I giovani
«Mi rendo conto che ormai è un cliché un po’ abusato, ma è morta mia nonna e voglio andare al suo funerale».
La sua responsabile lo occhieggiò poco convinta.
«Neville, mi sembra di ricordare che di nonne te ne sono morte diverse nel corso di quest’anno».
«Lo so, ma stavolta è vero». Sorrise, suadente. Portava una giacca di velluto nero tutta sciupata, una camicia bianca aperta sul collo e pantaloni di velluto a coste che una volta erano stati neri e delle scarpe da tennis. «Ogni tanto la vita reale viene a reclamare il conto, sai. O forse dovrei dire... la morte», aggiunse. Lo disse guardando in terra, poi alzò gli occhi su di lei. Aveva proprio l’aria del poeta, pensò la donna. Ad averne mai visto uno. Eppure era sorprendentemente bravo, meticoloso e anche esigente nel suo lavoro.
Diede un’occhiata alla sua agenda. «Hai un servizio importante la prossima settimana».
«Lo so. Venerdì. Di fronte all’Albert Hall».
«Venerdì e sabato».
«Sue, non mi servono due giorni, davvero. Se sei d’accordo, dico a Simon di chiamare tutte le sartorie e le agenzie di modelle. Ho già fatto sapere quali voglio. È tutto organizzato, veramente».
«D’accordo. Hai vinto. Ma non ti azzardare a piantarmi in asso».
«Sta’ tranquilla, tesoro». E la guardò coi suoi occhioni blu in un modo di cui Sue aveva imparato a diffidare ma al quale trovava comunque difficile resistere. Dopotutto aveva solo venticinque anni, lo aveva scoperto lei e, dato che non era ancora abbastanza noto per lavorare in proprio, voleva tenerselo stretto. Aveva fatto da assistente a Norman Parkinson e Clifford Coffin, un’ottima formazione, e si era fatto avanti per sostituirli una volta che loro non erano disponibili, mesi prima. Nel lavoro si era rivelato molto professionale, ed era bravissimo a mettere in risalto i punti forti delle modelle, dissimulando gli eventuali difetti.
«Adesso vai!», gli disse in tono spiccio. Era pur sempre lei, il capo. Tornato alla base, come spesso chiamava il seminterrato a Camden Town in cui abitava con Simon, Neville trovò quest’ultimo intento a lavare le tazze e disse: «Tutto a posto. Portami una tazza di caffè, poi telefona a Pansy e dille di preparare i vestiti per venerdì».
Simon si asciugò le mani con una tovaglietta da tè fradicia e si mise alla ricerca del bollitore. «Non sarà contenta. Lei non vuole essere avvertita, semmai consultata».
«Dille che c’è il funerale di nostra nonna. La gente è sensibile a queste cose. E poi, Simon... smettila di muoverti come se fossi dentro un acquario. Sei il mio assistente. Dovresti lavorare il doppio di me».
Certo, per tre misere sterline la settimana, pensò Simon mentre riempiva il bollitore e apriva lo sfiato. Aveva quattro anni più di suo cugino, lui, e guarda che situazione! Una ciocca di capelli biondi gli cadde sulla fronte alta mentre era chino a grattare il fondo di un barattolo di caffè solubile. Ecco un altro lavoro che non faceva per lui, e Dio solo sapeva quanti se ne erano accumulati negli ultimi sei anni. L’università era stata un bel periodo, cosa che di certo non poteva dire del servizio militare – non aveva mai desiderato diventare ufficiale di carriera – e aveva anche imparato, senza troppa convinzione, il mestiere di elettricista. Suo padre voleva che andasse a lavorare nell’azienda di famiglia, ma a lui neanche questo piaceva. Così era passato da un lavoretto all’altro mentre Teddy, che aveva più o meno la sua stessa età, aveva uno stipendio, un appartamento tutto suo e una macchina (di proprietà dell’azienda, d’accordo, ma la guidava pur sempre lui). E Neville era così sicuro di sé! Quando gli aveva proposto di fargli da assistente – «Tre sterline a settimana, alloggio compreso» – a Simon era sembrata un’ottima opportunità. Il lavoro però consisteva nel caricare e scaricare pesanti e delicate attrezzature fotografiche dalla vecchia MG di Neville e nell’occuparsi di quel minuscolo appartamento, dove lui dormiva in un sottoscala. L’unica stanza era quella di Neville, che serviva anche per tutto il resto: pranzi, cene, lavoro, ogni cosa. Un altro sgabuzzino era stato trasformato in un cucinino, e poi c’era un minuscolo bagno che puzzava di funghi e dove, dopo esserti lavato, ti sentivi più sporco di prima. Nonostante tutto questo, Neville riusciva a risultare affascinante in un suo modo trasandato, mentre Simon aveva l’aria... be’, aveva l’aria di chi è destinato a restare ai margini. Gli sembrava di essere l’unica persona, fra quelle che conosceva, a non sapere ancora cosa fare di se stesso, quale fosse la sua strada.
