Clary e Archie

«Non andiamo a Home Place per Natale? E perché?».

«Te l’ho detto, Bertie. Il tetto è in pessimo stato... la pioggia entra in casa, ci sono gli operai, eccetera».

«Non capisco come questo ci impedisca di andare».

«Possiamo portarci la tenda», suggerì Harriet.

«Sì, infatti. E tu e papà potreste dormire nella stalla».

«E potremmo dire anche agli altri di portarsi le tende. E i genitori potrebbero dormire con voi nella stalla. È facile».

«È un’ottima soluzione», disse Archie. «Ma dovremo pur mangiare di tanto in tanto. Non si va, è deciso. Possiamo passare un bellissimo Natale a casa».

Harriet scoppiò in lacrime. «Io voglio passare il Natale in campagna, con la neve. Lo voglio tantissimo!».

«Ma se nevica in campagna è probabile che nevichi anche a Londra».

«La neve a Londra non è la stessa cosa. Si scioglie e diventa tutta grigia in un battibaleno».

«Inoltre non è detto che nevichi», intervenne Clary. «Harriet, se devi piangere, smetti di mangiare. Hai la faccia ricoperta di pappa d’avena».

«Non è vero che è ricoperta», la corresse Bertie. «Ne ha solo qualche pezzetto sul mento. Esageri sempre, mamma. È una cosa fastidiosa. “Sei sudicio!”, “Hai la fronte bollente!”, quando magari uno ha solo le ginocchia sporche oppure ha fatto una corsa!».

«Altro caffè?», disse Clary ad Archie con la voce tremante di chi tenta di soffocare il riso, e Archie si rese conto con una certa tristezza che le cose tra loro erano molto più semplici quando erano presenti i bambini.

Le vacanze erano cominciate per i piccoli e per lui: tre settimane da dedicare a loro, perché trascorressero un periodo felice. Quel giorno il programma prevedeva una gita allo zoo con Rupert e Georgie, finita la quale sarebbero andati a pranzo da loro, ma non prima di essere passati a prendere Clary con la macchina di Rupert: una bella giornata. Aveva anche cercato di convincere Clary a venire allo zoo, ma non poteva.

Quando marito e figli furono usciti, Clary tirò fuori la lettera che aveva ricevuto il giorno prima, si accese una sigaretta e si sedette in cucina a leggerla per la terza volta. Recava la firma del direttore di una certa Bush Theatre Company e diceva che la commedia intitolata Three is not company era stata letta da diversi membri della compagnia incluso l’attuale direttore, Matt Corsham, e che sebbene egli ravvisasse la necessità di qualche modifica qua e là, erano interessati a metterla in scena. Le si chiedeva di telefonare per prendere un appuntamento.

Era vero. Ce l’aveva fatta! La prima volta che l’aveva letta aveva faticato a crederci. Alla seconda lettura aveva ceduto a una gioia euforica. Era meraviglioso ed era vero: era un’autrice. Si lasciò andare a una serie di fantasie sulla sua commedia che riscuoteva un successo talmente straordinario che subito i produttori del West End chiamavano grandi star come Peggy Ashcroft, Dorothy Tutin e Laurence Olivier per metterla in scena...

Ma in tanta gioia c’era un neo, bello grosso e difficile da ignorare. Ad Archie non aveva detto niente. Era convinto che fosse al lavoro su un altro romanzo. Lei non gli aveva mai parlato di una commedia. Dopotutto, si era detta all’inizio, la scrittura teatrale poteva benissimo non essere il suo forte. In quel caso avrebbe buttato via tutto e nessuno ne avrebbe saputo niente. Invece quel tipo di scrittura le era riuscito sorprendentemente bene: una volta definita la struttura della trama, si era concentrata sui tre personaggi e si era immersa sempre di più nei loro punti di vista. Adesso però doveva dirglielo, cercare di spiegargli che cosa l’aveva spinta a scrivere di quella particolare vicenda.

In quel momento squillò il telefono. Polly aveva saputo che il Natale a Home Place quell’anno non si sarebbe fatto e le chiedeva se aveva voglia di venire a passarlo da lei con tutta la famiglia. «Ti avverto, dovrete vestirvi da esploratori polari! Gerald e io ne saremmo felici. Ci sarà anche Simon. Non ti vedo da tanto di quel tempo, Clary. Sarebbe bellissimo».

«A noi piacerebbe venire, Poll... se non è troppo per te».

«Certo che no! Gerald si lamenta sempre che ci sono pochi bambini... e dire che mi sono data da fare: ne ho messi al mondo quattro. Oh, Clary, che bello sarebbe vederti, e anche Archie! Venite il giorno prima della vigilia, così non ci sarà troppo traffico. Non vedo l’ora di chiederti del tuo nuovo romanzo. Papà mi ha detto che scrivi molto».

