Edward e Diana
Ormai era senza freni. Una volta tornati dalla Francia, aveva sguinzagliato un’intera squadra di agenti immobiliari e la loro cassetta della posta si riempiva ogni mattina di brochure di case in vendita. L’unica condizione di Edward era che la casa non fosse troppo lontana da Londra, dato che lui doveva essere in città tutti i giorni.
Hugh aveva suggerito che andasse a Southampton, a dirigere il molo che avevano laggiù, ma Edward sospettava che suo fratello intendesse allontanarlo per mettere fine alle interminabili discussioni sulle proprietà, i soldi e ovviamente la banca. Il suo rapporto sempre più teso con il fratello, a cui aveva sempre voluto bene, gli avvelenava le giornate. Sapeva che c’entrava Diana: secondo Edward, Hugh si era arroccato in un pregiudizio del tutto privo di fondamento. Non aveva fatto nessuno sforzo con lei: rifiutava con scuse trasparenti i loro inviti a cena e non li aveva mai invitati a Ladbroke Grove. Le loro tranquille serate di scacchi o bridge erano un ricordo lontano. Di tanto in tanto si vedevano a pranzo in uno dei loro club, ma perlopiù s’incontravano in ufficio, dove le costanti interruzioni li costringevano a tornare più e più volte sugli stessi argomenti, senza mai avventurarsi oltre. E se la banca si fosse rifiutata di finanziare il loro costante scoperto? (Edward); rinunciare al molo di Southampton avrebbe inciso pesantemente sul loro bilancio (Hugh); e se il molo di Southampton era da tenere, chi doveva gestirlo? Lui era dell’opinione che McIver fosse il candidato ideale; era con loro ormai da trent’anni – non era andato al fronte perché non ci vedeva abbastanza bene – e aveva cominciato come garzone d’ufficio ai tempi del prozio Walter, arrivando alla posizione di direttore di una delle segherie di Londra. Hugh però insisteva che a capo del molo dovesse esserci un membro della famiglia. Il che restringeva il campo a Rupert, che era un caro ragazzo ma non poteva stare a capo di niente, e Teddy, che era promettente ma non aveva ancora l’esperienza necessaria per quel lavoro.
«Ci siamo quasi, caro. Rallenta un po’. È una stradina molto piccola».
E di colpo tornò con sollievo al presente, che era pur sempre la sua dimensione preferita. Stavano andando a vedere una casa appena fuori Hawkhurst, e Diana teneva il foglio con le istruzioni dell’agente posato sulle ginocchia.
«Ecco! È qui. Ci siamo».
Sopra una piccola altura di fronte a loro sorgeva una casa di pietra rettangolare col tetto di ardesia e un portico sorretto da due pilastrini, anch’essi di pietra, ai due lati della porta d’ingresso. Intorno c’era quello che un tempo doveva essere stato il parco di proprietà, ora lasciato al pascolo degli animali. Edward fermò la macchina per alcuni istanti così da poterla osservare da una certa distanza. Una casa semplice, ma con un accenno di grandeur che, ne era certo, Diana avrebbe apprezzato.
«Sembra stupenda. Non vedo l’ora di vedere com’è dentro».
Era molto eccitata da quando l’agente le aveva mandato la descrizione della casa, e questo l’aveva resa più affettuosa nei confronti di Edward di quanto fosse mai stata dal ritorno dalla Francia. Le strinse il ginocchio. «Andiamo, allora».
Era una profumata mattina di settembre, con gli alberi ancora pieni di foglie che cominciavano a cambiare colore. Entrarono in un vialetto stretto con un cancello e una targa che recitava «PARK HOUSE». Mr Armitage, l’agente, doveva essere già lì, perché c’era la sua bicicletta poggiata al muro del portico. Disse che era ben felice di mostrare loro la casa, ma che di solito i clienti preferivano farsi un giro per conto proprio. Se avessero avuto bisogno di lui bastava che lo chiamassero. Aprì loro la porta e andò a sedersi sui gradini bassi che la precedevano.
«Sembra reduce da una sonora sbronza», le sussurrò Edward, e Diana rispose: «Probabilmente è solo di cattivo umore perché gli tocca lavorare il sabato mattina».
La casa era vuota, e questo piacque a Diana. Sulla carta da parati c’erano i segni dei quadri che una volta vi erano appesi. I graziosi caminetti erano pieni di fuliggine e la vernice delle imposte era gonfia di umidità; dappertutto proliferavano grosse ragnatele, nei due bagni c’erano macchie verdastre causate da rubinetti che perdevano e in cucina c’erano tracce evidenti del passaggio dei topi. La perlustrarono da cima a fondo. Le camere da letto erano disposte in ordine di grandezza, le più grandi e lussuose sul davanti della casa, le più piccole e modeste dietro; il salotto con una doppia esposizione aveva un grande bovindo affacciato su un giardino murato; la sala da pranzo aveva una porticina di servizio che la collegava alla cucina, dove c’erano una dispensa col pavimento in pietra, i ripiani di marmo e dei pezzi di carta moschicida punteggiata di grossi insetti, un retrocucina gelido e, giù in fondo, un minuscolo gabinetto umido per la servitù.
«Oh, caro, è perfetta! Non ti sembra? E c’è anche un giardino murato! Ne ho sempre desiderato uno!». Si voltò verso di lui, con quegli stupendi occhi blu accesi di contentezza.
«Se sei sicura di volerla, mia cara...».
«Sono sicura! Anche tu, vero?».
«Certo. Se la vuoi, è tua».
Gli buttò le braccia al collo. «Casa nostra! La nostra prima, vera casa!». Lo baciò, e lui si sentì colmo dei sentimenti di un tempo. Era tornata la vecchia Diana.