Rachel

«Sento che manca poco».

«Duchessa!».

«Mi sento bene». La Duchessa chiuse gli occhi un momento. Parlare la stancava, come tutto del resto. Tacque alcuni istanti e poi disse: «In fondo ho avuto più tempo di quello che secondo Mr Housman doveva essermi concesso... ben vent’anni di più! Lalbero più bello... io però ne avrei scelto un altro». Alzò lo sguardo sul volto stravolto della figlia, pallido, con gli occhi cerchiati per la mancanza di sonno e la bocca contratta nello sforzo di non piangere. Poi, con enorme fatica, la Duchessa sollevò una mano dal lenzuolo. «Rachel, cara, non tormentarti tanto. Mi fai stare in pena».

Rachel le prese la mano tremante e ossuta e la strinse tra le proprie. No, non doveva farla stare in pena: sarebbe stato da egoisti. La mano di sua madre, picchiettata di macchie, era così smagrita che il cinturino d’oro dell’orologio le pendeva dal polso col quadrante rigirato e l’anello nuziale le era scivolato ben oltre la falange. «Tu che albero avresti scelto?», le domandò allora.

«Bella domanda. Fammici pensare».

Guardò il volto di sua madre rianimato dal gusto della scelta – un serio dilemma...

«Una mimosa!», disse infine la Duchessa. «Ha un profumo delizioso. Non sono mai riuscita a farne crescere una». Sollevò una mano e tentò di stringere il lenzuolo. «Non è rimasto nessuno che mi chiami Kitty. Non immagini nemmeno...». Parve soffocare e tossì debolmente.

«Vado a prenderti un po’ d’acqua». La caraffa però era vuota. Rachel trovò una bottiglia di acqua minerale in bagno, ma quando tornò nella stanza sua madre era già morta.

Non aveva cambiato posizione, la Duchessa: stava con le spalle poggiate ai cuscini quadrati, quelli che aveva sempre preferito; una mano giaceva sul lenzuolo, l’altra stringeva la treccia che Rachel ogni mattina le acconciava con cura. Gli occhi erano aperti, ma non c’era più traccia dell’irresistibile trasparenza che li aveva sempre animati. Ciechi, fissavano il nulla.

Sorpresa e stordita, Rachel prese la mano che stringeva la treccia e la depose con cura accanto all’altra. Le chiuse gli occhi con un tocco leggero e si chinò a baciare la fronte fredda. Poi, nel drizzarsi, fu assalita da una ridda di immagini sconnesse, come se si fosse appena spalancata una botola. Ricordi d’infanzia. «Non esistono bugie a fin di bene, Rachel. Una bugia è una bugia e tu non devi dirle». Quando Edward si era alzato nel lettino e le aveva sputato addosso. «Io non do retta a chi racconta bugie!». Ma suo fratello era stato sgridato e non l’aveva fatto più. Quella sua serenità che pareva imperturbabile: solo una volta l’aveva vista vacillare, quando avevano salutato Hugh e Edward in partenza per la Francia, diciotto anni l’uno e diciassette l’altro; aveva mantenuto un sorriso calmo mentre il treno cominciava lentamente la sua corsa lungo il binario di Victoria Station, poi si era voltata e aveva preso il fazzolettino di pizzo che portava sempre infilato nel cinturino dell’orologio. «Sono solo dei ragazzi!». Aveva una piccola ma visibile voglia di fragola sulla parte interna del polso e Rachel ricordò di aver pensato che forse portava il fazzoletto in quel modo per nasconderla. Ricordava anche di essersi chiesta, subito dopo, come le fosse venuta in mente un’idea tanto frivola. Qualche volta l’aveva anche vista piangere: piangeva dal gran ridere di fronte alle buffonate di Rupert, che fin da piccolo aveva avuto quel talento, e a quelle dei suoi figli, soprattutto Neville; la facevano ridere quelli che si davano delle arie: ogni volta la si vedeva col volto striato di lacrime. E poi certe macabre filastrocche vittoriane: «Boy gun, joy fun, gun bust, boy dust» e «Papa, Papa, what is that mess that looks like strawberry jam? Hush, hush, my dear, it is Mama, run over by a tram1». Anche la musica la faceva piangere. Era una pianista eccellente. Aveva suonato in duetto con Myra Hess e adorava le sinfonie di Beethoven dirette da Toscanini. Aveva abitudini spartane (a colazione, sul pane tostato, si poteva spalmare del burro oppure un velo di marmellata; la carne si mangiava prima calda, appena arrostita, poi fredda e infine mescolata con verdure bollite, a mo’ di pasticcio; pesce in bianco una volta alla settimana e poi frutta cotta e biancomangiare, che lei chiamava “pudding di riso”); come passione personale, oltre alla musica, aveva il giardinaggio, che adorava. Coltivava grosse violette profumate in una piccola serra apposita, garofani, rose rosse, lavanda e qualsiasi pianta dal profumo dolce; e poi frutta, frutta d’ogni genere: lamponi rossi e gialli, pomodori, pesche e pesche noci, uva, meloni, fragole, uvaspina, ribes per fare la marmellata, fichi, susine e altre varietà di prugne. I nipoti non vedevano l’ora di andare a Home Place per quei piatti ricolmi di frutta.

Il suo rapporto col marito, il Generale, era sempre stato avvolto da un velo di riserbo vittoriano. Da bambina, Rachel aveva considerato i suoi genitori solo in relazione a se stessa: erano suo padre e sua madre. Ma vivendo con loro per il resto della vita, senza smettere mai di amarli incondizionatamente, aveva avuto modo di rendersi conto che erano due persone molto diverse tra loro. Il Generale era di una socievolezza che sconfinava nell’eccentricità: capitava che, in una delle sue varie case, portasse a cena o addirittura per il weekend persone conosciute al club o in treno, senza dare alcun preavviso e presentandole nel modo in cui un pescatore o un cacciatore presentano un salmone, un’anatra o un cervo appena abbattuto. Al che la Duchessa, dopo qualche blando rimprovero, serviva agli ospiti inattesi montone bollito e biancomangiare.

