Clary e la sua commedia

Nel piccolo teatro faceva molto freddo e aleggiava un vago odore di gas. Le audizioni si tenevano intorno al bancone circolare del bar (non ce n’erano altri). Gli attori che dovevano interpretare il marito e la moglie erano stati già scelti; la parte femminile era stata assegnata a un’attrice affidabile con molta esperienza nelle compagnie di repertorio, che aveva anche recitato in piccole parti a Stratford. Per il ruolo del marito, Jake, il regista, aveva fortemente voluto Quentin Frome. «Straordinario attore... un po’ egocentrico, ma le donne lo adorano. Ci riempirà il teatro, vedrai». Per il momento non si era ancora palesato. «Oggi però viene a vedere le candidate per il ruolo di Marigold. È molto esigente per quanto riguarda le sue partner».

Clary pensò che doveva essere un pallone gonfiato, ma dubitava che la sua opinione sarebbe stata presa in qualche considerazione. Stavano bevendo del pessimo caffè nei bicchieri di plastica.

Aspettarono un’altra ora, poi Jake decise di cominciare con le audizioni. «Non possiamo far aspettare queste poverette per tutto il giorno».

La scena, spiegò a Clary, era quella in cui Marigold dichiara a Conrad il proprio amore, e lui, che già da tempo è attratto da lei, la ricambia. La prima candidata aveva un forte raffreddore e, sebbene sostenesse di aver imparato la parte, commise diversi errori e si impappinò. La seconda aveva una chioma tale che a malapena le si vedeva la faccia e sbagliò completamente la tonalità. Stavano per mandarla via quando apparve Quentin. Entrò nel bar profondendosi in tonanti scuse per il ritardo, vide la ragazza che se ne stava andando e si posò con ostentazione l’indice sulle labbra. Jake lo presentò a Clary e lui le sfiorò la guancia con due dita prima di farle il baciamano. «La nostra geniale autrice! Mi hai lasciato senza parole, mia cara. Solo il mio sangue ti parla da dentro le mie vene». La voce melodiosa scese di un’ottava, quando aggiunse: «Davvero, hai scritto una parte eccellente... sembra fatta apposta per me».

Clary tenne per sé il proprio disgusto e lo ringraziò con la morte nel cuore. Peggio di così non poteva andare: vanitoso e artefatto, e per di più vecchio. Mentre aspettavano la terza Marigold, lo studiò più attentamente. I capelli erano stati rossi, un tempo, e adesso erano di un grigiastro indeciso. Aveva dei pallidi occhi azzurri, e la bocca carnosa. Il naso era aquilino, leggermente troppo grosso rispetto al resto della faccia. Era piuttosto in carne. La fronte poteva dirsi alta e nobile, a patto di non fare caso all’incipiente calvizie. Non ricordava di aver mai concepito pensieri tanto livorosi sul conto di qualcuno.

Entrò la terza Marigold. Quentin la squadrò da capo a piedi e disse: «Mi dispiace, mia cara: sei troppo alta... mi farebbe sembrare un nano!», aggiunse poi rivolto a Jake, il quale annuì dispiaciuto alla ragazza che se ne stava davanti a loro tentando di farsi piccola.

«Mi dispiace molto... Miss Miller, vero? Avrà più fortuna un’altra volta».

«Quante ne restano?».

«Una sola, Quentin».

E poi, con sommo stupore di Clary, il direttore di scena rientrò in compagnia di Lydia Cazalet. Lydia! Non la vedeva da anni. Portava un giaccone di lana col cappuccio sopra un paio di jeans, e i lunghi capelli biondi legati in una coda di cavallo. Fece l’occhiolino a Clary e poi venne presentata a Quentin, il quale si ringalluzzì tutto vedendola.

«Niente azione, per oggi... solo una lettura. Miss Cazalet, vero? Siete parenti?».

