a nessuno ormai».
Hugh le si avvicinò, s’inginocchiò di fronte a lei e le cinse le spalle. «Qui tutti ti amiamo e abbiamo un gran bisogno di te», disse. «Stai dicendo un mucchio di sciocchezze. Sei quella più toccata da questo disastro... Hai vissuto qui per quarant’anni...».
«Quarantuno», lo corresse lei.
«Quarantuno, infatti. È stata casa tua per tutto questo tempo. È una tragedia doverla lasciare».
«A me saresti davvero molto utile, zia Rach», disse Polly. «Con quattro bambini e la faccenda dei matrimoni, per non parlare della casa enorme che abbiamo, credo che potrei tenerti occupata dalla mattina alla sera».
«Non ne potrai più, fidati», volle scherzare Gerald.
Ognuno addusse ottime ragioni pratiche per volerla in casa propria, tutti a eccezione di Villy, che desiderava moltissimo che la cognata riempisse il vuoto della sua casa silenziosa con la semplice presenza. Così disse solo: «Tu sai che sei sempre la benvenuta, in qualunque momento». E sperò che queste parole dicessero abbastanza sui suoi sentimenti.
Funzionò al punto che Rachel non seppe e non volle trattenere ancora le lacrime. Hugh le diede il suo fazzoletto. «Con quell’affare minuscolo che hai tu non si possono asciugare nemmeno le lacrime di un topolino».
Poi Gerald suggerì di aprire un’ultima bottiglia di champagne, cosa che fece nell’approvazione generale, e perfino Rachel ne bevve un goccio, felice che quella serata si avviasse finalmente alla conclusione.
* * *
«Davvero notevole, cara la mia drammaturga, il modo in cui li hai fatti parlare», disse Archie quando furono nella loro camera.
Al piano di sopra, in fondo al corridoio, Hugh stava prendendo atto che non riusciva a raggiungere i lacci delle proprie scarpe. O meglio, riusciva a raggiungerli ma non ad afferrarli e scioglierli, impresa in ogni caso non semplicissima quando si disponeva di una sola mano. A forza di provarci cominciò a girargli la testa, e alla fine chiamò Jemima. «Non so cosa mi succede, ma a quanto pare non riesco a togliermi le scarpe».
Jemima lo guardò e per poco non si sentì mancare. Aveva la stessa faccia di quella sera in bagno. «Sei solo stanco, caro», gli disse. «Adesso ti spoglio. Mi piace farlo».
Gli tolse i vestiti e gli infilò la giacca del pigiama senza obbligarlo ad alzarsi dallo sgabello su cui stava seduto. Poi gli fece infilare i pantaloni. «Aggrappati a me, caro, che te li tiro su. Ti accompagno a letto».
Sprofondò sul cuscino con un sospiro soddisfatto e tese le mani per abbracciarla. Lei gli baciò la fronte e disse: «Adesso ti metti subito a dormire».
Lui obbedì, Jemima invece restò sveglia a macerarsi nella paura. Doveva chiamare un dottore e riportarlo a Londra il più in fretta possibile.
* * *
«È davvero dura per Rach», disse Rupert togliendosi i vestiti e seminandoli a terra in una specie di scia tra la finestra e il letto. «Sbrigati, cara, ho voglia di celebrare quest’ultima sera sotto le lenzuola con te».
* * *
Polly disse: «Certo, sarebbe complicato. Forse dovremmo farla venire a casa per mostrarle tutte le cose che ci sono da fare. In ogni caso credo che dovremo assumere qualcuno, perché Nan sta sempre peggio. Presto non sarà più in grado né di occuparsi di Spencer né di dare una mano in cucina».
«Stavo pensando che forse potremmo proporlo ai Tonbridge».
«Caspita! Questa è un’idea. Ma può darsi che Mrs T voglia andare in pensione. Vedessi che piedi che ha... Rachel ha detto che deve sottoporsi a un intervento per la borsite».
«Be’, naturalmente pensavo dopo la sua convalescenza. Mi sembra molto affezionata a Rachel, e se Rachel verrà a stare da noi, magari vorrà venire anche lei».
«E Tonbridge?».
«Potrebbe fare da autista ai matrimoni. E guidare quella spaventosa Daimler bianca che ci tocca tenere».
«Gerald, lo sai che non è affatto una cattiva idea?».
