Rupert e Neville

«Perciò adesso mi fai il favore di spiegarmi che diavolo sta succedendo».

Dopo quello che gli aveva detto Zoë, Rupert era andato a prendere Neville e lo aveva fatto sedere nel grande salotto che occupava tutta la larghezza dalla casa, con un caminetto su entrambi i lati corti. Caminetti che, se accesi, scaldavano solo le immediate vicinanze, e adesso erano spenti. Faceva molto freddo, perché le eleganti finestre lasciavano entrare correnti d’aria gelida che solo un serio impianto di riscaldamento, del genere che loro non potevano più permettersi da tempo, avrebbe potuto neutralizzare. Era una stanza adatta a grandi cene estive. Ed era novembre. Rupert aveva scelto quella perché lì non sarebbero stati interrotti.

Guardò Neville stravaccato sul vecchio divano imbottito. Portava i soliti pantaloni neri sbiaditi di velluto a coste e una camicia bianca di foggia un po’ ottocentesca, col colletto e le maniche ampie. La giacca buttata su una spalla. Si tastò l’interno della tasca e tirò fuori un pacchetto di sigarette. «Ne vuoi una, papà?».

Rupert rifiutò e poi cambiò idea. Non poteva impedirgli di fumare e, vista l’irrefutabile sgradevolezza del compito che lo attendeva, decise che qualche tiro gli avrebbe dato coraggio. Una volta accesa la sigaretta, tornò alla carica: «Non hai risposto alla mia domanda, Neville».

«Non so di che parli. Non sta succedendo niente».

«Lo sai benissimo di cosa parlo. Questa storia assurda di te e Juliet».

«Ah, quello. Le ho detto che l’amo. Ed è la verità».

«A sentire lei, le hai detto anche che vi sposerete».

«Quando avrà l’età giusta, sì, è probabile».

«Non puoi non sapere che è impossibile. È tua sorella!».

«Sorellastra. Cleopatra è nata da sei generazioni di incesti».

«Neville, c’è poco da scherzare».

«Oh, lungi da me ridere di Cleopatra! Chi mai oserebbe?».

«Juliet è solo una ragazzina!».

«Credi che non lo sappia?», lo interruppe Neville. «Ma ha diciassette anni. Sta crescendo. E non credere che abbia commesso delle scorrettezze con lei, come si diceva una volta. Ci siamo solo baciati. A lei piace e anche a me».

Per qualche ragione, nonostante il sollievo di sentirglielo dire, la cosa fece infuriare ancora di più Rupert. «Dovresti vergognarti! È da irresponsabili riempire di idee folli la testa di una povera ragazzina. Ti ho chiamato qui per dirti che ti proibisco di metterti in contatto con lei in qualunque modo. Non puoi venire qui, non puoi scriverle, non puoi telefonarle...».

«Sarà un colpo durissimo per lei...».

«Esatto. E che questo ti dia la misura del danno che hai già fatto. Ma le passerà, così come passerà a te. Anzi, da quel che sento dire, ti è già passata. Girano voci che te la spassi parecchio con le tue modelle».

Questo parve scuoterlo per la prima volta. «Oh, quelle! Non significano niente».

«Scommetto che per Juliet invece significano un bel po’».

«Papà! Per favore, non dirglielo. Penserà che le ho mentito».

«Perché, non è quello che hai fatto?».

«Non proprio. Non voglio farla stare male... tutto qui».

«Tacere una cosa del genere equivale a dire una bugia. L’unica persona che non vuoi far stare male sei tu stesso».

Tacquero entrambi, poi Rupert disse: «Ti propongo un patto. Se fai come ti ho detto con Juliet, io farò del mio meglio perché non venga a sapere delle tue avventure».

E con grande sorpresa di Rupert – i patti non erano proprio il suo forte – Neville acconsentì. Almeno per un anno.

Si alzarono in piedi simultaneamente: entrambi desideravano mettere fine al più presto a quello sgradevole colloquio.

