Campanello d’allarme
«Be’, guardiamo il lato positivo: non dovremo trasferirci». Si stava spogliando e preparando per andare a dormire, un’operazione che tendeva a compiere con estrema lentezza; sembrava immune al freddo e gironzolava per la stanza in sottoveste. Rupert la osservava dal letto.
«Sarà dura, ti avverto. Forse non potremo tenere questa casa».
«Oh, Rupe! Ma sì che possiamo. Per le pulizie posso cavarmela da sola». Prese la spazzola e si sedette accanto a lui perché le spazzolasse i capelli.
«Voglio solo metterti in guardia. Bisogna che riprenda a insegnare. Ma se anche ci riuscissi non so se...».
«Archie ce la fa. Il punto, mio caro, è che adesso potrai dedicarti alla pittura, che è quello che hai sempre voluto. E quando avrai abbastanza quadri, forse tu e Archie riuscirete a mettere su una mostra, no?».
«Forse». O forse no, pensò. Era così bella, e il suo ottimismo era inguaribile.
«Io lo trovo molto eccitante». Gli tolse la spazzola di mano e cominciò a sfilarsi la sottoveste verde. Gran parte della sua biancheria era verde, perché aveva deciso anni prima che, oltre a richiamare il colore dei suoi occhi, il verde metteva in risalto il candore della sua pelle. Non era più vanitosa come un tempo, ma certe regole erano diventate un’abitudine. «La moglie di un pittore», concluse togliendosi le mutande.
«Vieni qua. Ci penso io». Le slacciò il reggipetto e le prese in mano i seni. «Non rivestirti. Vieni a letto così».
* * *
Edward si addormentò in macchina, mentre tornava a casa: stava elaborando il trauma della mattina. Aveva sessantuno anni e in capo a pochi mesi si sarebbe ritrovato senza lavoro. Non aveva altre fonti di reddito, era in debito con la banca e non sapeva come guadagnarsi da vivere. Le dolorose restrizioni che aveva faticosamente concordato con la moglie avrebbero dato qualche frutto in presenza di un gettito di denaro, che non c’era: non si possono fare tagli se non c’è niente da tagliare. Susan doveva lasciare la sua costosa scuola; Jamie doveva fare a meno dell’assegno mensile e trovarsi un impiego. Quanto a lui, si sarebbe ritirato dai suoi due club e forse avrebbe venduto qualcosa: le pistole Purdey per esempio, un paio di esemplari di pregio ereditati da suo padre, da cui si potevano ricavare pochi scellini. A quel punto gli era venuta la nausea: vedeva nero dappertutto, un lungo tunnel di cui non scorgeva la fine. Quando la stessa angoscia lo aveva assalito in macchina, Edward aveva imboccato l’unica via d’uscita a sua disposizione: il sonno. Non ho più nemmeno paura di dirlo a Diana: dovrà ingoiare il rospo e basta, pensò mentre scivolava grato nell’incoscienza.
* * *
«Caro, adesso smettila di rimproverarti. Se dici un’altra volta che è tutta colpa tua, mi metto a gridare! È tipico di te prenderti tutta la responsabilità. Non giova a nessuno, credimi». Constatò con soddisfazione che il suo tono deciso lo aveva spiazzato.
«Ma è così! È colpa mia: sono stato miope e non ho dato retta a nessuno. Soprattutto a Edward».
«Va bene. Ammettiamo che sia così. La domanda è: cosa facciamo adesso? Io lo trovo eccitante. Ho una certa esperienza di come si vive con pochi soldi. Ce la caveremo». Gli prese la mano e la strinse con fare risoluto. Portava gli occhiali con la montatura di tartaruga, e Hugh pensò che somigliava a una piccola civetta. Questo lo fece sorridere.
«Ne parleremo ancora domani». Le era venuto il ciclo quella mattina – diceva che era come avere un ferro da stiro nella pancia –, aveva un brutto mal di testa ed era mezzanotte passata.