Clary disse: «Sì, veramente siamo cugine, ma non avevo idea che sarebbe venuta oggi». Sperava ardentemente che Lydia si rivelasse brava e ottenesse la parte, ma temeva che Jake vi vedesse una forma di nepotismo.

«Bene. Io allora mi sistemo su questo sgabello alto... e direi che tu, mia cara, potresti sederti sulla sedia accanto, che è un po’ più bassa...».

«D’accordo». Lydia prese dei fogli dalle tasche del giaccone e si concentrò. Ciò che accadde dopo lasciò Clary di sasso.

Misero in atto la scena, e fu come se stesse accadendo davvero. Lydia si trasformò di colpo in una creatura giovane e vulnerabile, confusa e innamorata, mentre lui come per miracolo diventò tenero, protettivo e appassionato. Quella sua voce tronfia e compiaciuta s’addolcì di un tono delicato e vibrante di cui non lo avrebbe mai creduto capace: diventò insomma irresistibile, e lei infatti non seppe resistergli. Anche la sua faccia sembrava diversa, pensò Clary rapita da quel prodigioso fenomeno.

Poi li vide scivolare via dai rispettivi personaggi. Fu un cambiamento altrettanto istantaneo. Come se qualcuno avesse spento la luce. E Quentin disse: «Bene, cara. Sei quella che fa al caso nostro. Sempre che il capo sia d’accordo».

«È d’accordo», disse Jake. La scena lo aveva commosso e si stava tamponando gli occhi col fazzoletto.

Clary vide Quentin dire qualcosa di inudibile all’orecchio di Lydia, che replicò fredda: «Grazie, ma vado a pranzo con mia cugina». Clary capì che non gli piaceva essere respinto, ma ne ebbe appena il tempo perché subito Lydia salutò Jake, la prese sotto braccio e dopo pochi secondo erano nel foyer.

«Aspetta un attimo, che prendo il bagaglio». Ma in quel momento apparve il direttore di scena con la sua valigia. Lydia disse che conosceva un buon ristorante italiano proprio dietro l’angolo, potevano andare a mangiare lì.

Quando si allontanarono un po’ dal teatro, Lydia si fermò per afferrare la valigia, stracolma e tenuta insieme da una corda, con l’altra mano.

«Te la porto un po’ io».

«Ti ringrazio tanto. Aver ottenuto il lavoro mi fa girare la testa!».

Vacillava un poco, e Clary le cinse le spalle col braccio.

«Che ti prende, Lydia? Non stai bene?».

«Non è niente. Devo mangiare qualcosa. Tutto qui. Credevo di trovare qualcosa da mandare giù sul treno, stamattina, invece non c’era niente».

«Quando hai mangiato l’ultima volta?».

«Mi pare di aver mangiato un sandwich col formaggio ieri... poi è successo tutto molto in fretta. Ho detto che dovevo andare via, ma Billy non mi ha creduta e mi ha trattenuta alle prove tutto il giorno, dopodiché è venuto al mio alloggio e mi ha piazzato una scenata che non ti dico, nemmeno le valigie sono riuscita a fare. Quando finalmente se n’è andato era l’una del mattino. Mi sono dovuta alzare presto per prendere il primo treno. La stazione è lontana e avevo paura che mi seguisse, ma per fortuna non l’ha fatto». A quel punto del racconto era senza fiato e arrivarono al ristorante da Marco, dove c’era un piacevole tepore. Il cameriere le liberò dei cappotti, le fece sedere a un tavolo in un angolo e servì loro una zuppa di legumi toscana e due bicchieri di rosso. Il viso pallido di Lydia cominciò a riprendere colore. «La tua commedia è davvero favolosa. Da quando scrivi per il teatro?».

«Questa è la mia prima commedia. Mi sento davvero fortunata. Tu sei stata bravissima in quella scena. Era esattamente come l’avevo immaginata. Ma come sei venuta a saperlo?».