Non era un tipo solitario, ma le bastava la compagnia della sua famiglia, sempre più numerosa: i figli, i nipoti, le nuore che aveva accolto con benevolenza. Il suo mondo privato lo teneva per sé: l’età dei giochi e i lazzi della gioventù (tutte burle innocenti), vissuti in uno sperduto castello scozzese, venivano menzionati solo ogni tanto, di sfuggita, quando raccontava una storia a uno dei nipoti caduto da un albero o da un pony. Suo padre, nonno Barlow, era stato un illustre scienziato, membro della Royal Society. Aveva tre sorelle, ma la più bella era stata sempre lei, anche se non ne sembrava consapevole. Lo specchio, aveva insegnato a sua figlia Rachel, serve per controllare se i capelli sono a posto e la spilla appuntata ben dritta.

Negli anni della vecchiaia, quando curare il giardino era diventato troppo faticoso, andava regolarmente al cinema a vedere i film di Gregory Peck, di cui era innamorata.

Non le ho fatto abbastanza domande. Non so quasi niente di lei. Quel pensiero, dopo cinquantasei anni di stretta convivenza, a Rachel parve spaventoso. Le innumerevoli mattine in cui aveva tostato il pane mentre la Duchessa scaldava l’acqua per il tè sul fornelletto a spirito, i pomeriggi in giardino o in salotto, quando fuori era troppo freddo, le vacanze coi nipotini – dovevano mangiare una fetta di pane con appena un velo di burro prima di poter assaggiare la marmellata o la torta... per tutto quel tempo sua madre era stata accanto a lei, ma in qualche modo distante; la ricordava china mentre cuciva le tende per Home Place o qualche grazioso abitino – seta tussor col grembiulino azzurro o rosso ciliegia – per lei, Rachel, o per le nipoti: Louise, Polly, Clary e Juliet, e perfino per i maschietti, Teddy e Neville, Wills e Roland, almeno finché, raggiunti i tre o quattro di età, non si erano rifiutati di vestirsi come bambine; Rachel invece a quei tempi imparava i rudimenti del lavoro a maglia e faceva per loro sciarpe e mezziguanti. Erano stati gli anni interminabili della guerra, mesi e mesi di angoscia durante i quali si aspettavano con trepidazione le lettere e si temevano i telegrammi.

Gli anni erano passati anche per lei, la ragazza di casa, che li aveva trascorsi tutti coi suoi genitori a eccezione dei tre di collegio, di cui aveva un pessimo ricordo. Alla fine di ogni vacanza supplicava la madre perché la lasciasse restare a casa... «Se vedono anche solo un capello nella spazzola, mi mettono una nota di demerito!», si lamentava tra i singhiozzi e la risposta della Duchessa era: «E tu non lasciare nemmeno un capello nella spazzola, piccola mia».

Il suo scopo nella vita era sempre stato prendersi cura delle altre persone, disinteressarsi del proprio aspetto, accettare che gli uomini contassero più delle donne, accudire i suoi genitori, organizzare i pasti e curare i rapporti coi domestici, i quali, uomini e donne, volevano un gran bene a Rachel per la sua bontà e l’interesse che mostrava verso di loro.

Adesso che i suoi genitori erano morti entrambi, però, le sembrava che la parte produttiva della sua vita fosse finita. Poteva stare con Sid, come entrambe avevano a lungo desiderato; le stava piombando addosso una libertà allarmante. Una frase che aveva sentito dire una volta a un alunno di una scuola per liberi pensatori – «E dobbiamo fare sempre quello che ci va di fare?» – descriveva con una certa efficacia la sua nuova condizione.

Mentre questi pensieri confusi le attraversavano la mente, sapeva di essere già da tempo in piedi accanto al letto della madre, di aver pianto e di avere un tremendo mal di schiena, e sapeva anche di avere molte cose da fare: telefonare al dottore, a Hugh – lui di certo avrebbe avvertito gli altri, Edward, Rupert, Villy – e naturalmente a Sid. Sarebbe toccato a lei informare i domestici, e di certo non ci avrebbe messo molto: dopo la guerra non erano rimasti che Mr e Mrs Tonbridge, il vecchio giardiniere con l’artrite che ormai riusciva solo a passare il tagliaerba, una ragazza che veniva tre mattine la settimana per fare le pulizie ed Eileen, che era tornata dopo la malattia della madre. Rachel si volse di nuovo verso la sua cara mamma. Sembrava serena e sorprendentemente giovane. Prese una rosa bianca dal vaso vicino e gliela mise tra le mani. La piccola voglia di fragola all’interno del polso adesso si vedeva bene; l’orologio le era scivolato sulla mano. Glielo tolse e lo depose sul letto.

Quando aprì l’ampia finestra a ghigliottina, l’aria tiepida entrò nella stanza insieme al profumo delle rose, sospinto dalle folate di un vento gentile che sollevava le tende di mussola.

Si asciugò la faccia e disse a voce alta, sforzandosi di non piangere: «Arrivederci, mamma cara».

Poi uscì dalla camera e diede inizio alla sua giornata.

1 «Bambino con pistola, gran divertimento, la pistola spara, il bambino ci resta secco»; «Papà, papà, cos’è quella poltiglia schifosa che sembra marmellata di fragole? Shh, figliolo, è la mamma che è finita sotto al tram».