* * *
Domani, stava pensando Rachel, potrò tornare nella mia vecchia stanza. Le emozioni della giornata erano state tali che si addormentò non appena ebbe spento la luce.
* * *
Mrs Tonbridge arrancò lungo il sentiero, in mezzo alla neve ammorbidita dal disgelo, ed entrando in casa annunciò a Tonbridge (assorto nella lettura del giornale) che se ne andava direttamente a dormire. Sapeva che se si fosse fermata a bere una tazza di tè, lui avrebbe cominciato a leggerle scampoli di articoli su come andava il mondo e sui politici che sbagliavano sempre tutto. La metà di quelle cose non le capiva, l’altra metà l’annoiavano. Se fosse andata in pensione, come Mrs Rachel sembrava auspicare per lei, le sarebbe toccata quella solfa da mane a sera...
Aveva preparato un abbondante kedgeree per la colazione prima del commiato. Doveva solo scaldarlo. Ecco che Tonbridge saliva le scale per venire a letto. Mrs Tonbridge si mise su un fianco e chiuse gli occhi.
* * *
Sarebbero partiti tutti dopo la colazione, ma la preparazione fu lunga e laboriosa. Teddy, Louise e Simon, che avevano meno roba, furono i primi ad andarsene. Ma anche loro impiegarono un bel po’ di tempo per trovare gli altri e salutarli. Polly era in camera delle ragazze a controllare che ognuno mettesse i suoi regali in una valigia selezionata appositamente, cosa che erano restii a fare. Le gemelle volevano ficcarci dentro tutti i giochi da tavolo e Andrew si lamentava che questo lasciava poco o zero spazio per il resto. Polly allora intimò alle bambine di limitarsi ai regali di Natale. Andrew, soddisfatto ma ancora fremente di rabbia contro le sorelle, assestò un energico calcio alla valigia spargendo sul pavimento pezzi della dama, bambole, carte del Monopoli e dadi. Eliza scoppiò a piangere. «Ora vai a salutare. Poi raccoglierai tutto. Sono molto arrabbiata con te, Andrew». Polly era già stanca. Aveva chiuso in valigia le cose di Spencer, poi aveva scoperto che Nan le aveva tirate tutte fuori ma non ricordava dove le avesse messe. Se ne stava occupando Gerald.
Jemima aveva chiesto a Rachel di coinvolgere Hugh in una conversazione sullo sgombero della casa. «È così stanco... non voglio che debba occuparsi delle valigie». Laura diede il peggio di sé. Pianse perché non le fu concesso di portarsi via il cavallo a dondolo, e pianse perché non poteva andare a vivere da Georgie. Inoltre si rifiutò di indossare le cose che sua madre aveva messo fuori per lei. «Se insisti per farmi mettere quella stupida gonna rossa e quel maglione finto scozzese, le mie braccia e le mie gambe diventeranno tutte viscide come le alghe», s’era messa a singhiozzare. Jemima era così ansiosa di riportare Hugh a Londra che consentì a Laura di indossare quello che voleva per quel giorno, e lei si mise pure una corona di carta che aveva trovato in un petardo natalizio.
I prossimi a partire erano loro. Laura volle abbracciare tutti, i Tonbridge, Eileen, zia Rachel e Georgie. Tentò anche con Rivers, ma lui non era d’accordo. «Guido io», annunciò decisa Jemima. «Almeno così riuscirò a non piangere».
Georgie salutò tutti con una civile stretta di mano. Aveva assistito disgustato alla scenata di Laura, anche se con Zoë aveva ammesso che la cuginetta era migliore di tutte le altre bambine che conosceva.
Rupert abbracciò a lungo Rachel. «È stato un bellissimo Natale. Non immagini la gioia che ci hai dato. Non dimenticarti che sei sempre la benvenuta, Rach cara». Anche Zoë l’abbracciò, una cosa che non faceva spesso. Rachel restò in piedi accanto al cancello bianco del vialetto, a salutarli con la mano.
Poi fu il turno di Villy e Roland.
«Sono stato benissimo. Il miglior Natale che io ricordi. Grazie per avermi invitato». Rachel gli diede un bacio e lui si fece rosso, ma l’acne andava migliorando visibilmente.
Rachel e Villy si abbracciarono con calore, e Villy ribadì che a Clifton Hill era sempre la benvenuta.
