La famiglia
«Be’, uno di noi ci deve andare. Non possiamo lasciar fare tutto a Rachel, poveretta».
«Certo che no».
Edward, che aveva appena finito di spiegare come non fosse il caso di cancellare il suo pranzo con quelli delle ferrovie di Stato, vide che Hugh aveva preso a massaggiarsi la fronte nella maniera caratteristica di quando gli stava venendo la sua brutta emicrania, decise perciò che quella parte, la più penosa, bisognava risparmiargliela. «E Rupe?», disse allora.
Rupert era il fratello più giovane, in teoria un dirigente dell’azienda, e aveva la dote di farsi amare da tutti; era un candidato naturale, ma la sua incapacità di prendere decisioni e la sua tendenza a sposare con entusiasmo il punto di vista di chiunque gli esponesse le sue ragioni lo rendevano piuttosto inadatto agli incarichi manageriali. Edward disse che sarebbe andato a parlarci subito. «In ogni caso bisogna dirglielo. Non ti preoccupare, vecchio mio. Possiamo andarci tutti e tre questo fine settimana».
«Rachel ha detto che è morta serenamente». Lo aveva già detto, ma era chiaro che ripeterlo gli dava un certo conforto. «È la fine di un’era, no? Adesso siamo in prima linea».
Quelle parole ricordarono a entrambi la Grande Guerra, ma nessuno dei due lo disse. Dopo che Edward fu uscito, Hugh prese le pillole e spedì Miss Corley a comprargli un sandwich per pranzo. Era improbabile che ne mangiasse più di un boccone, ma così almeno la segretaria avrebbe smesso di dargli il tormento.
Disteso sul letto con gli occhiali scuri, scoppiò a piangere. La tranquilla solidità della Duchessa, la sua sincerità, il modo in cui aveva accolto Jemima e i suoi ragazzi... Jemima. Era in prima linea, sì, ma stavolta aveva Jemima accanto a sé, un bacio insperato della fortuna, una gioia quotidiana. Dopo la morte di Sybil si era convinto che il suo unico affetto da allora in avanti sarebbe stato quello per Polly, che a un certo punto si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli suoi, come poi era effettivamente successo, e lui non sarebbe stato mai più in cima ai pensieri di un’altra persona. Che fortuna ho avuto, pensò mentre si toglieva gli occhiali per asciugarsi gli occhi.
* * *
«Ma certo che vengo, tesoro. Se mi sbrigo, riesco a prendere quello delle quattro e venti... Credi che Tonbridge potrebbe venire a prendermi? Rachel, non preoccuparti per me. Sto benissimo, era solo un po’ di bronchite, mi sono alzata già ieri. Posso portarti qualcosa? Va bene. Ci vediamo dopo le sei. Ciao, cara».
E riattaccò prima che Rachel potesse dire qualcos’altro per dissuaderla.
Mentre saliva incerta le scale, avvertì di colpo l’enormità del cambiamento che stava per investirle. Si sentiva ancora debole, anche se quel nuovo portentoso farmaco, la penicillina, aveva più o meno fatto il suo lavoro. Decise di saltare il pranzo e di portarsi uno spuntino in una borsa che non pesasse troppo. Rachel era di certo distrutta per la morte di sua madre, ma adesso toccava finalmente a lei, a Sid, consolarla. E finalmente avrebbero potuto vivere insieme.
Per la Duchessa aveva provato affetto e stima, ma per tanto tempo e con sempre maggiore frequenza aveva dovuto rinunciare ai suoi programmi perché Rachel riteneva che la madre avesse bisogno di lei. Le cose, poi, erano peggiorate con la morte del Generale, nonostante le cure amorevoli dei figli maschi e delle loro mogli. L’ultima malattia aveva comportato un carico di lavoro enorme per Rachel, che da Pasqua non si era mai allontanata dal letto della madre. Be’, adesso era finita: alla rispettabile età di cinquantasei anni, Rachel sarebbe diventata padrona della propria vita, ma Sid prevedeva che almeno all’inizio questa nuova condizione l’avrebbe spaventata, un po’ come quando un uccellino abituato alla sua gabbietta si ritrova di colpo libero in aperta campagna. Avrebbe avuto bisogno di incoraggiamento e protezione.