Chiacchierarono un altro po’, e Polly le disse anche: «A proposito, Nan sta cominciando a perdere colpi, ma non con i bambini. Meglio che tu lo sappia prima».

Dopo la telefonata con Polly, Clary mise insieme il coraggio per telefonare a Matt Corsham, la cui firma era a metà tra lo scarabocchio di un bambino e un simbolo su un cartello stradale. Per fortuna almeno c’era il suo nome stampato sulla carta intestata. Gli spiegò che non avrebbe avuto modo d’incontrarlo prima del nuovo anno, ma che dopo quella data qualunque giorno andava bene.

Si accordarono per il tre gennaio. «Se dovessimo avere qualche impedimento, la chiamo», disse Corsham prima di riappendere. Evidentemente, pensò Clary con sollievo, non aveva fatto caso all’assenza del numero di telefono sulla sua lettera. Doveva assolutamente parlare con Archie prima di quella data.

* * *

«Credimi, Clary, non so cosa fare. Abbiamo passato tutto un fine settimana laggiù alla ricerca di una casa, ma non siamo d’accordo su cosa cercare. Tuo padre sogna una romantica dimora georgiana in qualche paesino sperduto, lontano da qualunque scuola, così a me toccherebbe scarrozzarli in giro tutto il giorno. Se proprio dobbiamo trasferirci, io preferirei stare quanto meno a Southampton, dove ci sono i trasporti pubblici e un po’ di vita!».

Finito di pranzare, Archie e Rupert avevano portato i bambini a Richmond Park, in modo che «scaricassero all’aperto le loro energie demoniache», come diceva Archie. Juliet si era rifiutata di andare con loro. Alle insistenze di suo padre era scoppiata a piangere e aveva strillato che alla sua età poteva ben decidere cosa fare dei suoi pomeriggi. «E poi io detesto l’aria fresca!», aveva proclamato prima di salire di corsa le scale e chiudersi alle spalle con forza la porta della sua camera.

«Be’, possiamo fare a meno di lei. Visto che non apprezza la nostra compagnia...», era stato il commento poco convinto di Harriet.

«E quel che è peggio, Rupe neanche vorrebbe andarci! Per niente, in effetti. Detesta gli incarichi di responsabilità e adora questa casa. Infatti non vuole venderla ma darla in affitto. Ma il pensiero di liberarla perché venga a starci qualcun altro mi fa tremare le vene dei polsi».

«Ti aiuto io», disse Clary. Stava sciacquando i piatti, e Zoë li asciugava.

«E poi avrai saputo di Home Place. Per i bambini è stata una terribile delusione, soprattutto per Juliet, il che è sorprendente. Grazie, però, per esserti offerta di darmi una mano. Stavo pensando, perché non venite qui da noi a Natale?».

«Sarebbe bellissimo, ma stamattina mi ha telefonato Polly e ci ha invitati e le ho detto di sì. I bambini erano così dispiaciuti di non andare in campagna... E poi a me e ad Archie serve un po’ di riposo, un cambiamento d’aria».

«Dovevo dirtelo ieri. Oh, Clary, perché non ti metti i guanti?».

Clary si era ravviata i capelli con la mano insaponata. «Non mi va. Lo so, ho delle mani orribili», aggiunse. «Tutte rosse, gonfie, screpolate. Non ho nemmeno smesso del tutto di mangiarmi le unghie e quando mi metto le calze spesso le rompo per quanto è ruvida la mia pelle. Ad Archie non piace affatto». Gli occhi le si colmarono improvvisamente di lacrime e si voltò verso Zoë. «A volte non hai la sensazione che il matrimonio sia una specie di lavoro? Un lavoro dove non hai mai un giorno libero e, se capita una cosa brutta, ti tocca sopportarla e basta».

Zoë scostò una sedia dal tavolo, fece sedere Clary, tirò fuori un pacchetto di Gauloises e ne accese una prima di rispondere. «I primi tempi mi sentivo completamente fuori posto. Amavo moltissimo Rupert, ma non capivo perché ci tenesse tanto a dipingere quando poteva avere un posto migliore nell’azienda di famiglia. Mi sentivo inferiore a Villy e a Sybil, e questo mi rendeva aggressiva e e piena di pretese con lui. Perciò sì, credo di sapere di cosa parli. Stai passando un brutto periodo, eh?».

«La colpa è solo mia». Si accese una sigaretta anche lei e l’aspirò con gratitudine. «Solo e soltanto mia».

«Non è mai colpa di uno solo», disse Zoë a bassa voce. «L’ho imparato alla fine della guerra. Ci siamo innamorati entrambi di altre persone, sai? Tutti e due».

«E cosa è successo?».