La casa si andava svuotando: i passi su e giù per le scale erano più radi, così come le porte che venivano aperte e chiuse di scatto. Mentre Archie caricava la macchina, Clary portava alla spicciolata oggetti che aveva dimenticato facendo le valigie. Bertie le disse: «Spero che tu venga a stare da noi. Ci trasferiremo in una casa grandissima, perciò lo spazio non ci manca».
Harriet l’abbracciò forte. «Resta qui, zia Rachel. È il posto più bello di tutti». Impiegarono molto tempo ad andarsene.
Nel frattempo Polly e Gerald stavano caricando le valigie sulla loro Daimler. Polly accompagnò Nan in macchina e le mise in braccio Spencer che cadde subito in un sonno ronfante. Le gemelle salirono in macchina, poi fu il turno di Andrew, che si rifiutò di dare un bacio a Rachel perché sosteneva di non essersi divertito abbastanza. «Anche se il cibo era molto buono», ammise scontroso.
«Per favore, vieni a stare da noi», le disse Gerald. «Ne saremmo felici».
E Rachel sentì la propria voce dire che le sarebbe piaciuto. Anche Polly l’abbracciò, e poi partirono. Rachel stette a guardare la macchina allontanarsi piano lungo il viale fino a sparire. Poi chiuse il cancelletto bianco, passò tra i due pupazzi di neve mezzi sciolti e rientrò nella casa ormai immersa nel silenzio. Eileen aveva acceso il fuoco in soggiorno e apparve subito portandole una tazza di brodo. Era fatta. L’ultimo Natale era finito. Il primo senza Sid, pensò, accorgendosi che riusciva a provare una calma tristezza al riguardo: un peso in meno sul cuore. Harriet le aveva mormorato all’orecchio che aveva trovato una minuscola primula appena fuori dall’aiuola dell’araucaria. Non l’aveva ancora raccolta, ma pensò che sarebbe stata bene coi bucaneve. Dopo pranzo l’avrebbe presa e portata alla tomba di Sid. Amava tutti i suoi nipotini, ma Harriet e Laura l’avevano commossa più degli altri. Naturalmente adorava Spencer come aveva adorato tutti, da neonati. Andrew la faceva ridere come a suo tempo Neville. E l’affetto degli adulti, tutti quanti, le aveva scaldato il cuore. Se solo, pensò, ci fosse ancora bisogno di me da qualche parte.
* * *
Il resto di quella giornata passò lentamente. Consumò un pranzo leggero direttamente da un vassoio – fricassea di tacchino e una tortina di mele –, si mise gli indumenti caldi che aveva ricevuto in dono, le galosce e andò a prelevare la coraggiosa primula solitaria. La neve continuava a sciogliersi e lungo i lati della stradina correvano due vivaci ruscelletti. Il cielo era di un azzurro limpido e gli alberi sgocciolavano sul sagrato della chiesa. Spazzò di nuovo la neve dalla tomba di Sid; i bucaneve erano ancora intatti, e Rachel vi aggiunse la primula. Di solito diceva una breve preghiera. Quel giorno invece parlò con lei.
«Farò come mi hai detto tu, tesoro. Cercherò di ricostruirmi una vita senza di te, come volevi tu. Non ti dimenticherò mai, mai. Sarai sempre il mio unico amore. Sei morta con coraggio ed è ora che anch’io mostri un po’ di coraggio, ma per vivere. Comincerò stando per un po’ da Polly. Le scriverò stasera stessa».
Accarezzò la pietra su cui era inciso il nome di Sid: un altro commiato. Ma ti avrò sempre nel mio cuore, pensò tornando verso casa. La mia cara Sid.
Non era nemmeno a metà della sua lettera per Polly quando squillò il telefono.
* * *
«Oh, Rachel! Hugh ha avuto un infarto! È in ospedale e io vorrei stare con lui, ma i ragazzi sono da amici e non posso lasciare Laura da sola. Mi chiedevo se tu per caso...».
«Ma certo. Prendo il primo treno domattina. O meglio ancora, mi faccio portare in città da Tonbridge. C’è qualcosa che posso portarti?».
Jemima disse di no, che bastava la sua semplice presenza. Dalla voce sembrava in lacrime. «Si trova nell’unità coronarica e sono tutti molto bravi. Oh, Rachel, ti ringrazio tanto! Sarò molto più tranquilla ad averti a casa. Laura ti adora e io ci tengo a che resti qui... è già molto turbata perché era lì quando Hugh si è sentito male. Adesso devo attaccare perché può darsi che mi cerchino dall’ospedale. Ti ringrazio ancora, Rachel. Siamo in ottime mani. Non potevamo avere un aiuto migliore».