«Ecco... non ne potevo più di lavorare con le compagnie di repertorio prendendo il minimo sindacale. Ormai sono quasi quattro anni che lo faccio, e il mio agente non era nemmeno mai venuto a vedermi recitare. Così ne ho preso un altro, e lui è venuto a vedermi in una produzione di Ibsen. Mi ha mandato la tua commedia, ma non ho voluto dirtelo, nel caso tu mi avessi considerata non adatta alla parte». Bevve un gran sorso di vino. «Che cosa ordiniamo?».

«Pasta e sardine grigliate. Per me questo è il pranzo».

«Grazie. Oh Clary, che bello rivederti! Ho perso di vista tutti. Ci lasciano pochissimo tempo libero, e quando ne ho un po’ il Demonio si assicura che io non possa allontanarmi mai».

«Immagino che il Demonio sia Billy».

«Sì. Ho avuto la pessima idea di iniziare una relazione con questo tizio e mi ci è voluto un sacco di tempo per capire che l’unico modo di rompere con lui era andarmene e basta. È matto, capisci? Ma lasciamo stare... dimmi della famiglia».

Per tutta la durata del pranzo Clary ragguagliò Lydia su tutte le novità che le vennero in mente. Finito di mangiare, pagò il conto e poi le venne un dubbio. «Dove alloggi ora che sei a Londra?».

«Non ci ho ancora pensato. Troverò un posto».

«Vorrei poterti ospitare ma non ho proprio spazio. I bambini dormono in un’unica stanza e non ne abbiamo altre.

«Oh, ma non avevo intenzione di piombarti in casa, davvero!». Dopo una breve riflessione disse a mezza voce. «Immagino che dovrò andare da mamma».

Ci fu un altro silenzio. Poi Clary disse: «Roland non c’è, e ti ho raccontato della povera Miss Milliment. Credo che tua madre si senta molto sola. Puoi provare a stare da lei per una settimana e poi, se è troppo deprimente, troveremo qualcos’altro». Osservò Lydia e nel frattempo le portarono la valigia. «È tutta qui la tua roba?».

«Sì. Tutti i miei beni terreni. Ho dovuto lasciare un sacco di libri e cose che avevo comprato per la casa, ma non m’importa... certo che devo andare da mamma. Mi sono comportata malissimo con lei. E poi voglio andare a trovare Miss Milliment. Le devo moltissimo. È stata lei a insegnarmi ad apprezzare la poesia».

Clary volle accompagnarla da zia Villy. Trascinarono la valigia fino alla fermata dell’autobus che poi le portò in fondo alla strada dove abitava la zia. Lydia insistette per portare da sola la valigia, ma mentre camminavano le confidò: «Spero tanto che mamma mi lasci dormire un po’ prima di sommergermi di domande. Sono distrutta».

Clary le disse: «Non ti preoccupare. Glielo dico io. Che te ne pare di Quentin?».

«So che è un ottimo attore. Ma mi creerà dei problemi. Ci proverà di sicuro, ma credo di riuscire a gestirlo».

E Clary sentì una sensazione strana, mai avvertita prima e piuttosto spiacevole. Se fosse stata in una condizione, puramente teorica, di perfetto equilibrio, avrebbe detto che aveva un po’ d’invidia per Lydia e per la sua tranquilla sicurezza che quell’attore affermato e attraente ci avrebbe provato con lei. La gente di teatro era avvezza a quel genere di situazioni. Non che quel genere di situazioni fosse un’esclusiva degli attori: capitava anzi alla maggior parte delle persone. Ma non a lei. L’unico a interessarsi a Clary era stato Archie, che del resto si era interessato anche a un’altra persona.

«È il mio turno», disse allungando la mano verso la valigia. «Tu non ce la fai più».