Arrivò alla stazione con largo anticipo ed ebbe il tempo di prendersi un sandwich (ne aveva bisogno) e sedersi a mangiarlo. Dopo aver pazientato in fila, si vide rifilare due fette di pane grigiastro e spugnoso spalmate di margarina gialla con in mezzo una sottilissima fetta di cheddar che sapeva di sapone. I posti a sedere erano pochi e dovette starsene in bilico sulla valigia che scricchiolava in modo preoccupante. Dopo qualche minuto un uomo molto anziano si alzò da una panchina affollata lasciandovi sopra una copia dell’«Evening Standard» – “Burgess e McLean si prendono una lunga vacanza all’estero”, recitava il titolo in prima pagina. Li facevano sembrare due tranquilli signori che vanno in vacanza, invece che delle spie, pensò Sid.
Fu un sollievo salire in treno dopo aver lottato con la folla di passeggeri che scendeva. Il vagone era sudicio, i rivestimenti dei sedili rovinati e sporchi, il pavimento cosparso di cicche di sigaretta. I finestrini erano anneriti da uno strato di fumo tale che era impossibile vedere fuori. Ma quando il capotreno fischiò e il treno cominciò pian piano a strisciare sbuffando verso il ponte, Sid sentì la stanchezza alleggerirsi. Quante volte aveva affrontato quel viaggio per stare con Rachel? Tutti quei fine settimana in cui una semplice passeggiata loro due sole sembrava un sogno irrealizzabile, in cui ogni gesto doveva essere compiuto con la massima discrezione e segretezza. Anche quando Rachel veniva a prenderla alla stazione, c’era Tonbridge che guidava e poteva sentire tutto quello che si dicevano. A quei tempi, la semplice compagnia di Rachel era per lei un balsamo tale che non aveva bisogno di altro, e così era stato per molto tempo. In seguito però erano sopraggiunti desideri nuovi: averla a letto con lei, e anche su questi era necessario il più stretto riserbo. Il piacere, o qualunque cosa vi si avvicinasse, andava tenuto nascosto non solo agli altri ma anche alla stessa Rachel, che lo trovava incomprensibile e spaventoso. Poi Sid si era ammalata e Rachel era corsa subito a prendersi cura di lei. E dopo... le venivano ancora le lacrime agli occhi al pensiero di come le si era offerta. Forse, pensò ora, riuscire a far apprezzare a Rachel l’amore fisico era stata la sua più grande conquista. Ma anche così, rifletté con una punta di amarezza, doveva comunque vedersela con i suoi sensi di colpa, con la sua fissazione di non meritare tutto quel piacere, con l’obbligo di non anteporlo ai doveri.
Sid trascorse il resto del viaggio assorta in deliziose fantasie sul futuro.
* * *
«Oh, Rupe, mi dispiace. Potrei raggiungerti domani perché i bambini non vanno a scuola. Ma forse è meglio se chiami prima Rachel e le chiedi se per lei va bene. Vuoi che avverta Villy? Va bene. Ci vediamo domani... spero».
Da quando Rupert aveva cominciato a lavorare in azienda, le cose andavano molto meglio per loro: erano riusciti perfino a comprarsi una casa piuttosto cadente a Mortlake, sul fiume. Non era costata molto – seimila sterline – ma era in pessimo stato e spesso, quando il fiume s’ingrossava, il piano terra si allagava nonostante il muro che cingeva il giardino sul davanti e il montatoio che era stato sistemato laddove prima si apriva un cancello. A Rupert tutto questo non importava. Era innamorato delle belle finestre a ghigliottina, delle magnifiche porte e dell’elegante stanza del primo piano che prendeva tutta la larghezza della casa, con un caminetto alle due estremità; adorava le decorazioni a ovoli e lancette e le camere da letto dell’attico che si aprivano l’una nell’altra in una fuga chiusa da una minuscola stanza da bagno con annesso gabinetto, che negli anni Quaranta era stata riammodernata con l’aggiunta di una vasca da bagno color salmone e lucide piastrelle nere.