«L’uomo che amavo è morto. E Rupe ha dovuto lasciare la sua ragazza... be’, la sua donna, in Francia. Il fatto è che bisogna parlarsi, Clary. Per risolvere i problemi...».

«Lo so. Ma ho tanta paura e non so da dove cominciare».

«Ti sei innamorata di un altro?».

«Oh, no. Non potrei mai. Io amo Archie».

Raccontò a Zoë ogni cosa. Anche il fatto che alla fine Archie aveva lasciato l’altra ragazza e che era evidente che soffriva per questo. Le disse anche della commedia: chi erano i protagonisti e il responso positivo che aveva avuto.

«E lui non ne sa niente! È convinto che stia scrivendo un altro romanzo, invece a me è venuta l’idea di una commedia sul nostro particolare triangolo e ho sentito il bisogno di scriverla. È incredibile, ma scriverne mi ha fatto capire molto meglio il punto di vista delle altre due persone coinvolte».

«Devi dirglielo. Fagliela leggere. Questa sera, Clary. I bambini possono restare da me, così avrete il tempo e la tranquillità per parlarne. Adesso devo andare a dare la carota a Rivers, sennò Georgie non mi guarderà più in faccia».

Clary fece per ringraziarla.

«Non ringraziarmi. Georgie ne sarà felice e Rupe li riporterà a casa domani mattina».

E si affrettò ad andare via, perché Clary avesse il tempo di ricomporsi dopo il suo sfogo. Le confidenze avevano risvegliato in lei i sentimenti sopiti ma mai del tutto scomparsi per Jack Greenfeldt. Negli anni si erano affievoliti, si erano fatti più distanti, familiari, e per questo meno destabilizzanti. Ogni volta che ci pensava o ne parlava, come le era appena successo con Clary, le sfilavano nella memoria le stesse immagini: l’ultima volta che l’aveva visto, a Home Place, il giorno in cui era andata a liberare l’appartamento che era stato il loro rifugio segreto, l’angoscia che doveva aver patito Jack alla vista dei campi di concentramento e che l’aveva condotto al suicidio, un atto che Zoë aveva imparato a considerare d’amore e di coraggio. I ricordi riemergevano intatti e riuscivano ancora a provocarle fitte di dolore... Non solo Clary, ma anche lei stessa, pensò Zoë, aveva bisogno di tempo per ricomporsi.

Rivers non sembrava minimamente interessato alla sua carota e si comportò come se Zoë avesse interrotto un sonnellino di cui aveva un gran bisogno. Almeno, pensò Zoë asciugandosi gli occhi, Juliet non avrebbe dovuto fare i conti con la guerra e sopportare quello che aveva sopportato lei.

* * *

Juliet era riversa sul letto. Aveva pianto fino a non avere più lacrime, per poi rigirarsi indolenzita, supina, a fissare il soffitto. Sembrava la fine del mondo. Erano quattro settimane, tre giorni e cinquanta minuti che non aveva notizie di Neville. L’ultima volta era stata la sera in cui l’aveva portata a teatro a vedere quella commedia così deprimente (ma a lui era piaciuta, perciò anche lei se ne era dichiarata entusiasta). Dopo erano andati in un ristorante cinese dove si mangiavano tante minuscole porzioni di cose deliziose, per esempio i ravioli fritti e i gamberoni avvolti in foglie verdi non commestibili. Lui aveva usato le bacchette, ma lei aveva dovuto rinunciarci perché il cibo non faceva che schizzarle via dalle punte scivolose. Si era messa il vestito nuovo, quello blu scuro che aveva preso alle svendite di Fenwick, e aveva passato ore a truccarsi, ripulendosi e ricominciando da capo più di una volta. Alla fine aveva optato per un ombretto verde e ciglia finte, talmente pesanti che faticava a tenere gli occhi aperti, un fondotinta chiaro e un rossetto rosso intenso che aveva steso anche oltre i margini delle labbra. Di certo sembro diversa, pensò osservandosi non del tutto convinta.

Quando Neville venne a prenderla scoppiò in una fragorosa risata. «Sembri un incrocio fra un cucciolo di panda e un fantasmino verde! Perché l’hai lasciata fare?». La domanda era rivolta a Zoë, che fece spallucce e disse. «Non ho più voce in capitolo su come si combina». A dirla tutta, Zoë aveva espresso le sue riserve ma era stata zittita.

Neville allora le aveva preso la mano e l’aveva trascinata di sopra. «Non ti permetto di rovinare il tuo viso stupendo con quella robaccia. Lascia fare a me. Ho una certa esperienza di cosmetici».

Juliet, muta di vergogna e rabbia per essere stata irrisa a quel modo al cospetto di sua madre, si era seduta davanti al tavolo da toeletta ed era scoppiata a piangere. Il pavimento della sua stanza era cosparso di vestiti, il letto disfatto... una scena che non avrebbe voluto mostrare a nessuno, meno che mai a Neville.