* * *

Villy era intenta a riparare dei bastoncini di avorio per giocare a shanghai, e fu entusiasta di vedere sua figlia. L’espressione che fece ricordò a Clary la donna che era stata prima che Edward se ne andasse, e tornò a casa pensando a com’era meraviglioso avere dei figli, a quell’amore del tutto incondizionato che nulla poteva scalfire...

Queste cose le pensò prima di rendersi conto che era in trappola. Perché già allora era del tutto succube di un’ondata irresistibile di desiderio... o di lussuria, come rabbiosamente la definiva. Cominciò ad andare alle prove ogni volta che i doveri familiari glielo consentivano, e per tutto il tempo non faceva che fantasticare di essere lei quella che lui prendeva tra le braccia, lei quella che veniva abbandonata, lei quella che cercava di comprendere le ragioni della sua infedeltà. Nel momento in cui Quentin baciò Lydia nel ruolo di Marigold, si sentì le gambe molli dal desiderio. Quando però la compagnia si scioglieva per andare a pranzo o a bere un caffè, gli rivolgeva a malapena la parola: non le piaceva quando era se stesso, faticava addirittura a sopportarlo. Durante quelle settimane di furtivo struggimento fu acutamente sensibile alla sua presenza: non le sfuggì che fece altre avance a Lydia e venne di nuovo respinto, né che a un certo punto rivolse le sue attenzioni a Betty Parker (non durò a lungo). E venne anche il suo turno. Naturalmente era fuori questione: lei era una donna di trentadue anni felicemente sposata, con due splendidi bambini.

La invitò a pranzo. Che male c’era? Magari passare qualche ora con l’uomo reale, tanto poco desiderabile, l’avrebbe guarita da quell’ossessione, le avrebbe dato gli strumenti per separare l’attore dal personaggio.

Questo naturalmente non accadde. Nell’istante stesso in cui si sedettero al tavolo del piccolo e lussuoso ristorante dove Quentin era chiaramente una presenza fissa, lui diventò l’attore e prese a corteggiarla con la sua voce bassa e seducente, dicendole che l’aveva notata fin dal primo giorno ma non aveva osato avvicinarla perché lei era l’autrice di quell’autentico capolavoro, davvero straordinario per un’opera prima, e a lui era parso di poterla amare solo così, a distanza... Il cameriere servì le ostriche e un altro gli versò il vino, lui lo assaggiò e approvò con un cenno... eppure, continuò, quando i loro sguardi si erano incrociati aveva sentito qualcosa, come una corrente. Una corrente elettrica, per caso? Un fluido magico che li legava. «E a un certo punto, quando mi osservavi con tanta attenzione creativa, mi è sembrato che lo sentissi anche tu». La fissava negli occhi e lei ne era completamente rapita, non riusciva a guardare altrove.

«Hai gli occhi più espressivi che abbia mai visto». Le prese la mano e la baciò. «Mangia le ostriche. Sennò le sogliole si freddano».

Mangiare la riportò un poco coi piedi per terra. «Mangi le stesse cose ogni giorno?», gli domandò. Non le era sfuggito che non c’erano stati menu né ordinazioni.

«Quando vengo qui, sì. Ho dato per scontato che ti piacesse il pesce».

Gli fece cenno di sì. «È solo che non ho molta fame».

«È un buon segno».

«Di cosa?».

Le rivolse uno sguardo adorante che le fece tremare le ginocchia. «Io, quando sono innamorato, ho sempre una gran fame».

Clary aveva finito le ostriche e fu allora che lui le posò le dita sulla guancia in una carezza. «Mangia, mia cara Clarissa. Devi tenerti in forze».

Questo le fece venire in mente due cose: una frase che aveva detto Lydia – che Quentin sarebbe diventato il nuovo Demonio – e che quel gesto delle due dita lo aveva fatto anche con lei, con Lydia, la prima volta che si erano visti. Ma il fatto di piacergli la stregava più di qualunque altra cosa potesse mai dire o fare.

«Sei incantevole quando arrossisci», le disse. «Un rossore da eroina romantica».