Quando si misero a letto e lui riprese a rimuginare su cosa ne sarebbe stato di Rachel, Jemima tirò in ballo la casa di Sid. «Com’è? L’hai mai vista?».
«Una volta soltanto. Una casa vittoriana indipendente, un po’ arretrata rispetto alla strada. Il tipo di casa che gli uomini facoltosi comprano per sistemarci l’amante. Non è male, ma quando ci sono stato io era in pessime condizioni. Se davvero è vuota da un anno, credo che ci vorranno molti lavori. E comunque dovrà venderla perché le serviranno i soldi».
«Adesso basta», si affrettò a interromperlo. «Dormiamo. E se proprio vuoi preoccuparti, preoccupati per me, che ho un gran mal di testa e la pancia in subbuglio».
Funzionò. Subito Hugh si voltò verso di lei, coccolandola e stringendola a sé e mormorando parole affettuose che la fecero sentire di nuovo piccola e giovane.
Avevano deciso che l’indomani loro due e Laura sarebbero andati a Home Place per il fine settimana e Hugh avrebbe detto a Rachel che la casa doveva essere venduta.
* * *
La giornata volgeva al termine, e si rese conto che non solo non voleva vivere nella casa di Sid, ma che non voleva nemmeno passarci una sola notte. A parte la sporcizia e lo squallore, la spaventava l’idea di coricarsi nel letto che aveva condiviso con lei: sentiva che il dolore sarebbe stato impossibile da sopportare. Telefonò a Home Place e chiese a Tonbridge di andare a prenderla in stazione, poi si mise a preparare una valigia con le cose personali di Sid. Rovistando nella scrivania, vide che aveva conservato tutte le sue lettere, tenute insieme da un nastrino azzurro. C’era anche un altro fascio di missive, le sciocche cartoline di sua sorella Evie, che era emigrata in America anni prima al seguito di questo o quel direttore d’orchestra. «Mi sto divertendo moltissimo!», «Un altro hotel a quattro stelle... questa sì che è vita!». Non domandava mai a Sid come stesse, non dava mai un indirizzo.
Decise di buttarle via. Poi c’era un piccolo album di fotografie con immagini virate seppia dei genitori di Sid e della sua infanzia poco felice. Quelle volle tenerle, dato che Sid le aveva conservate con cura. Mise in valigia il maglione, che poteva indossare, e qualche altro capo di Sid – delle cravatte e la sua sciarpa di lana preferita, che era stata attaccata dalle tarme ma che lei aveva voluto conservare lo stesso. Per quel giorno era sufficiente. Tornata di sotto, si ricordò della foto in cui Sid suonava il violino con Myra Hess e riuscì a infilarla nella valigia. Casa. Adesso voleva solo andare a casa.
* * *
«Non c’è niente da fare in macchina».
«Guarda fuori dal finestrino».
«Ci ho provato, mamma, ma si muove tutto troppo veloce e non ho tempo di vedere niente».
«Fa’ un pisolino, allora».
«Va bene».
Jemima si voltò a controllare che Laura si fosse stesa sul sedile. Stavano sorpassando Lamberhurst. Hugh disse sottovoce: «E pensare che Edward fa questo tragitto cinque giorni alla settimana! Io non potrei mai».
«Non devi, caro. Ti basta arrivare a piedi a Ladbroke Grove».
Dopo qualche minuto di silenzio, Laura disse: «Mamma, andare fuori per il fine settimana è una cosa da grandi vero? I bambini non lo fanno spesso».
«Sì, è così».
«Ce lo ha detto Miss Pendleton a scuola. Secondo me le dispiace».
Hugh disse: «Visto che fai una cosa così da grandi, vuol dire che sei adulta, no? Allora niente mostriciattolo in questi giorni».
«Va bene, papà. Però... io ho chiuso gli occhi, ma non mi sono addormentata».
«E prometti anche di essere molto gentile con zia Rachel?».