«Mi piace molto», aveva detto Rupert. «È la casa per noi! Certo, ci sarà da lavorarci. Hanno detto che la caldaia non funziona, ma è solo un dettaglio. Ti piace, vero?».
E lei naturalmente l’aveva assecondato.
Rupert e Zoë avevano traslocato nel 1953, l’anno dell’Incoronazione, e alcuni “dettagli” erano stati risanati: avevano fatto ampliare la cucina con l’aggiunta del retro e avevano cambiato la caldaia, il lavello e la stufa. Ma non potevano permettersi un impianto di riscaldamento, perciò in casa faceva sempre freddo. D’inverno si gelava. Rupert aveva detto ai bambini che sarebbero riusciti a vedere la gara di canottaggio da casa, ma la cosa non aveva suscitato particolare entusiasmo in Juliet. «Alla fine ce n’è sempre una che vince, no? Insomma, si sa fin da subito come va a finire». Secondo Georgie, invece, l’unico sviluppo interessante era la possibilità che le canoe si rovesciassero. Georgie adesso aveva sette anni e da quando ne aveva tre era fissato con gli animali. Possedeva un suo zoo personale, composto da un topo bianco di nome Rivers, due tartarughe che si perdevano di continuo in giardino, dei bachi da seta quand’era stagione, un serpente giarrettiera – anche lui un virtuoso della fuga –, due porcellini d’India e un parrocchetto. Vagheggiava un cane, un coniglio e un pappagallo, ma al momento la sua paghetta non gli consentiva un simile allargamento. Stava scrivendo un libro sul suo zoo e una volta si era messo in un brutto guaio per aver portato Rivers a scuola, nascosto nella cartella. Anche se al momento, ovvero durante l’orario scolastico, Rivers era ben chiuso nella sua gabbietta, Zoë sapeva che li avrebbe seguiti a Home Place. Del resto, aveva fatto notare Rupert, si trattava di un topolino molto discreto la cui presenza tendeva a passare inosservata.
Mentre preparava la merenda – sandwich con le sardine e i biscotti d’avena che aveva fatto quella mattina – Zoë si domandava che ne sarebbe stato adesso di Home Place. Di certo Rachel non avrebbe voluto viverci da sola, ma i fratelli potevano sempre dividersi la proprietà, anche se questo avrebbe significato quasi sicuramente trascorrere lì tutte le loro vacanze. Quanto le sarebbe piaciuto andare all’estero, in Francia o in Italia: Saint-Tropez! Venezia! Roma!
Sentì sbattere la porta d’ingresso, poi il rumore di una borsa che cadeva a terra e apparve Georgie. Portava l’uniforme scolastica estiva: camicia bianca, calzoncini grigi, scarpe da tennis e calzini bianchi. Tutto ciò che doveva essere bianco era invece di un bigio pallido.
«E la tua giacca?».
Abbassò lo sguardo su di sé e disse stupito: «Non lo so. Da qualche parte. Oggi abbiamo fatto sport, e non si porta la giacca quando si fa sport». Il faccino sporco era madido di sudore. Ricambiò il bacio di Zoë con un abbraccio distratto. «Hai dato la carota a Rivers?».
«Oh, no. Me ne sono scordata».
«Mamma!».
«Caro, il topo sta bene. Mangia molto».
«Non è questo il punto. La carota è per non farlo annoiare troppo».
Corse in cucina, urtando una sedia nella fretta. Tornò subito dopo con Rivers su una spalla. Georgie era ancora corrucciato, mentre Rivers, tutto contento, gli annusava l’orecchio e gli ficcava la testolina nel colletto della camicia. «Che importanza ha una stupida giacca in confronto alla vita di un topo?».
«Una giacca non è affatto stupida. E Rivers non correva certo il rischio di morire di fame. Non dire sciocchezze».