«Perché, ci sono altri modi di arrossire?». Fu fiera di quella replica così sofisticata.

«Be’, sai, a volte si dice “mi sono fatto rosso come un peperone” o “sono rosso come se avessi corso una maratona”... È la fine del romanticismo. Ma tutto questo non vale per te, Clarissa cara...».

Fu servito il pesce.

Quentin disse che dovevano sbrigarsi a mangiare per non arrivare tardi a teatro. In taxi, le mise una mano intorno alla vita, la fece voltare verso di sé e la baciò. I primi secondi furono di puro panico, come se stesse annegando, poi l’avvolse un senso meraviglioso di libertà e si lasciò andare all’estasi di quell’esperienza nuova che era la realizzazione dei suoi sogni più sfrenati: gli cinse il collo con le mani, lo strinse a sé ricambiando i suoi baci e le loro bocche si fusero insieme.

Fu lui a staccarsi per primo, pagò il tassista e disse che sarebbe entrato dall’ingresso principale, mentre lei era meglio che entrasse dalla porta riservata agli artisti. «Magari tirati su i capelli, così questo rimarrà il nostro piccolo segreto. Ci vediamo allo stesso angolo dopo le prove. Chiameremo un taxi e andremo nel mio albergo, dove c’è un bar tranquillo e piacevole». Disse tutto molto in fretta, poi la lasciò lì a raccogliere le forcine dal sedile del taxi.

Provavano le ultime scene: quando Anthony diceva a Marigold che tra loro doveva finire e poi c’era il confronto finale con Martha, la moglie.

Gli attori erano già in scena e Clary prese posto in galleria, al buio. Aveva bisogno di stare da sola. Verso la metà di quel pomeriggio che sembrava non avere mai fine telefonò ad Archie per avvisarlo che avrebbe fatto tardi, poteva preparare lui la cena ai bambini?

«Quanto tardi?».

«Non lo so. Tu cena coi ragazzi. Io probabilmente mangerò un panino qui, insieme agli attori».

«D’accordo. Tempo per due chiacchiere?».

«Temo di no. Sei un angelo a stare coi bambini».

«Gli angeli di solito vanno in coppia. A presto».

Quando una persona faceva quello che stava per fare lei, raccontare bugie era poca cosa al confronto, si disse. Ma doveva sforzarsi di osservare con attenzione quelle ultime scene e il breve epilogo, quello in cui risultava chiaro che il lieto fine – la riconciliazione, le belle parole rassicuranti – non funzionava e che tutti e tre i protagonisti avevano riportato un danno irreparabile. Clary aveva immaginato i tre seduti in silenzio su altrettante sedie in fondo alla scena, mentre andavano delle registrazioni di ciò che persone che non li conoscevano bene dicevano sul loro conto. La prima era Marigold. Molte voci diverse: «Ti passerà», «Hai lavorato troppo», «Tutte quelle ore in piedi... un po’ di aria di campagna ti farà bene. Vedrai come riprenderai colore», «Non sai ancora niente degli uomini, cara. A volte è difficile», «Un uomo affidabile e coi piedi per terra, con delle prospettive... basta con gli artisti!». Marigold si alzava dalla sedia e usciva di scena. Poi Clary guardò Martha, vide in lei se stessa, si confuse e corse a rifugiarsi in un camerino vuoto.

Una volta lì capì una cosa che prima non aveva capito: com’era stato per Archie. Credeva di averci pensato abbastanza, di essere arrivata alla verità. Ma adesso che era lei stessa nelle spire di quella passione per Quentin, si rendeva conto di aver liquidato la situazione di Archie come qualcosa che si poteva risolvere con un po’ di buona volontà. Ricordò con vergogna di essere stata perfino insofferente con lui, di aver svilito il suo dolore, così presa dal proprio.