Pensò ai suoi cugini più grandi. Christopher era un monaco, che era ciò che desiderava. Teddy era ben avviato sulla strada dei loro padri: un uomo d’affari. A Simon quel genere di vita non era mai interessato, e ne aveva avuto conferma nei tre mesi d’inferno in cui aveva lavorato alla Cazalet. Le ragazze stavano bene: Polly e Clary si erano sposate, e Lydia aveva un obiettivo che coltivava da sempre. I più piccoli non contavano: loro avevano solo sogni vaghi come diventare astronauti o piloti oppure, nel caso di Juliet, stelle del cinema. Lui invece non aveva nemmeno una ragazza. Ne aveva avuta una per un breve periodo, ma voleva andare a ballare praticamente ogni sera e lui non poteva permettersi tutte quelle cene, gli ingressi nei locali, le consumazioni. Senza contare che Peggy aveva voluto essere accompagnata in casa e lì chiaramente si aspettava che lui la baciasse. Simon era infastidito dalla sua faccia accaldata e striata di trucco sfatto, e tentando di sciogliersi dal suo abbraccio per poco non aveva perso l’equilibrio. Una bella serata davvero! «Non voglio uscire mai più con te», gli aveva detto Peggy. «Sei cattivo e non sai nemmeno ballare». Se lo avesse amato, non gli avrebbe mai detto una cosa simile. Del resto non l’amava neanche lui, tra loro non c’era stata nessuna scintilla: lo avevano colpito i suoi capelli, tutto qui. Dopo quell’episodio, se aveva incontrato delle ragazze era stato sempre in situazioni umilianti: mentre rassettava, mentre preparava il tè o il caffè, mentre si prendeva una ramanzina o qualcuno gli diceva di darsi una mossa, di essere più svelto. Dormiva molto, faceva una gran fatica ad alzarsi al mattino. Paradossalmente non vedeva l’ora di andare al funerale perché lì almeno, quasi sicuramente, ci sarebbe stata Polly, e lui voleva molto bene a Polly, più che a chiunque altro.
Dopo la morte della madre, nulla era più stato lo stesso. Lui era in collegio quando era accaduto, ed era ancora arrabbiato per questo. Aveva provato a prendersela con Polly, ma anche lei era talmente a pezzi che non se l’era sentita. Allora aveva dato la colpa a papà. «Come ti sentiresti se ti chiamassero dal preside, ti facessero sedere e ti dicessero che tua madre è morta?». Non gli aveva mai detto davvero queste cose, perché vedeva bene che anche suo padre era molto, molto triste. Lei si chiamava Sybil. Gli sembrava strano poter amare una persona così tanto e non averla mai chiamata per nome. Di tanto in tanto parlava ancora con lei e la chiamava Sybil. Ne parlava con Polly, ma non con suo padre. Wills, che adesso stava per partire militare e che l’aveva cercata tanto dopo che era morta, non aveva nessun ricordo di lei.
* * *
«Devo andare. Mi dispiace, cara, ma mi fanno a pezzi se arrivo in ritardo».
«Oh, Teddy! Dici sempre così. Credevo avessimo il pomeriggio tutto per noi. Me lo hai detto tu!». Si sollevò sui gomiti e lo guardò maliziosa. «Sei terribile».
«Non ho mai detto questo. Ho fatto sapere in ufficio che il pranzo è andato per le lunghe, ma sono quasi le quattro. È già tardi!». Saltò fuori dal letto e cominciò a vestirsi.