«Me ne vado». Fino a poco prima aveva sperato di essere invitato a pranzo, ma adesso non vedeva l’ora di essere fuori da quella casa. Anche Rupert voleva che se ne andasse, così da evitare ripensamenti.

«Fa un freddo cane qui dentro», commentò Neville mentre uscivano. «Mi battono i denti, ma non per le cose che ci siamo detti. Sia chiaro».

Rupert gli assicurò che era perfettamente chiaro e accompagnò con sollievo suo figlio alla macchina. Si congedarono in un’atmosfera cautamente amichevole.

* * *

«Se ne è andato?». Zoë stava stirando e in cucina regnava un confortevole calduccio.

«Sì. Accidenti se fa freddo là dentro! Ho bisogno di qualcosa di forte». Si avvicinò alla stufa sfregandosi le mani. «Deve essere rimasto qualche fondo di bottiglia nella credenza... ti unisci a me?»

«No, grazie. Ma sono ansiosa di sentire come è andata. Spero si senta in colpa, perché ne ha tutti i motivi».

«Non proprio. Ha una tempra, quel ragazzo... quasi gliel’ammiro».

«Oh, Rupe! Non dirmi che lo giustifichi perché hai capito il suo punto di vista... ti succede spesso con le persone».

«Il fatto è che le persone hanno sempre un punto di vista... comunque, gli ho fatto una bella lavata di capo. Gli ho detto che non deve più avvicinarsi a Jules. Alla fine l’ho anche minacciato di raccontarle delle sue avventure con le modelle. Questo non gli è piaciuto, e ha acconsentito a lasciarla in pace per almeno un anno. Dice che “potrebbe” chiederla in moglie quando avrà l’età giusta». Bevve un sorso di whisky. «Questo almeno è un punto a favore nel caso dovessimo trasferirci a Southampton... se lo toglierebbe dalla testa più in fretta, non credi?», aggiunse con cautela.

«Allora è deciso? Hugh ha deciso che devi trasferirti? Dimmelo, Rupert. Preferisco saperlo subito».

«Nulla è deciso. Altrimenti te lo avrei detto. Hugh ha deciso di andarci lui due volte alla settimana, per vedere se riesce a sistemare la situazione».

«Be’, ha un senso. È lui il presidente».

«È possibile che ci riesca. Sai che io non desidero andarci. Non sono capace di mandare avanti un’azienda e gliel’ho detto. Ma adesso ho il dubbio che nessuno di noi sia capace».

Lei gli andò vicino e gli scostò dal viso una ciocca di capelli che continuava a cadergli sulla fronte. «Devi andare a tagliarti i capelli, caro. Se non ci vai presto, dovrò occuparmene io».

«Finché c’era il Generale andava tutto bene», proseguì Rupert. «Papà sì che conosceva il mestiere. Ma noi tre... siamo stati catapultati in azienda perché quello era il nostro posto. Edward era bravo nelle vendite, ma Hugh è sempre stato attaccato alla tradizione e faceva tutto quello che il Generale gli diceva di fare. Per quanto riguarda me... è vero, vado d’accordo coi dipendenti, per il resto credo che mi tengano lì per puro buon cuore. E naturalmente perché faccio parte della famiglia. Ma nessuno di noi, a parte il Generale, ha mai capito qualcosa di economia. Non sappiamo stare al passo coi tempi. Non abbiamo né il capitale né la struttura aziendale per sostenere l’espansione».

La conversazione s’interruppe bruscamente alla comparsa inattesa di Georgie.

«Perché non sei a scuola?».

«Ho detto che avevo mal di gola. La verità è che sono molto in pensiero per Evelyn. Non ha mangiato il topo che gli ho dato ieri, così gliene ho lasciato un altro bello grosso per colazione e sono venuto a vedere se lo ha mangiato. È ancora lì. Perciò ho paura che dovrò portarlo dal veterinario. Il dottor Carmicheal è l’unico che si intenda di serpenti e il lunedì riceve solo la mattina, perciò possiamo andarci subito, di corsa?».