Sapeva bene che l’invito di Quentin al bar dell’albergo preludeva a un tentativo di seduzione. E lei non vedeva l’ora. Ad Archie non pensava affatto: pensava solo a quando Quentin l’avrebbe sedotta, amata, scopata fino a farla piangere.

Archie doveva aver provato qualcosa di simile, eppure a letto con Melanie non ci era andato. Lui glielo aveva assicurato e lei gli aveva creduto. Però sul momento le era parso “il minimo”. Non si era accorta di quanto fosse sprezzante e paternalistico quel modo di pensare. Era quello il motivo per cui le persone evitavano di fare “il minimo”, se potevano. I sacrifici, nel momento in cui il loro beneficiario ne è a conoscenza, devono essere riconosciuti ed elogiati, ricompensati insomma con la gratitudine. Invece quando ci si autocommisera, si può essere implacabili. E lei si era di certo autocommiserata, aveva recitato la parte della moglie tradita, quella che mai e poi mai avrebbe fatto ciò che aveva fatto lui.

E adesso eccola fare anche di peggio, senza preoccuparsi nemmeno per un attimo delle conseguenze. No, non doveva farlo.

Ma prima di misurarsi con la rinuncia, si trovò a dover affrontare il problema pratico di come sottrarsi alla situazione che aveva contribuito a creare. Ormai si era spinta abbastanza in là, e negarsi a Quentin senza ferire troppo il suo ego non sarebbe stato semplice. C’era di mezzo l’amor proprio: già due donne gli avevano detto di no, e adesso confidava di avere finalmente fortuna con la terza. Si sarebbe arrabbiato, forse avrebbe fatto una scenata e piantato in asso la produzione... ma no, la parte gli interessava, non ci avrebbe rinunciato così facilmente. La commedia... voleva dire che avrebbero dovuto rivedersi per forza. L’idea le dava i brividi. Si accorse che forse stava accumulando scuse per andare all’appuntamento, con l’idea magari di scrivergli una lettera in seguito dicendogli che suo marito aveva scoperto ogni cosa e minacciava entrambi. Un epilogo disastroso per tutti quanti e un modo piuttosto meschino di cavarsi d’impaccio.

Magari poteva semplicemente dire la verità a Quentin. Che amava Archie e non lo aveva mai tradito, che le sue attenzioni l’avevano lusingata al punto da farla vacillare per un momento. Ma era abbastanza certa che la verità, quando non era quella che voleva sentire lui, fosse una lingua sconosciuta a Quentin; non avrebbe capito nulla; avrebbe solo raddoppiato gli sforzi per portarsela a letto (il pensiero la eccitò vergognosamente e dovette reprimerlo). Passò così quell’interminabile pomeriggio.

* * *

«Che ti prende, cara? Sei nervosa, eh? Non mi sfugge niente, come vedi. Ma non devi esserlo, tesoro mio, davvero». E di nuovo le posò quelle due dita su una guancia.

«Devo parlarti».

«Prima bevi un po’ di quest’ottimo champagne». E le sorrise con indulgenza.

Clary ne bevve un sorso per farsi coraggio. «Temo che ti arrabbierai per quanto ho da dirti».

«Non potrei mai arrabbiarmi con te».

E poi Clary gli disse che suo marito era venuto a conoscenza del loro appuntamento, che era un uomo gelosissimo e dal temperamento infiammabile e aveva minacciato di riempirlo di botte. Le aveva fatto promettere di mettere fine alla loro tresca, subito, altrimenti anche lei avrebbe dovuto soffrire quanto lui. Vide la faccia di Quentin rabbuiarsi, farsi diffidente.

«E come diavolo ha fatto a scoprirlo? Devi averglielo detto tu». Gli occhi gli erano diventati duri, freddi come il marmo.