«L’ho promesso ieri sera. Non si può promettere sempre la stessa cosa. Dopo un po’ non vale più».
«Perché non ci canti una canzone?».
A Laura piaceva cantare e senza farsi pregare attaccò una canzoncina su un tale che falcia il prato; la successiva parlava di un numero imprecisato di bottiglie verdi e poi fu il turno dei canti natalizi. Nel frattempo arrivarono a Home Place.
* * *
«A Miss Rachel farà bene avere un po’ di compagnia», disse Eileen al loro arrivo. «Vi ho sistemati nella solita stanza, Madam, e Miss Laura nello spogliatoio accanto. Miss Rachel è in salotto. Si è spento il fuoco proprio mentre riposava...».
«Vado ad aiutarla», si offrì Hugh.
Quando Hugh se ne fu andato, Laura prese per mano Eileen e disse: «Voglio fare merenda con te e Mrs Tonbridge. In cucina. Ci andiamo subito?».
Eileen ne fu lusingata. «La mamma cosa dice al riguardo?».
Jemima disse che lo avrebbe molto apprezzato, se per loro non era un problema, e aggiunse: «Tra l’altro, più che merenda, dovrebbe trattarsi di una cena».
«Però voglio bere il tè. Voglio un sacco di tè con la mia cena».
Eileen se la portò via raggiante di tenerezza. «Potrei anche farle il bagno, Madam. Se le sembra il caso».
La solita stanza. Non era la vecchia camera di Hugh, quella in cui era nato Wills e in cui, anni dopo, era morta Sybil, ma quella che usava Edward quando era sposato con Villy. Come in tutta la casa, c’era ancora la carta da parati scelta dalla Duchessa quando la proprietà era stata acquistata: un motivo a graticcio con caprifogli e improbabili farfalle. Il pavimento era coperto da una moquette di fibra di cocco color caffè con delle strisce nere e rosse. Le pareti, che erano state dipinte di bianco, ora apparivano di un color panna sporco che a Jemima ricordava le divise da cricket dei gemelli. Quattro aste sormontate da sfere d’ottone svettavano agli angoli del letto, su cui era stesa una bellissima trapunta patchwork realizzata da Villy: per farla c’erano voluti due inverni. Il grosso armadio di mogano emanava un tale odore di naftalina che Jemima ritenne più prudente non metterci i propri vestiti. Sul tavolo da toeletta lo specchio era sistemato secondo un’angolazione bislacca, e vi era posato un cuscinetto puntaspilli con una scritta ricamata da mano inesperta: «ALLA MIA CARA MAMMA», a lettere alternate blu e rosse. Erano cose che le piaceva rivedere. Amava quella stanza in cui gli oggetti si andavano accumulando per necessità e senza uno scrupolo estetico, senza un pensiero all’abbinamento dei colori o alla coerenza di stile, dove le cose si buttavano via solo perché troppo usurate e non entrava mai nulla di nuovo, a parte le ragnatele che i ragni tessevano ricominciando con pazienza ogni volta che era necessario.
Disfece la valigia ed entrò nella cameretta attigua destinata a Laura, dove una grossa tigre di pezza se ne stava compunta con la testa sul cuscino.
Era ora di scendere. Provò di nuovo a immaginarsi nella situazione di Rachel, e fallì.
Il soggiorno non poteva dirsi caldo, ma era comunque più tiepido del resto della casa. L’unica fonte di luce, oltre al fuoco del camino, era una vetusta lampada a stelo il cui paralume di pergamena opaco di fumo emanava un tenue chiarore lattiginoso.
Quando Jemima entrò nella stanza, Hugh stava parlando, ma al suo ingresso s’interruppe. Rachel sedeva con la schiena eretta su una seggiola accanto al fuoco. Jemima le diede un bacio. «Che bello vederti».
«Siete stati gentili a venire». La sua guancia era molto fredda. «Purtroppo ho combinato un pasticcio col fuoco, ma Hugh è riuscito a ravvivarlo».