«Va bene», le concesse Georgie con un sorriso così disarmante che Zoë si sentì sciogliere come burro al sole. «Facciamo merenda, adesso? Ho una gran fame. Oggi a pranzo ci hanno dato carne avvelenata e uova di rana. Forrester ha vomitato dappertutto e io non sono riuscito a mangiare».
Si sedettero vicini a un’estremità del tavolo. Lei gli scostò dalla fronte i capelli umidi. «Dobbiamo aspettare Jules. Nel frattempo devo dirti una cosa. Stamattina la Duchessa è morta. È morta serenamente, ha detto zia Rachel. Papà va a Home Place oggi stesso, e noi lo raggiungiamo domani».
«Com’è morta?».
«Be’, sai, era molto anziana. Aveva ormai quasi novant’anni».
«Novant’anni sono niente per una tartaruga. Povera Duchessa! Mi dispiace tanto che non ci sia più». Tirò su col naso e si cavò di tasca un fazzoletto in condizioni indescrivibili. «Mi sono dovuto pulire il ginocchio. Comunque è solo terra».
La porta sbatté con forza una seconda volta e Juliet fece il suo ingresso in cucina. «Scusate il ritardo», disse con un tono di voce nient’affatto dispiaciuto, allentandosi la cravatta cremisi e togliendosi la giacca dell’uniforme, che andò a finire per terra insieme alla cartella.
«Che ne è del tuo cappello, cara?».
«È nella cartella. Ci sono dei limiti e quel cappello li supera, credimi».
«Sarà tutto stropicciato», disse Georgie in un sottile misto di adorazione e insolenza. Juliet aveva quindici anni, otto più di lui, e Georgie desiderava le sue attenzioni e il suo affetto sopra ogni cosa. Lei, nei confronti del fratello, alternava una distratta gentilezza a severi giudizi. «Indovina un po’?», fece lui.
Juliet aveva preso posto su una sedia. «Oddio, che è successo?».
«La Duchessa è morta. È successo stamattina. Me l’ha detto mamma, l’ho saputo prima io di te».
«La Duchessa? Che tragedia! È stata uccisa?».
«Naturalmente no. È morta serenamente insieme a zia Rachel».
«È morta anche zia Rachel?».
«No! Intendo dire che zia Rachel le stava vicina. Passeranno ancora anni prima che tu veda un assassinio», aggiunse.
Georgie stava facendo incetta di sandwich, e Rivers ne riceveva un boccone ogni tanto.
«Mamma, quel topo deve proprio stare qui mentre mangiamo?». E poi, sentendosi in colpa per quella frase poco gentile, Juliet assunse la sua posa da primadonna. «Sono troppo sconvolta per mangiare!».
Zoë, che conosceva molto bene gli atteggiamenti della sua bellissima figlia (non erano forse stati anche i suoi quando aveva la stessa età?), disse suadente: «Siamo tutti sconvolti, tesoro. Siamo tristi perché le volevamo bene, ma era molto vecchia e dobbiamo essere contenti che se ne sia andata senza soffrire. Mangia qualcosa, ti sentirai meglio».
«E poi», riprese Georgie, «papà è andato a Home Place e noi lo raggiungiamo domani mattina, se zia Rachel è d’accordo. E lo sarà».
«Ma mamma! Dovevi portarmi a fare spese, a comprarmi i jeans! Me lo avevi promesso!». Al pensiero del torto subito, Juliet scoppiò in lacrime. «Non possiamo comprarli in settimana perché devo andare in quell’orrenda scuola e questo vuol dire che dovrò aspettare altri sette giorni! Tutti i miei amici li hanno. Non è giusto! Non possiamo andare per negozi la mattina e prendere un treno nel pomeriggio?».
Zoë, il cui ultimo desiderio era imbarcarsi in una scenata che poteva non avere più fine, disse stancamente: «Vedremo».
Georgie osservò: «E sappiamo tutti cosa vuol dire. Vuol dire che non faremo quello che vuoi tu, ma che per adesso non te lo diciamo».