«Tesoro, se continui a piangere, somiglierai più che mai a un panda». Le sistemò sulle spalle la giacca del pigiama. «Ecco qua. Non bisogna rovinare il tuo bel vestito. Ora, per prima cosa, ti tolgo queste due diavolerie dagli occhi. Uno strappo deciso è la cosa migliore». In effetti lavorò in modo così abile e delicato che non le fece alcun male, e le ciglia finte, posate sul palmo della sua mano, le parvero due orribili insetti preistorici. Neville le buttò nel cestino della carta straccia, che era già pieno.

Per la mezz’ora successiva le pulì il viso dicendole spesso che diventava sempre più graziosa. Juliet cominciò a sentirsi meglio e a bearsi delle cure e dei complimenti di lui. Le spiegò che era troppo bella per truccarsi. «Pensa che brutto sarebbe se fosse vero il contrario», le disse quand’ebbe finito. «Adesso, mia cara Juliet, andiamo o ci perderemo l’inizio della commedia».

Era stata una serata stupenda, e nelle settimane seguenti si era accontentata di ripensarci e di vantarsi con le sue amiche a scuola perché usciva con una persona così interessante. Poteva scrivergli e indirizzare le lettere a casa sua – di recente si era trasferito in un posto migliore –, ma lui non le scriveva mai. Troppo pericoloso, diceva. Dovevano aspettare che lei fosse un po’ più grande. Ogni volta che si trovava in casa da sola provava a telefonargli, ma solo una volta aveva avuto fortuna e lui aveva risposto alla chiamata. Non era parso contento di sentirla e lei, per parte sua, si era ritrovata presto a non sapere cosa dirgli. Aveva sentito della musica e una voce femminile. «Nev? Nev!».

«Devo andare. Sto lavorando».

Poi, quel giorno a pranzo, aveva domandato con finta noncuranza se qualcuno avesse notizie di Neville, e suo padre aveva detto che aveva conosciuto una nuova modella da cui era molto preso: una rivista aveva pubblicato un lungo articolo su Christian Dior, che era morto quell’autunno, e Neville aveva fatto le foto: sei immagini di Serena con dei modelli di Dior. Archie le aveva viste, sì, aveva raccontato, erano davvero notevoli. «Vale quasi la pena di andare dal dentista per vederle». Qualcuno poi aveva osservato che se c’era uno capace di trasformare una modella in una Suzy Parker o in una Bronwen Pugh, be’, quello era Neville. «Soprattutto se ne è innamorato».

Era riuscita a tenere duro per alcuni interminabili minuti prima che qualcuno cambiasse discorso, e poi, fingendo un attacco di tosse, si era scusata ed era corsa di sopra. Il tempo non l’avrebbe guarita. Era condannata a vivere il resto della sua vita schiacciata dal peso di un dolore segreto e insopportabile. Nessuno poteva capire cosa significasse amare come amava lei e doversi strappare quel sentimento dal cuore. Gliel’avesse detto, almeno! Se non avesse sollevato l’argomento in famiglia, ne sarebbe rimasta all’oscuro fino a quando non le fosse arrivato l’invito al matrimonio. O forse avrebbe notato il cambiamento in lui. In effetti le era parso strano al telefono: la musica e poi quella voce femminile, senza dubbio quella di Serena.

Si mise a immaginare come sarebbe stato il resto della sua miserabile vita. Una volta aveva letto un romanzo storico in cui l’eroina, sottratta a forza all’uomo della sua vita, diventava una suora e veniva rinchiusa in convento per il resto dei suoi giorni, a pregare da mattina a sera con la cuffia in testa chiedendo perdono per aver amato un uomo sposato. Se era questo il suo destino, pensò Juliet, lei si sarebbe distinta per la sua devozione, avrebbe digiunato e dato il suo pane agli uccelli, avrebbe nutrito gli ammalati e accolto con gratitudine ogni genere di umiliazione. Anche se tutte le altre suore la additavano a esempio di santità e la reverenda madre la chiamava “la mia cara, cara bambina”, lei sarebbe rimasta umile e alla sua morte tutte nel convento avrebbero pianto la loro “piccola santa”. Certe volte però le fantasie superano il segno, e questa in particolare si era spinta su terreni privi di qualunque credibilità. Allora scoppiò in una risata di isterico sollievo. Il futuro non poteva essere tanto terribile. Lei non aveva genitori così crudeli da chiuderla in convento solo perché non aveva fatto il matrimonio giusto. Una volta finita la scuola, sarebbe cominciata la sua vera vita. Una vita triste, sì, ma le avversità fanno crescere, rafforzano il carattere. Cadde quasi subito in un sonno profondo e ristoratore.