«Sono bravo anche in altre cose. Rachel e io ci siamo versati un whisky, ma tu preferisci del gin, vero, cara? Siediti qui vicino a Rachel a scaldarti un po’». Jemima obbedì. Il viso di sua cognata era pallido e smunto. Intorno agli occhi aveva cerchi scuri come il pesante maglione blu che indossava. Si era tagliata i capelli molto corti, cosa che in circostanze diverse avrebbe potuto farla sembrare più giovane.
«Stavo tentando di spiegare a Rachel cosa ne sarà dell’azienda. Purtroppo non è una cosa facile da accettare».
Jemima disse: «Non credo che quello che è successo, o che succederà, sia particolarmente complicato. Conta cosa faremo dopo. Noi tutti». Si volse verso Rachel e disse: «La Cazalet deve molti soldi alla banca, e dato che non ha di che pagare, la banca incaricherà un curatore fallimentare prima di dichiarare la bancarotta. È la fine dell’azienda. Esiste la possibilità che gli eventuali nuovi proprietari tengano almeno alcuni di quelli che ci lavorano adesso, e tra questi anche i tuoi fratelli, ma è solo una possibilità. E comunque per ora non c’è modo di saperlo». Spiegata in quel tono pratico e pacato la situazione sembrava di colpo semplicissima.
«Vuol dire che tutta la famiglia è in bancarotta?».
«No, pare di no. L’avvocato di famiglia è stato così accorto da consigliarci di intestare le case alle mogli». E qui s’interruppe, perché non sapeva se Hugh le avesse già detto della sorte che sarebbe toccata a Home Place. Si scambiarono un’occhiata. Lui le passò il bicchiere e prese posto sulla terza sedia.
Rachel disse: «Hugh, caro, mi passeresti le mie sigarette? Sono sul Divano della Tortura». Questo divanetto rigidissimo era stato una delle rare concessioni della Duchessa alla comodità; esortava continuamente Rachel a stendervisi. Era stata Sid a soprannominarlo “Letto di Procuste”. Hugh prese il bocchino, il pacchetto di Passing Clouds, il posacenere e l’accendino d’argento.
«Ti ringrazio... be’, questa delle case almeno è una buona notizia. So che voi amate questa casa tanto quanto la amo io...».
Intervenne Jemima. «Pensavamo che ti saresti trasferita nella casa che ti ha lasciato Sid».
«Oh no! Per carità, non potrei sopportarlo. No, la venderò. Sono andata a Londra per rivederla e ho capito che non fa per me. Sid mi ha detto che avrei potuto venderla se avessi voluto. No, io preferisco restare qui. È questa casa mia». Bevve un sorso di whisky e in quel momento Eileen infilò la testa nella stanza per annunciare che Miss Laura era pronta per la sua favola della buonanotte.
«Oh, la piccola Laura! Non l’ho nemmeno salutata!».
«Domani», disse Jemima alzandosi.
Lanciò a Hugh un’occhiata eloquente prima di lasciare la stanza. Era il suo turno.
«Rachel», esordì. «È più complicato di quanto sembra. Anche tu come noi possiedi un grosso pacchetto azionario».
«Oh sì, molto più di quel che mi serve, davvero, perché la Duchessa mi ha lasciato anche le sue. Così ho potuto comprare un televisore per i domestici... lo adorano! E poi potrò pagare l’operazione per la borsite di Mrs Tonbridge, un bravissimo dottore di Londra che...».
«Hai messo da parte il necessario, cara?».
«Credo di sì... ma certo! Ho diverse migliaia di sterline, mi pare».
«Perché, vedi, dal momento in cui l’azienda sarà ufficialmente in bancarotta, le azioni non varranno più nulla. Non entrerà un soldo. Non avrai più un reddito».
Questo la scosse.
Vi fu un silenzio, Rachel bevve un sorso di whisky.
