Louise e Joseph
«Sei libera sabato mattina? Vorrei che mi aiutassi coi regali di Natale».
Era raro che Joseph passasse un fine settimana lontano dalla favolosa casa che aveva comprato nel Berkshire. Louise la conosceva perché, dopo l’acquisto, Joseph ci era andato con lei un pomeriggio di fine estate. Era un piccolo maniero georgiano affacciato sul fiume, con quattro stanze da giorno e sei camere da letto al primo piano, mansarda e un enorme seminterrato con cucina in stile vittoriano, cantina, dispense, retrocucina e altri locali senza una funzione precisa. C’erano anche diversi annessi, un giardino murato, un giardino roccioso e un vasto terreno tutt’intorno. Si accedeva alla proprietà da due lunghi viali sinuosi. Joseph le aveva mostrato tutto. «È in perfetto stato», aveva detto. «E mi è costata solo ottomila sterline». La cosa lo entusiasmava. A Louise era piaciuta moltissimo e glielo aveva detto. Era stato triste pensare che non l’avrebbe mai più rivista: poteva solo immaginare gli idillici fine settimana che lui vi avrebbe trascorso.
Perciò quando Joseph le chiese di andare a fare acquisti insieme, acconsentì subito. Ormai lo amava al punto da prestarsi a qualunque cosa pur di passare del tempo con lui.
«Prima di tutto andiamo da Cameo Corner», disse Joseph quando venne a prenderla con la Bristol. «Lo conosci?».
Lo conosceva. Quando faceva parte anche lei del bel mondo, comprava lì gli orecchini e Mosha Ovid le prestava le sue splendide collane perché le indossasse alle cene eleganti e mondane che frequentava con Michael. Le piaceva molto la bigiotteria georgiana, e Ovid ne possedeva una vasta collezione.
Piaceva evidentemente anche a Joseph, che scelse una collana di pietre blu pavone grosse e semplici appese a una catenina. «Ti piace?», le chiese.
Che magnifico regalo, pensò Louise. Lei non se lo sarebbe mai tolto.
«Lo prendiamo», disse lui rivolto al commesso. «Avete un cofanetto?». Lo avevano.
«Ora, qual è il miglior negozio di tessuti?».
«Jacqmar», rispose Louise.
Da Jacqmar Joseph scelse del sontuoso, costosissimo raso verde con lustrini dorati. «Quanto ce ne vuole per un abito lungo?».
Il commesso glielo disse. «Lo prendo. Che te ne pare?».
«È elegantissimo. Per una serata all’opera».
«Sì. Pensavo proprio a quello. Al Glyndebourne, per esempio. Adesso andiamo a mangiare qualcosa».
Quando furono seduti in macchina, lui le disse: «E con questo Penelope è sistemata. Sei stata di grande aiuto».
Era senza parole. Penelope era sua moglie, mai nominata ma sempre presente in mezzo a loro. A Louise venne da piangere. Glielo impedì l’orgoglio, e si mostrò invece puerilmente indispettita per la brutta figura che Joseph le aveva fatto fare per l’intera mattinata: l’aveva fatto apposta a non dirle che i doni erano per Penelope. Immaginò che si sentisse in colpa verso la moglie e comprare tutta quella roba lo faceva sentire meglio.
La portò a pranzo da Bentley e ordinò ostriche e champagne seguiti da rombo bollito. Ma Louise mangiò solo le ostriche.
«Come se la cavano quel simpaticone di tuo padre e il suo testardo fratello?».
«No ne ho idea. Non lo vedo da quella sera. Ma posso informarmi, se vuoi».
«Credo sarebbe utile ricordargli che il tempo stringe. L’azienda è in perdita, ormai. E se continuano così non sarà facile vendere».
«Come fai a saperlo?».
«Oh, ci sono un sacco di modi per scoprire queste cose. Non mangi il pesce?».
«Le ostriche mi hanno saziata. Non mi va nient’altro».
«Va bene. Ti porto a casa».
«Tu non ti fermi?».
«Non posso, cara. Questo fine settimana Penelope viene a Londra. Ci vediamo alle sei».
Non disse nulla. Era interdetta dall’indifferenza di Joseph ai suoi sentimenti e anche umiliata per il proprio ruolo in tutta la faccenda. Lei era l’amante, l’altra donna: doveva smettere di vederlo oppure rassegnarsi ad avere solo i ritagli di tempo e a adattarsi con prontezza ai suoi cambi di programma.
«Grazie per il pranzo», gli disse, mentre scendeva dalla macchina e s’infilava quasi di corsa nel corridoio scuro in cui aleggiavano gli afrori delle oscure attività dei pollaioli. La bottega era al piano terra, e nel seminterrato gli uccelli venivano spennati e preparati. Di solito non faceva caso all’odore di piume bruciate, interiora in decomposizione e pancetta rancida, ma quel giorno lo squallore di quel luogo la colpì con violenza. Del resto era economico. E lei questo poteva permettersi, un posto economico. Forse Stella era in casa. Poteva farsi una chiacchierata con lei, lasciarsi tirare su il morale dal suo sarcasmo affettuoso. «Quello ti tiene al laccio», era una delle sue frasi. «Ma a te non dispiace, no?».
Stella però aveva lasciato un biglietto sulla porta. «HO L’EMICRANIA. SONO A LETTO. CI VEDIAMO DOPO».
Non le restava che crollare a letto, vinta dallo champagne e dalla malinconia, farsi un bel pianto e dormire.