Lei lo guardava. «Be’, almeno manca poco al fine settimana. Hai detto che mi avresti portata in quel ristorante elegante a Bray».
«Temo che non sarà possibile».
«Perché?».
«Questo fine settimana devo andare in campagna con la mia famiglia». E prima che lei cominciasse a protestare, aggiunse: «È morta mia nonna. Il funerale è lunedì».
«Oh, mi dispiace. Non riesci a tornare almeno per lunedì sera?».
«Temo di no». Si stava annodando la cravatta. «Alzati, tesoro. Devo chiudere l’appartamento». La guardò, così discinta e seducente, con quei capelli neri dai riflessi bluastri che le ricadevano sulle spalle candide. Aveva una pelle stupenda, di seta. Teddy s’infilò la giacca e le tolse di dosso il lenzuolo. Aveva seni piccoli ma tondi, coi capezzoli di un bel rosa intenso: bastava toccarglieli per eccitarla. A letto stavano bene, ma non si poteva stare tutta la vita tra le lenzuola. Non avevano neppure pranzato, e Teddy si rese conto di avere una gran fame. In casa aveva solo del caffè – la cucina non era il suo forte e, quanto a Annie, non pareva in alcun modo interessata al cibo, a meno che non le venisse servito in un ristorante.
Finì di vestirsi e chiamò un taxi per Annie. Forse Miss Corley, la segretaria che divideva con Hugh, sarebbe andata a prendergli un panino, se glielo chiedeva con gentilezza.
Non sapeva come sentirsi riguardo alla morte della Duchessa, pensò mentre guidava per le strade di Londra. La morte gli sembrava così irreale, misteriosa e terribile da lasciarlo senza parole. Tutto moriva, era questo a sconvolgerlo. Tutto aveva fine. Perfino il divorzio dei suoi genitori, per quanto fosse stato orribile per mamma e molto imbarazzante per tutti, non aveva comportato la scomparsa di nessuno. Il traffico davanti a lui si appannò, e capì che stava piangendo. Si asciugò in fretta gli occhi. Non aveva senso frignare. Non aveva pianto quando Bernardine se n’era andata: tutto sommato la cosa lo aveva sollevato piuttosto che rattristarlo. Anche se, ripensandoci a posteriori, Bernardine gli aveva insegnato molto in materia di sesso. Il sesso gli era sembrato la cosa più bella del mondo quando lo aveva scoperto, ma allora credeva che sarebbe stato tale solo con Bernardine. Quando lei aveva voluto sposarsi, non gli era parso vero e se l’era sposata senza nemmeno avvertire i suoi. La certezza del suo amore lo faceva camminare a un metro da terra – finché non erano sbarcati in Inghilterra.
Bernie detestava ogni cosa, soprattutto il fatto che Teddy non fosse ricco come lei aveva immaginato. Be’, ormai era divorziato da anni e aveva avuto diverse ragazze, ma non aveva voluto sposarsi con nessuna. Si era concentrato sul lavoro, sullo squash, sul tennis e sulla sua collezione di dischi di pianisti jazz. Papà e Diana lo invitavano a cena circa una volta al mese e lui ogni volta mangiava a quattro palmenti e beveva anche parecchio; una volta al mese passava anche una difficoltosa serata con mamma. Era piena di risentimento; gli chiedeva di papà e lui non sapeva mai cosa dirle. Gli chiedeva anche di Diana, domande apparentemente innocue che però lasciavano trasparire il veleno che suppurava in lei. La cosa peggiore era che, sebbene lui naturalmente le volesse bene e fosse in pena per sua madre, non riusciva a immaginare che qualcuno potesse desiderare di andare a letto con lei, mentre era chiaro che Diana, che pure non gli era molto simpatica, era proprio il tipo adatto a papà. Inoltre gli dispiaceva per Roly: non vedeva mai suo padre. Ormai aveva diciassette anni e stava per diplomarsi. Forse per lui stare in collegio era stato meglio che rimanere ad abitare con la mamma.
In macchina faceva caldo. Si asciugò il viso con la mano e si ritrovò sulle dita l’odore di Annie.