Rachel annunciò ai domestici che Mr Hugh aveva avuto un attacco di cuore e che lei sarebbe andata a Londra l’indomani mattina – Tonbridge poteva portarla in macchina? Ed Eileen poteva aiutarla a fare i bagagli quella sera stessa? – e nel farlo sentì di avere di nuovo il pieno controllo delle cose. Aveva fatto in modo che i Tonbridge potessero restare un altro mese nel loro appartamento sopra le stalle, suggerendo loro di ospitarvi anche Eileen, che avrebbe dato una mano nelle pulizie. Inoltre, per il periodo dopo l’operazione di Mrs Tonbridge, aveva trovato due casette in affitto a Battle che facevano al caso loro. Qualunque avessero scelto, Rachel aveva da parte il denaro per i primi tre mesi di affitto. Naturalmente si sarebbe rimessa in contatto con loro non appena avesse avuto nuove informazioni sulle condizioni di Mr Hugh.
Mrs Tonbridge era muta dall’emozione. Rachel non ricordava di averla mai vista così prossima alle lacrime. Eileen le chiese se questo significasse che non sarebbe mai più tornata a Home Place. E Rachel si rese conto in quell’istante che probabilmente era così. Ma non disse nulla. Chiese soltanto una semplice omelette per cena. Poi avrebbe preparato la valigia e sarebbe andata a letto presto; l’indomani voleva partire subito dopo le otto, se possibile.
Ma certo, è la mia ultima notte qui, pensò. Meglio andarsene così invece che tra lacrime e ricordi strappacuore. Adesso ho Hugh di cui occuparmi. E anche Jemima, e naturalmente la piccola Laura.
Eppure dopo cena, una volta finito di preparare i bagagli con l’aiuto di Eileen, s’infilò la vestaglia e visitò una alla volta tutte le stanze del piano di sopra. C’era lo spogliatoio del Generale, dove spesso dormiva perché la notte russava così forte che la Duchessa, pur nella sua indefessa lealtà, non poteva sopportarlo. La stanza dove Sybil aveva avuto Wills e perso la sua gemella, e dove poi era morta. La sua stanza, quella dove aveva trovato Clary affranta dalla solitudine che dormiva sul pavimento. Poi fece appello a tutto il suo coraggio ed entrò nella camera della Duchessa, dove era morta serenamente, e in quella dove la sua Sid aveva trascorso le ultime settimane di vita.
Rachel aveva sempre raccolto le confidenze di tutti, e anche quel Natale ce ne era stata una che l’aveva turbata e resa inquieta. Aveva trovato Louise in lacrime sulle scale che portavano in mansarda. «Oh, zia Rach! Non so come ci riuscirò, ma dovrò farlo per forza». Le disse poi che aveva una relazione con un uomo sposato che, lo capiva solo adesso, non avrebbe mai lasciato la moglie per lei.
Perciò doveva lasciarlo e proseguire oltre, in qualche modo. La sua angoscia era tale che Rachel aveva messo da parte lo scandalo e aveva detto quanto poteva per confortarla. Louise sarebbe andata avanti, disse; il dolore prima o poi si sarebbe dissolto e avrebbe trovato qualcun altro da amare. Qualcuno più degno del suo amore.
* * *
La stanza di Sid era ancora piena delle sue cose. Rachel prese il berrettino di lana che aveva indossato nelle ultime settimane, quando non aveva più capelli, e la lunga sciarpa di seta che era stata il suo ultimo regalo. L’indomani avrebbe chiesto a Eileen di sgomberare la stanza e donare tutto a un’opera di carità. Andò nella stanza dei giochi a prendere una scatola di domino e il suo libro di fiabe preferito di quando era bambina. Aveva colorato di suo pugno tutte le belle illustrazioni di Henry Ford. Le principesse avevano tutte i capelli d’oro e i draghi erano d’un bel verde acceso. Ora avrebbe potuto leggerlo a Laura e le avrebbe pure insegnato a giocare a domino.
Poi andò a letto nella sua stanza, che Villy aveva lasciato immacolata. Sapeva di essere stanca per via del mal di schiena, ma sentiva vivo il conforto di tutto l’affetto ricevuto. E soprattutto, adesso, sentiva di potersi di nuovo rendere utile.