«Be’», disse poi. «Si tratta solo di fare un po’ di economia. La Duchessa mi ha insegnato molto al riguardo, soprattutto durante la guerra. Sono certa che vendendo Abbey Road mi resterà il necessario per vivere. Non dovete preoccuparvi per me... ci sono persone molto più importanti a cui pensare».
Quando si sforzava di sorridere il suo lutto era ancora più evidente, pensò Hugh. «Cara, temo che le brutte notizie non finiscano qui. Devo dartele per forza. Questa casa non sarà più nostra. Il Generale la comprò subito dopo la prima guerra e la intestò all’azienda. È una proprietà della Cazalet, non nostra. E anche ammettendo che la banca sia disposta a vendercela, noi non abbiamo i soldi per comprarla. So che per te è più difficile che per noi e ti prometto che mi inventerò qualcosa per...».
Ma fu interrotto da un gemito soffocato. Rachel si mise una mano sulla bocca come a trattenere qualcosa.
«Non lo sapevo! Non ne avevo idea!».
Hugh le si avvicinò, si mise in ginocchio, le prese le mani tra le sue. Gli occhi smarriti le si velarono di lacrime. «Non me l’aspettavo proprio», disse a voce bassissima.
«Posso immaginarlo. E proprio non te lo meriti».
«Oh, no. Pensa se fosse capitato a voi, che avete i bambini e tutto. Me lo merito eccome. Non ho mai alzato un dito in vita mia». Prese il fazzoletto che teneva sotto il cinturino dell’orologio, proprio come faceva la Duchessa.
«Non è affatto vero. Tu ti sei presa cura dei nostri genitori e poi avevi anche quell’ente di carità, la Casa dei Bambini. E hai fatto di questa casa un luogo dove tutti noi non vediamo l’ora di stare».
* * *
A cena – minestra di pastinaca e pasticcio, con spinaci e scorzobianca come contorno e una torta di prugne per dessert – concordarono tacitamente di non parlare della situazione; ripiegarono piuttosto su argomenti meno dolorosi. Jemima osservò che il presidente de Gaulle poteva anche risparmiarsi la puerile battuta che non si può governare un paese in cui si producono duecentoquarantasei varietà di formaggio.
«Immagino l’abbia detto solo per apparire spiritoso», volle difenderlo Hugh, ma Rachel si chiese come potesse un popolo aver bisogno di tutto quel formaggio. In ogni modo vive la différence era a suo avviso una boutade più arguta.
«Pensa quanto deve essere brutto avere sempre intorno della gente, soprattutto i giornalisti, che stanno lì ad aspettare che tu te ne esca con qualche perla di saggezza».
«Sono d’accordo», disse Hugh. «Non si danno perle ai porci». Hugh era contento che Rachel si fosse lasciata coinvolgere nella conversazione, ma non aveva assaggiato neppure un boccone.
«Questa dove l’hai sentita?».
Ci pensò un attimo. «Da Rupe, quando insegnava in collegio».
Poi approdarono al porto sicuro degli aneddoti che vedevano protagonista Laura. Il primo lo raccontò Jemima. «Una volta è venuta da me e mi ha chiesto perché mai Hugh dovesse andare fino in ufficio per una riunione del consiglio. Ha detto che se gli serviva un consiglio poteva benissimo darglielo lei!». Rachel sorrise e mormorò che i bambini a volte sono davvero spassosi.
Presero il caffè in soggiorno e decisero che bisognava chiedere quanto prima una stima sia di Home Place sia della casa di Sid a Londra. Jemima si offrì di occuparsi di quest’ultima, e Hugh disse che sarebbe andato da certi agenti immobiliari di Battle che conosceva perché qualche volta aveva giocato a golf con loro a Rye.
«Ora però non voglio che i domestici lo sappiano», disse a bassa voce Rachel.
Erano tutti molto stanchi e non volevano parlarne più. Hugh e Jemima vollero abbracciare Rachel e lei li accontentò con pazienza. Era a pezzi.