«No! Certo che no. Però ha trovato una tua foto che tenevo nel borsellino. Aveva già dei sospetti perché venivo così spesso alle prove, e avevamo litigato perché sto trascurando i bambini. Non ho potuto farci niente, Quentin, davvero!». Ora la voce le tremava seriamente perché aveva paura che lui non le credesse... aveva visto la sua reazione immediata all’idea di doversi battere, e vi fece riferimento un’altra volta. Lui sussultò. «L’ultima volta che è successo, il poveretto è dovuto andare in ospedale a farsi mettere i punti».

«Non capisco perché tu non mi abbia detto queste cose prima». L’accusava contrariato, ma era evidente che aveva paura.

«È tutta colpa mia!», esclamò Clary. «Lo so che è colpa mia. Il fatto è che non sono abituata alle attenzioni di un uomo così bello e famoso come te. È stato troppo per me. Ho perso la testa. E poi naturalmente non avevo idea che lo avrebbe scoperto». Vide che era quasi fatta e il sollievo le rese facili le lacrime, così ne sparse in quantità e senza cercare di dissimularle.

Lui prese a guardarsi intorno con apprensione – il bar si andava riempiendo – e poi le diede il fazzoletto viola che usava durante le prove con Marigold. Stette a guardarla con aperto disgusto mentre lo usava. «Ora è meglio se te ne vai», le disse. «E non ti azzardare a dire a quel pazzo di tuo marito che sono stato io a provarci con te. Intesi?».

«Oh... lo prometto». Clary tremava e si alzò in piedi con difficoltà. Lo guardò un’ultima volta: lontano anni luce dall’amante appassionato, era tornato a essere il guitto volgare, egocentrico e viziato. Adesso poi era anche frustrato, il che lo rendeva ancora meno attraente. «Mi dispiace», disse, poi corse in strada.

* * *

Tre ore dopo Archie era seduto da solo in cucina. Si era sentito dire da lei ciò che mai e poi mai avrebbe voluto sentire. Forse avrebbe preferito rimanere all’oscuro di tutto. Clary continuava a ripetergli che adesso capiva che cosa aveva passato lui con Melanie, e in questo modo non solo gli faceva rivivere quel dolore ma lo gettava in un abisso di gelosia tale che se avesse avuto a portata di mano quel miserabile attorucolo lo avrebbe volentieri fatto a pezzi. La sola idea che Clary avesse desiderato un altro uomo gli faceva perdere la testa. Non le avrebbe mai attribuito quel genere di sentimenti e adesso saperlo con certezza gli risultava insopportabile: il suo ostentato pentimento e gli sforzi profusi per mostrargli la simmetria di ciò che avevano vissuto erano stati il colpo di grazia. Se davvero aveva desiderato quel guitto da due soldi, questo doveva per forza aver tolto qualcosa ai suoi sentimenti per lui, un pensiero che apriva un vaso di Pandora d’insicurezze in cui la differenza di età fra loro faceva la parte del leone. Lui l’amava e l’aveva sposata, ma non era mai stato capace di darle le emozioni e la vita eccitante che erano mancati alla sua giovinezza. Forse anche come amante non era mai stato all’altezza...

Adesso, sfinito dalla violenza di quei sentimenti, era arrivato al punto in cui i ricordi belli soccombono e quelli brutti si prendono tutto lo spazio.

No, questo no. Si ricordò all’improvviso della volta in cui Bertie, a quattro anni, aveva dato fuoco a un cestino di carta straccia perché aveva fatto delle salsicce con la plastilina e voleva cuocerle. Lui era arrivato un istante troppo tardi per salvare il rotolo di carta di stracci che usava per i suoi paesaggi, ma appena in tempo per correre a mettere il cestino sotto il rubinetto della cucina e spegnere il rogo. Si era arrabbiato con Bertie, sì, ma gli era passata in fretta e dopo pochi minuti era lì che lo stringeva e gli asciugava le lacrime e gli voleva bene proprio come prima. Amo anche lei così, pensò, e sentì un’incerta pace scendergli addosso. Ha avuto una brutta avventura e sta a me aiutarla a uscirne.