«Ce lo porto io», disse Rupert. «Però non puoi svignartela così, Georgie. A scuola lo hai detto?».

«Certo che no. Non mi avrebbero fatto andare via».

«Telefono io alla scuola. Tu prendi Evelyn», fece Zoë.

«Ce l’ho già qui». Georgie si tolse la sciarpa e videro il pitone morbidamente arrotolato attorno al suo collo.

«Mamma! Non ti sei dimenticata di lasciarmi la cotenna del bacon per Rivers, vero?», domandò mentre uscivano. «Papà, devi andare il più veloce possibile. Potrebbe essere una questione di vita o di morte».

Rupert accelerò un poco e segnalò l’urgenza della situazione imitando con una certa efficacia la sirena di un’ambulanza, cosa che deliziò Georgie.

* * *

Il dottor Carmichael era molto affezionato a Georgie e trovava sempre un po’ di tempo da dedicargli. La sala d’aspetto era piena di gatti riluttanti nelle loro gabbiette e di cani in sovrappeso, ma Evelyn fu chiamato non appena il dottore ebbe finito con una lontra, distesa sul lettino ancora sotto l’effetto dell’anestesia.

«Ho pensato che ti sarebbe piaciuto vederla», disse il veterinario togliendosi i grossi guanti di cuoio.

Georgie fissava l’animale, in estasi. «Posso toccarla?».

«Adesso che è addormentata sì. Ma sono bestiole nervose e se sono spaventate hanno un morso micidiale. Una volta chi allevava cani da lontra foderava loro le zampe di argilla, perché le lontre non mollano finché non sentono l’osso spezzarsi. E scambiavano l’argilla per l’osso».

«Che pelliccia magnifica! E che musino! Guarda i baffi... si possono addomesticare?».

«Qualcuno ci ha provato. Ma non pensarci nemmeno, Georgie. Digeriscono in sole due ore e per sfamarle ci vuole una quantità mostruosa di pesce. Inoltre hanno bisogno di acqua corrente e di spazio per nuotare. Il loro posto è la natura». Carmichael mise delicatamente la bestiola nella sua gabbia e fece un cenno all’assistente perché la portasse via.

«Allora, che è successo a Evelyn?».

Srotolò il serpente dal collo di Georgie e cominciò a tastarlo. «Tienigli la testa, Georgie, mentre lo visito... credo che abbia una piccola ostruzione che gli impedisce di deglutire. È meglio se lo lasci qui per un giorno o due. Lo rimetteremo in sesto».

«Non posso restare con lui?».

«Non puoi, ma se me lo lasci per qualche giorno, sabato pomeriggio potrai aiutarmi con gli altri pazienti, se tuo padre è d’accordo». Rupert non aveva nulla in contrario, e l’infermiera portò loro una scatola di cartone dove Evelyn fu riposto con mano sollecita.

Sulla via del ritorno, Georgie disse: «Stavo pensando che potrei scavare uno stagno in fondo al giardino. E poi sono certo che i chioschi di pesce e patate hanno un sacco di scarti che potrei comprare per pochi spiccioli...».

«No, Georgie. Non se ne parla nemmeno. Non ho intenzione di discutere. Una lontra no».

«Oh, papà, perché sei così deciso? Non è da te».

«Be’, stavolta è così».

Ci fu un lungo silenzio. Poi Georgie borbottò asciugandosi gli occhi: «Sarebbe bello lo stesso avere uno stagno. Potrei metterci i tritoni e, se Carter mi dà qualcuno dei suoi girini, anche delle rane».

«Ho capito. Ci penserò». Georgie sapeva che più suo padre pensava a una cosa, più le sue certezze vacillavano, e decise di considerarlo per il momento un buon risultato. Era da tempo che desiderava avere uno stagno, e dallo stagno alla lontra il passo poteva essere breve.